Il lavoro più bello del mondo, marinaio e militare.

Una sentita dichiarazione d'amore per il proprio lavoro di Nunzio Giancarlo Bianco

Nunzio manara

Il mio modo di osservare le cose, l’ambiente che mi circonda, l’ascoltare le persone,condividere pensieri, m’ha dato la possibilità di non essere mai superficiale con nessuno, a tutto questo, mettici pure di aver fatto il lavoro più bello del mondo, marinaio e militare.
Nei commenti di qualcuno c’è chi comprende e chi no, ed è giusto così, anzi di chi dissente mi dà modo di pensare, di dirmi a me stesso se il mio scrivere è comprensibile, ma quando al dissenso v’è un collega a lui dico, che non tutta la vita è stata facile, non tutto è stato gioioso, rasenterebbe la perfezione, ma una cosa ho sempre dato il giusto peso, onore all’uniforme, mi sono sempre posto un pensiero fisso fino all’ultimo giorno di servizio, ai diritti, per conquistarli, ad essere riconosciuti, ho innanzi tutto assolto a doveri, ho sempre cercato di dare il massimo.
Il mio lavoro, l’ho sempre considerato una fortuna, nel nostro ambiente militare, rimani in una comunità che, se ti lasci apprezzare, che riconoscono la tua sincerità, che hanno sempre notato il tuo profondo impegno, eri ineccepibile per chiunque e quando, ogni anno arrivavano quelle benedette note sul servizio prestato, la parte di cui tenevo sempre conto era “ha prestato il servizio svolto, con dedizione e passione, e alto senso del dovere”, avevo capito che, avevo dato il massimo.
Ma la magia del militare più grande a mio avviso, oltre a vivere in un mondo sempre giovane è anche, e questo è capitato alla fine della carriera, io lì fra giovani, e donare la mia esperienza, aneddoti, affinché, il mio operato non rimanesse vano e qualcuno dirà, tu ti illudi, forse sarà anche così, ma questo capita anche a un padre quando trasmette la sua vita, e se un figlio ne pensa bene del genitore, lo stesso accade a un ragazzo o ragazza che vive nel nostro ambiente, siamo stati tutti ragazzi, e tutti arriviamo al capolinea lavorativo, l’importante è, lasciare un buon esempio, non importa se il tuo nome viene menzionato, è solo la tua coscienza che trova pace, perché sai che hai dato tutto.
A chi legge, spero solo che comprenda, che il mio scrivere non è altro, un modo di comunicare l’amore per la professione e il rispetto dell’uniforme indossata, è vero, rimane cucita sulla pelle, ma anche se oggi mi diletto nello scrivere, i miei pensieri, non sono altro che travasare esperienze di vita militare, e dico solo, grazie a chi ha la pazienza di comprendere il mio pensiero.

Nunzio Giancarlo Bianco

La Spiaggia Rosa, parte della mia tesi di Laurea.- Luca Bittau

Vorrei raccontare una storia che è parte della mia vita, prima che questa venisse "sopraffatta" dai delfini.

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Nel 2008, 12 anni fa, mi laureai con una tesi di sedimentologia marina, con uno studio sulle spiagge di Cala di Roto (la famosa Spiaggia Rosa), la Spiaggia del Cavalieri e la Spiaggia di Cala Santa Maria, tutte nell'Arcipelago di La Maddalena.
Allora si sapeva ben poco sull'origine del colore rosa di questa spiaggia, simbolo del nostro Parco Nazionale e con Vincenzo, Il Prof. Pascucci per tutti coloro che non sono studenti di Scienze Naturali di Sassari, e con il mio amico Stefano, suo assistente, facemmo non poca fatica a ricostruire le dinamiche che creano questo meraviglioso angolo di paradiso, che l’hanno resa famosa e che la portarono anche a essere immortalata nel film di Michelangelo Antonioni “Il Deserto Rosso”, con attrice protagonista Monica Vitti.
Studiai anche la Miniacina miniacea (il microrganismo responsabile del colore rosa) e trovammo che la percentuale di scheletri di microrganismi (bianchi e rosa) era altissima, fino al 80-90%, paragonabile a quella delle spiagge coralline tropicali (dove però il carbonato di calcio deriva soprattutto da frammenti di coralli), con alcuni campioni ricchi di sedimento rosa paragonabili ad altri che avemmo la fortuna di analizzare grazie al contributo del Parco Nazionale, e che erano stati rubati negli anni 70’ e restituiti. Gli effetti della chiusura si potevano misurare già allora: a poco più di 10 anni dal provvedimento la spiaggia stava riacquistando il suo carattere distintivo.
Mauro, l’allora custode dell’isola, ci aiutò instancabilmente a capire parte dei fenomeni di erosione e deposizione che creano questo miracolo che attira così tante persone nel nostro arcipelago. Nelle foto, alcuni momenti di quel bellissimo e faticoso periodo, durato 4 anni, fatto di immersioni, campionamenti ma anche di tantissime ore passate in laboratorio a lavare, essiccare, setacciare e pesare campioni, spesso col naso sanguinante per aver respirato sabbia. Risparmio i grafici e le statistiche, quelle le lasciamo all'Università :)
C’è anche la testimonianza di come tanti anni di chiusura abbiano fatto bene a questa spiaggia, riportandola ad una condizione di equilibrio e con una deposizione di sedimento rosa che è chiaramente visibile. Chi conosce bene le spiagge, chi parla senza condizionamenti, sa che esse non sono mai uguali, che “respirano”, che cambiano continuamente e che possono scomparire e ricomparire miracolosamente.
Chi le studia sa anche che non è da un singolo episodio che si capisce il loro stato di salute, che gli studi durano anche anni, e che però le spiagge portano i segni della sofferenza ben visibili, per chi li sa leggere. Tra le innumerevoli spiagge che abbiamo in Sardegna, che abbiamo nell'arcipelago di La Maddalena, bellissime e fragili, io credo ancora che questa spiaggia debba rimanere chiusa, ad accesso limitato, magari con una fruizione controllata e rigorosa, da “osservatori discreti”.
Questo posto, che dir si voglia, ormai rappresenta un simbolo, un laboratorio a cielo aperto, un’occasione unica per far sensibilizzazione, per educare al rispetto della natura, perché è un monito, e purtroppo noi uomini abbiamo bisogno di queste cose per ricordarci del danno che possiamo fare e che abbiamo fatto in passato.

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A chi dice che la Spiaggia Rosa non è più rosa... auguro di poterla visitare da vicino (in maniera rispettosa!) per constatare che il "rosa" è ancora là, perché continua ad arrivare dal mare il sedimento rosa. E consiglio di portare gli occhiali da sole, per apprezzare meglio quello che vedranno, perché il riverbero della parte bianca della sabbia è talmente forte da attenuare l'effetto cromatico

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Il sedimento rosa tende a depositarsi "fresco" sul bagnasciuga, ma le onde lo portano poi a depositarsi sulla spiaggia emersa, dove, per effetto dei raggi ultravioletti si "scolora" (non è un processo veloce, comunque). Ecco che allora ne arriva dell'altro, in un continuo rinnovarsi che incanta chi riesce a coglierne la dinamica.

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E a volte appare anche così! Di un rosa intenso, da non credersi, quasi inverosimile. E chi dice che la foto è ritoccata, non conosce la Spiaggia Rosa, e non crederebbe nemmeno a come quel posto diventa al tramonto, quando tutto, davvero tutto, diventa rosso e rosa.

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Non ricordo nemmeno quante immersioni feci, ma fu sorprendente constatare quanto vecchia fosse la prateria di Posidonia di fronte a quella spiaggia. E' quella la vera sorgente della sabbia e l'habitat di quei microrganismi che le danno il colore rosa.

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Il Side Scan Sonar, lo strumento che usammo per ricostruire le immagini della conformazione del fondale della cala e osservare alcune forme di erosione della prateria di posidonia.

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Non era semplice navigare su un gommone con uno strumento costosissimo al traino e un computer legato alla plancia che potrebbe bruciarsi per un po' di gocce d'acqua salata...

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Una delle innumerevoli misurazioni effettuate in tutte le spiagge studiate (ovviamente con tutti i permessi per la ricerca!!

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La batteria di setacci usata in laboratorio all'Università per separare le varie parti di un campione, tutte con uguale granulometria (diametro dei grani di sabbia). Il problema che saltò fuori era di farlo senza rompere questi granuli, che nel caso della spiaggia rosa erano anche fragili! 

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Una delle immersioni che servivano per campionare la spiaggia sommersa, che costituisce la superfice maggiore di una spiaggia, anche in termini di volumi di sabbia.

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Fu incredibile osservare anche a occhio nudo cone il ridotto impatto dell'uomo creasse microhabitat in buone condizioni, sia nell'ambiente somerso che sulla linea di costa.

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La tecnica che allora mettemmo a punto viene usata ancora oggi (il Prof. la chiama "metodo "Bittau", ma io preferirei evitare) e consente, con pochi soldi, di avere precisi campioni di sabbia dai fondali che si devono studiare.

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La Miniacina miniacea, il foraminifero che cresce su substrati organici e che, una volta distaccato, va a formare la frazione rosa della sabbia della Spiaggia Rosa. Oggi è conosciuta anche dai bambini delle scuole elementari, ma allora completamente sconosciuta ai più, se non per averne già parlato nel libro che uscì qualche anno prima, e che scrissi con Marco Leoni e Fabio Presutti.

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Un campione di sabbia osservato al microscopio, non a forte ingrandimento. Si osservano frammenti di briozoi, echinodermi, molluschi, foraminiferi e, naturalmente, di Miniacina miniacea.

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Alcuni campioni di Miniacina miniacea, osservati al microscopio elettronico. Da questa immagine si capisce perché si chiamino foraminiferi, "portatori di fori, cavità".

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Questi gusci calcarei sono il segreto della Spiaggia Rosa, gusci di tante specie di microrganismi marini che, rompendosi in minuscoli frammenti, costituiranno la parte bianca della sabbia. E non solo: costituiscono gran parte dei fondali che ci deliziano con i loro colori,dallo smeraldo al blu. Tutti questi microrganismi vivono sotto e tra le foglie di Posidonia ocanica. E' lei la ragione dell'esistenza di questa e di tante altre sabbie candide nel Mediterraneo e dei colori che rendono così belli i fondali sabbiosi dei nostri mari.

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Il campione di sabbia rosa "rubato" negli anni 70' e che ho avuto la fortuna di poter studiare, grazie alla concessione del Parco Nazionale dell'Arcipelago di La Maddalena, per comparare quanto fosse cambiata la percentuale di sedimento rosa in 30 anni.

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La cosa incredibile di quel posto è che tutto ricorda il colore rosa: perfino i "ripples", le piccole formazioni sommerse sul fondale, sono rosa! con quei depositi di Miniacina che si accumulano tra le piccole creste..

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Ed ecco come le lamine di sedimento rosa vengono "catturate" dagli strati di sabbia, così come qualsiasi altro sedimento

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Tra le tante cose, ho anche effettuato alcuni voli con un piccolo aeroplano (il mitico Jabiru!) per poter fotografare la spiaggia dall'alto. Ebbene si: allora non esistevano ancora i droni! — con Gianluca Mosino

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Non nascondo che vederla da lassù toglieva ancor di più il fiato.

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Ecco come si presentava, e si presenta anche oggi quel tratto di costa dell'Isola di Budelli: centinaia di barche da un lato (mi pare che in questa foto se ne contino più di 300) con le relative ancore, e subito oltre quel piccolo promontorio... nessuna! il silenzio. Forse quel silenzio faceva e fa meraviglia ancora oggi, per chiunque visiti quel posto meraviglioso.

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Ed ecco com'era la Spiaggia Rosa negli anni 80' (credo), quando migliaia di persone potevano scenderci, e quando molti potevano portare via un po' di sabbia come ricordo. Mi dissero che quel "souvenir" gli venisse anche suggerito. Io non l'ho mai vista così, nè la vorrei mai vedere così. (Non so di chi sia questa foto, mi scuso e spero si faccia vivo l'autore).

Questo articolo è stato estratto da un post di Mauro Morandi custode di Budelli, che a sua volta ha condiviso quello dell'autore Luca Bittau.

A loro va il mio particolare ringraziamento.

Plastica Addio! Dal Veneto arriva la pellicola per cibi 100% naturale fatta dalle api

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Un’ idea ecologica ed innovativa quelle che arriva da Castelfranco Veneto dove si pensa a soluzioni alternative per liberarsi una volta per tutte dalla plastica

sostituendola con un materiale ecologico 100% naturale, composto da fibra di cotone olio di jojoba e ingrediente speciale, la cera d’api, che a differenza della pellicola trasparente di plastica, non inquina e può essere riutilizzato 100 volte per singolo foglio.

Apepak è fatto di cotone biologico certificato Global Organic Textile Standard, o riciclato dagli avanzi dei laboratori tessili italiani. La cera d’api, la resina di pino e l’olio di jojoba sono forniti da apicoltori e aziende italiane, con quindi una grandissima cura per i dettagli e le materie prime

Questo super materiale di chiama Apepak e l’idea e la realizzazione vengono dalla cooperativa sociale Sonda, che sta facendo parlare molto di sè grazie ai social,

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e Apepak si presenta come un panno di cotone, che lavorato con cera d’api e olio di jojoba diventa modellabile e resistente ad unto e perdite, così da poter essere utilizzato per ricoprire gli alimenti, Il vantaggio è quello di non usare la plastica, di avere un prodotto riutilizzabile e che alla fine del suo ciclo di vita non inquina

è traspirante e permette quindi che il contenuto avvolto respiri, perfetto quindi per i prodotti come pane e prodotti di panificazione per evitare che l’umidità li renda molli. Perfetto anche per frutta e formaggi, per mantenerli freschi ed in buone condizioni a lungo,

Apepak sostituisce gli involucri usa e getta di carta, plastica e alluminio, così da:
Risparmiare 9 kmq di involucri di plastica all’anno
Remunerare 30 minuti di lavoro di un socio svantaggiato di Sonda Società Cooperativa Sociale Onlus
Remunerare 3 giorni di lavoro di api da miele italiane
Sostenere l’agricoltura di cotone biologico e dare una nuova vita agli avanzi dei laboratori tessili italiani.

La cooperativa ha un laboratorio a San Vito di Altovole, e li sta già producendo e sperimentando questa nuova pellicola, anche grazie all’aiuto di un gruppo di volontari che la sta testando per capire come migliorare il prodotto per renderlo unico nel suo genere,

Francesca Amato, vicepresidente della cooperativa racconta a TribunaTreviso:

“L’idea ci è arrivata da un nostro amico negli Usa che ha registrato il marchio Apepak. Per noi però ha anche un’altra valenza: quella che questa produzione si trasformi in posti di lavoro per persone svantaggiate, Ci sono già alcuni prodotti similari ma stiamo cercando di avere un prodotto più ecologico possibile.”

l’idea della cooperativa non è solo quella di creare un prodotto completamente ecologico e buono per l’ambiente, ma anche quella di inserire e dare lavoro a persone in difficoltà

Ecco cosa si legge sul sito internet di ApePak:

L’ALTERNATIVA NATURALE AGLI INVOLUCRI DI PLASTICA
Dopo una vita di sogni e un anno di sviluppo, eccovi la nostra idea:
Apepak sostituisce gli involucri usa e getta, ​È durevole, multiuso, malleabile, antisettico, sigillante, biodegradabile…

Apepak è perfetto per portare un panino a scuola, la frutta in ufficio, far lievitare un impasto
o sigillare il piatto degli avanzi. E tu, come lo userai?

Bella idea, italiana, per tutti gli appassionati di sostenibilità e per chi vuole ridurre i consumi di plastica monouso!

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Ecco il sito internet di ApePak

FONTE: Logo positizie

A Tortona il mare tutto in un museo

Riporto un articolo di sicuro interesse per chi può andare a visitarlo

Entrata museo tortona

Se Novi Ligure con il suo nome può trarre in inganno e far pensare alla vicina Liguria, questo rischio non si corre con Tortona... Eppure proprio la città ospita un ricco e interessante Museo del mare e anche un monumento ai Caduti del mare, realizzato nel 2006 dall’Associazione Nazionale Marinai d’Italia ( A.N.M.I.) "Lorenzo Bezzi - Gruppo di Tortona".

In occasione della “Domenica del Mare", vogliamo visitarlo “virtualmente" con voi per invitarvi a farlo, prossimamente, di persona. Lasciando la via Emilia, a metà di via Pernigotti, si apre la porta sul mondo marino e a fare gli onori di casa è il capitano di lungo corso Franco Pernigotti. presidente dell'associazione "Amici del Museo del mare di Tortona", che con il suo sorriso aperto e la barba bianca, da vero marinaio accoglie piccoli e  grandi. La realtà museale è nata grazie al gruppo  Marinai d’Italia “Lorenzo Bezzi", ed è stata inaugurata ufficialmente il 10 giugno 2010; su una superficie di circa 300 mq ospita più di 1500 reperti ed è gestita dai volontari dell’associazione.

PernigottiCome nasce il legame tra Tortona e il mare? Grazie alla presenza sul territorio di rinomate aziende metalmeccaniche (Orsi. Cmt. Graziano) che fornivano alla marina militare giovani operai esperti (siluristi. motoristi, ecc.) per la "leva di mare", molti dei quali, una volta ottenuta la specializzazione,  proseguivano la carriera marinara. L’immagine dell’ammiraglio Carlo Mirabello. posta all'ingresso in bellavista, insieme ad alcuni cimeli della sua vita, ricorda chi è il personaggio a cui è intitolato il complesso. Mirabello, famoso tortonese, nacque il 17 novembre 1847, e oltre a ricoprire importanti incarichi militari, nel novembre 1903 fu nominato ministro della Marina, ruolo che mantenne fino al 12 dicembre 1909, pochi mesi  prima della morte avvenuta a Milano il 24 marzo 1910. Di fronte al suo ritratto campeggia quello di Lorenzo Bezzi, tortonese classe 1906, capitano di corvetta, che, dal 1° giugno 1940. ebbe il comando del sommergibile "Liuzzi”. Il giorno 27 dello stesso mese, durante una missione di guerra nelle acque del Mediterraneo orientale, fu attaccato da parte di 5 unità inglesi, e il sommergibile, subendo gravissime avarie, fu costretto ad emergere. Essendo vana ogni possibilità di difesa. Bezzi mise in salvo l'equipaggio e predispose l’autoaffondamento negli abissi.

museoProseguendo il viaggio all’interno delle sale si possono ammirare la ricca collezione di conchiglie, coralli e di esemplari della fauna marina e i numerosi modelli di navi, alcuni dei quali realizzati dallo stesso Pernigotti. Uno di questi, di recente acquisizione. riproduce la baleniera Essex, dalla quale storia Herman Melville trasse spunto per scrivere il suo capolavoro Moby Dick. Tra gli innumerevoli oggetti di grande valore storico, un posto importante lo occupa la macchina crittografica tedesca "Enigma" che rappresenta una pagina di storia della seconda guerra mondiale. La decrittazione dei messaggi cifrati prodotti, fornì informazioni alle forze alleale. Non manca una  ricca documentazione fotografica della vita sulle navi, insieme al "diario di guerra” di un marinaio che partecipò al primo scontro navale contro i tedeschi, dopo l’8 settembre 1943 e al giornale di bordo del Guardiamarina tortonese Fausto Remotti, con la cronaca del viaggio della pirofregata "Garibaldi" nella campagna del 1872. Tra i pezzi originali vi è anche un siluro a lenta corsa detto “maiale", utilizzato nelle imprese belliche dai sommozzatori. Singolare anche la presenza di una campana ucraina, giunta in Italia negli anni ’90 con un gruppo di fuoriusciti ucraini, provenienti da Kiev, che su tre imbarcazioni, attraversato il Mar Nero, lo stretto del Bosforo, il Mar di Marinara, i Dardanelli e il Mar Egeo, fecero rotta in Italia e  approdarono sulla costa Ligure. In segno di ringraziamento donarono a chi li aveva accolti le tre campane che avevano con sé. Importanti oggetti sono stati affidati in "prestito" al Museo dalla Curia vescovile e tra questi vi è un enorme planisfero che. a sua volta, nascondeva un'antica mappa celeste del ’70(). Per chiudere in bellezza si può fare una foto con un vero esemplare di orso bianco imbalsamato. Si trova nella sala dedicata al salese Pietro Achille Cavalli Molinelli, medico di bordo sulle navi da guerra e amico del Duca degli Abruzzi  Luigi di Savoia che seguì nelle spedizioni al Polo Nord, dove riuscì a catturare l’animale e in Africa.

Non resta che iniziare a navigare insieme a Franco Pernigotti e agli "Amici del mare" ogni sabato dalle ore 9 alle 12 e dalle 16 alle 19. con ingresso libero. Per prenotazioni si può telefonare (celi. 348 1498791).

Daniela Catalano

FONTE: Logo museotortona Museo del mare di Tortona

Affondando nel blu, i misteri dei canyon sottomarini e dei vortici oceanici profondi

Un altro interessantissimo articolo dal sito Ocean4future

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Cosa sappiamo dei fondali abissali?
Per assurdo gli abissi del mare sono ancora un mistero per l’Uomo, sia dal punto di vista biologico che oceanografico. La nostra conoscenza sembra ridursi in funzione della profondità, dove la luce non penetra e tutto scompare. E’ solo grazie alla ricerca oceanografica che molti dei suoi misteri sono stati rivelati. Nelle profondità degli oceani, l’orografia in alcuni casi sembra ricalcare quella di superficie con montagne, altopiani e spaccature di dimensioni equivalenti se non maggiori del Grand canyon statunitense. Profonde fenditure che raggiungono le piane abissali, spesso estendendosi dalla costa fino al profondo bordo del mare della piattaforma.

Genesi dei canyon profondi 
Ci sono molte teorie sulla loro origine che non si escludono l’una dall’altra. Gli scienziati ritengono che i canyon si siano formati in Ere lontane a seguito di violenti fenomeni geologici e atmosferici che formarono queste gigantesche fenditure della Terra, modificando profondamente i contorni dei fondali.

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Queste spaccature, originatesi milioni di anni orsono,
si spingono verso il largo, sprofondando negli abissi,
antiche testimonianze di quando i mari erano molto più bassi

Alcuni si formarono durante le glaciazioni, altri a causa del trasporto dei sedimenti generati da frane sottomarine di enormi masse di roccia. Nella loro genesi concorsero gli effetti dell’idrodinamismo (in particolare a seguito di violente tempeste) ed i movimenti orizzontali e verticali causati da eventi sismici provocati dalla frizione delle falde.  

canyon sottomarini

Profonde ferite della Terra
La ricerca oceanografica moderna ha individuato molti di questi antichi canyon che ancor oggi nascondono molti segreti. Anticamente i livelli dei mari erano più bassi a causa delle glaciazioni che occupavano gran parte del pianeta. Questi canyon erano in superficie ed ospitavano fiumi turbolenti che scavavano le pareti rocciose (come il fiume Colorado nel Grand canyon), trasportando sedimenti e detriti verso i proto mari. Con l’innalzarsi delle temperature, i ghiacci si sciolsero ed il livello dei mari si sollevò, sommergendo queste imponenti strutture geologiche. 

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Il canyon sottomarino più grande e profondo mai scoperto è stato scoperto nel Mare di Bering ed è stato chiamato Zhemchug Canyon. Le sue dimensioni sono straordinarie; per dare un’idea è più profondo del Grand Canyon1 ed ha un rilievo verticale che scende dalla piattaforma poco profonda del Mare di Bering fino alle profondità abissali del Bacino aleutiano fino ad una profondità di 2600 metri, estendendosi su un’area di 11.350 chilometri quadrati. Il canyon di Zhemchug si divide in due rami principali, ciascuno più grande di uno dei canyon marini continentali più famosi, il Monterey Canyon.

In quelle fredde e profonde acque ricche di ossigeno, flussi di correnti trasportano nutrienti planctonici che risalgono dalle profondità del canyon verso la superficie, fornendo sostentamento a numerose forme di vita. 

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Un granchio reale d’oro (Aequispinus lithodes)
su una spugna raccolti durante le ricerche nel
Zhemchug Canyon nel mare di Bering

Oltre agli aspetti geologici, il canyon di Zhemchug è quindi un habitat importante per molte specie della fauna marina oceanica. Ad esempio, mammiferi marini come le foche nordiche, i delfini e molte specie di balene vivono in quelle acque. Sulle pareti rocciose si ritrovano invertebrati, coralli e spugne. Tra di essi anche dei curiosi granchi che sono stati raccolti perla prima volta dai ricercatori della nave oceanografica M/V Esperanza che, da molti anni, studia le caratteristiche geologiche e biologiche del canyon. Nel 2016, l’oceanografa Michelle Ridgeway esplorò il canyon in una spedizione sponsorizzata da Greenpeace, raggiungendo la profondità di 536 metri sotto la superficie, scoprendo un habitat biologico straordinario.

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Un altro interessante canyon marino è il Canyon di Perth, situato al largo della costa dell’Australia occidentale. Secondo gli scienziati dell’Ocean Institute della University of Western Australia, che hanno condotto tra i primi l’esplorazione di questo canyon sottomarino, hanno scoperto che si estende dalla piattaforma continentale per oltre quattro chilometri sul fondo oceanico. Utilizzando sistemi di mappatura all’avanguardia ed il ROV della nave da ricerca Falkor, gli oceanografi lo hanno seguito fino ad una profondità di oltre 2000 metri, mappandone dettagliatamente 154 miglia quadrate.

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Batimetria del grande canyon di Perth, Australia

Anche in questo caso, il canyon sommerso si è dimostrato un hot spot straordinario per la vita marina, attirando molti mammiferi marini grazie alla sua ricchezza ittica. Durante l’esplorazione i ricercatori hanno incontrato innumerevoli organismi tra cui anemoni venere ed un meraviglioso corallo dorato.

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La vita sul fondo del canyon Zhemchug 

Inoltre, lungo le sue pareti, sono state catalogate numerose creature abissali tra cui stelle e coralli molli a fungo. L’esplorazione ha impiegato sistemi allo stato dell’arte, che hanno permesso di raccogliere informazioni su queste strutture geologiche ma anche di ritrovare sul fondo un glider (un veicolo autonomo subacqueo impiegato per le ricerche oceanografiche) che era scomparso due anni prima.

Probabilmente, il canyon di Perth si formò più di cento milioni di anni fa, quando un antico fiume lo generò nella regione emersa che separava l’Australia occidentale dall’India. Una zona geologica particolare in cui la crosta terrestre e la litosfera si trovano in condizioni tettoniche distensive. Sotto l’azione delle forze generate dai movimenti convettivi del mantello terrestre sottostante, la crosta e la litosfera vennero separate, creando così questa profonda spaccatura.

Lo studio di queste enormi spaccature oceaniche fornisce la possibilità di conoscere habitat straordinari dal punto di vista geologico e biologico ma anche di comprendere meglio i fenomeni profondi delle masse d’acqua.

Attraverso l’analisi dei dati satellitari sono stati scoperti fenomeni oceanografici di grande importanza in prossimità dei canyon. Ad esempio, nelle vicinanze del canyon di Perth, nel giugno del 2006, è stato osservato dallo spazio un misterioso vortice profondo di 200 chilometri di diametro posto a mille metri di profondità che potrebbe influenzare gli equilibri che regolano il clima del pianeta.

I vortici profondi
Come ricorderete, gli oceani assolvono una funzione fondamentale sul cambiamento climatico perché contribuiscono ad assorbire le emissioni di anidride carbonica in maniera significativa. Un’azione importante per la nostra sopravvivenza che, solo negli oceani meridionali, trattiene il 40% della CO2. Alcuni scienziati ritengono che queste strutture geologiche possano in qualche modo modificare la circolazione dei volumi d’acqua al punto di creare vortici profondi abissali che faciliterebbero il trasferimento dell’anidride carbonica nelle profondità dell’Oceano, influenzando di conseguenza il clima del pianeta. 

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La natura dei grandi vortici profondi oceanici non è conosciuta ma si ritiene che siano generati dalle interazioni delle correnti e dei venti con le strutture sottostanti. Il primo vortice abissale fu scoperto da un satellite e venne descritto dagli scienziati come una “trappola marina mortale“, in quanto capace di risucchiare molte specie viventi, comprese le larve di pesce pelagiche che sono un importante nutrimento per le forme maggiori di vita marina. Quale sia il suo ruolo negli scambi chimico fisici delle masse d’acqua è però un mistero ancora tutto da scoprire.

Vortici oceanici simili ai buchi neri

Il vortice abissale dallo spazio

In uno studio pubblicato sul Journal of Fluid Mechanics, un team di scienziati ha analizzato i dati rilevati dalle immagini satellitari ed ha presentato un interesse modello matematico che li assimila ai buchi neri nelle profondità dello spazio. Gli scienziati ritengono che i canyon sottomarini potrebbero facilitare la formazione di questi vortici, facendo convergere le forze che li generano. Una tesi interessante che richiederà ulteriori studi nelle profondità degli abissi per capirne i segreti.

1 il Grand canyon ha un’altezza rispetto alla sua base di 1857 metri

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FONTE:logo ocean4future

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Al via i lavori del nuovo molo crociere di La Spezia

L’appalto da 47,9 milioni di euro porterà alla realizzazione di due accosti da 393 e 339 metri di lunghezza. Adsp mantiene il riserbo sulle modalità di produzione dei cassoni

molo crociere spezia

È partita stamattina la fase esecutiva dei lavori del nuovo molo crociere del porto di La Spezia.

Ne ha dato notizia l’Autorità di sistema portuale con una nota: “Il Segretario Generale Federica Montaresi, il Responsabile del progetto, Ing. Fabrizio Simonelli e l’Ing. Davide Adreani, procuratore speciale del raggruppamento di imprese aggiudicatarie dei lavori costituita da Fincosit srl -capogruppo, Agnese costruzioni e Rcm, hanno preso parte questa mattina al sopralluogo nelle aree di Calata Paita e dato il via ai lavori con la sottoscrizione del verbale di consegna. L’ufficio della direzione dei lavori ha accertato lo stato dei luoghi e verificata la procedibilità all’esecuzione dei lavori”.

L’ente ha spiegato che “si comincerà con la bonifica bellica superficiale e profonda degli specchi acquei antistanti Calata Paita, l’avvio del piano di monitoraggio ambientale e relative attività correlate. Seguiranno le attività di consolidamento del fondale marino per poi passare alle fasi realizzative della struttura di banchina che consentirà l’approdo di navi da crociera di seconda generazione su due accosti elettrificati di 393 e 339 metri”.

L’importo del contratto di appalto è di 47.894.834,75 euro oltre a 542.461,80 euro per oneri della sicurezza non soggetti a ribasso. Il progetto ha un quadro economico di spesa di 57 milioni di euro ed è cofinanziato dal fondo complementare al Pnrr per 30 Milioni di euro. La durata prevista dei lavori è stimata in 710 giorni.

“L’avvio del cantiere del nuovo molo crociere, ha commentato con soddisfazione il Presidente Mario Sommariva, costituisce una tappa fondamentale nel percorso di sviluppo del settore crocieristico per il porto della Spezia e nella trasformazione urbanistica in chiave turistico ricettiva delle aree di Calata Paita che saranno interessate dal nuovo Waterfront cittadino”.

Malgrado la reiterata richiesta di informazioni, anche attraverso procedura di accesso agli atti, resta l’incognita su alcuni dettagli delle modalità di realizzazione, dal momento che da mesi l’Adsp glissa sul punto. In particolare il contenzioso sull’appalto, che aveva condotto all’annullamento della prima aggiudicazione (a una cordata guidata da Fincantieri) e allo slittamento, quindi, dell’avvio dei lavori, aveva fatto emergere come la cordata risultata alla fine aggiudicataria avesse proposto all’ente di realizzare parte dei cassoni destinati all’opera in loco e parte a Genova, nello stesso sito in cui Fincosit avrebbe dovuto realizzare i cassoni per la nuova diga del capoluogo. Il dettaglio non è irrilevante, dal momento che come è noto questo cantiere, previsto inizialmente a Genova Pra’, ha dovuto essere spostato a Vado Ligure, con ovvio impatto in termini di tempi sull’allestimento dell’area e sull’avvio della produzione: non è chiaro quindi se e come tale circostanza possa riverberarsi anche sull’appalto spezzino.

A.M.

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FONTE:SHIPPING ITALY

Balene alle Isole Canarie

AVVISTAMENTO DI CETACEI NELL’ARCIPELAGO

Balene canarie cop

La ricchezza dei fondali marini delle Isole Canarie, la trasparenza e le eccellenti temperature delle sue acque, con una media di 19º C in inverno e 25º C in estate, attirano molti animali marini. Il grande vantaggio dell'arcipelago rispetto ad altri luoghi di osservazione è che molti di questi animali vi abitano stabilmente. Si tratta delle cosiddette specie residenti.

Ciò fa sì che alle Isole Canarie si possano trovare quasi 30 specie diverse, tra cui la balenottera azzurra e i delfini. La loro presenza è così comune che le isole sono diventate il luogo più importante d'Europa per osservarli in libertà. Poter godere di questi mammiferi e contemplarli in totale libertà nel loro habitat naturale è un'esperienza davvero indimenticabile per tutta la famiglia.

Delfino

Nelle Isole Canarie è possibile osservare fino a sei diverse specie di questi mammiferi acquatici, considerati tra gli animali più intelligenti del pianeta. Vedere i delfini in mare all'alba, dalle barche o perfino da alcuni punti della costa, è diventato un qualcosa di molto frequente per gli isolani.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Delfín

È molto frequente trovare il tipo di delfino più grande del mondo alle Isole Canarie, perché è dove vive stabilmente. Questo animale estremamente amichevole viaggia sempre in gruppo, interagendo e giocando con gli altri membri del suo branco. Il loro alto livello di socievolezza fa sì che non sia raro vederli avvicinarsi alle barche.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Calderón

Il capodoglio, che può arrivare fino a 20 metri di lunghezza, è uno dei mammiferi più grandi del mondo. Sebbene alle Isole Canarie sia possibile trovarli, il loro avvistamento non è così comune, perché tendono a immergersi frequentemente. Quando sono alla ricerca di cibo, le loro immersioni possono durare 35 minuti e raggiungere i 3 chilometri di profondità.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Cachalote

È la famiglia di cetacei misticeti più diversificata e varia, che comprende la megattera, uno dei residenti abituali delle Isole Canarie, che può arrivare fino a 16 metri di lunghezza. Per la sua forma particolare, è facilmente riconoscibile. Oltre al barbiglio, ha una gobba molto caratteristica che la differenzia dagli altri cetacei.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Rorcual

 Libertà e protezione garantite

Le imbarcazioni abilitate per l’avvistamento di cetacei con le quali è possibile osservare delfini e balene esibiscono il distintivo Blue Boat, un sigillo che indica che adempiono le leggi e le normative che assicurano il trattamento rispettoso delle riserve marine e garantiscono la protezione degli animali che vivono nelle acque delle Isole Canarie.

 

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Barco

Gli appassionati che vogliono vivere l'esperienza di osservare i cetacei nel loro habitat naturale devono seguire in ogni momento le raccomandazioni dei professionisti del settore nelle Isole Canarie, i quali, conoscendo il comportamento di questi animali marini, ti guideranno attraverso le acque cristalline in qualsiasi periodo dell'anno.

 

FONTE:Logo canarie

Breve storia dell’autorespiratore a ossigeno – prima parte

Dal sito Ocean4future una lezione sugli autorespiratori ad ossigeno a cura di Fabio Vitale

Fleuss

 

Scritto da Fabio Vitale

REX29 1 Autorespiratore

Autorespiratore ad ossigeno (ARO) prodotto dalla Cressi
sub, completo di due bombole e di maschera simile ai
modelli usati durante la guerra dai nostri sommozzatori
… ma quando nacquero i primi autorespiratori ad ossigeno?

La nascita degli autorespiratori ad ossigeno

Questa storia, come tutte le storie che parlano di invenzioni, nasce da lontano ma si materializza verso i primi anni del 1900 quando, frutto dell’evoluzione degli studi sull’ossigeno (scoperto scientificamente nel 1771 per merito del farmacista svedese Karl William Scheele), si vedono sulle pagine dei periodici illustrati, immagini di uomini muniti di strane apparecchiature che, indossate, li rendevano al contempo mostruosi e affascinanti. Siamo negli anni del grande sviluppo industriale dove tutto era frenetico: le scoperte, la produzione industriale, l’estrazione di materie prime e soprattutto la produzione di energia utile a tutti questi processi, energia prodotta per lo più bruciando enormi quantità di carbone.

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Apparato di soccorso a ossigeno a circuito chiuso te­desco
Draeger modello 1916/1917. Il primo modello fu
commercializzato nel 1903 e subì successivamente quattro
modifiche arrivando in ultimo al modello 1916/1917.
Era sicuramente uno dei più affidabili e fu usato largamente
in tutto il mondo. (da Self-contained mine rescue
oxygen breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

La sua estrazione avveniva in miniere che si moltiplicavano a vista d’occhio e con esse cresceva anche il numero degli incidenti e dei minatori coinvolti nelle viscere della terra. Incidenti dovuti alla presenza, naturale in questi giacimenti, del grisou, un gas inodore e incolore contenente prevalentemente metano, molto infiammabile che già a una percentuale intorno al 7/10% costituiva una miscela esplosiva molto potente. L’accumulo di questo gas nelle gallerie provocava spesso delle esplosioni e degli incendi che rendevano la miniera impraticabile per lo sviluppo dei fumi tossici. Proprio per prestare soccorso ai minatori coinvolti in questi incidenti, si sviluppò quindi l’autorespiratore a ricircolo di ossigeno che permetteva di addentrarsi in ambienti invasi da gas tossici senza correre il rischio di rimanerne avvelenati. Erano facili da usare, assolutamente pratici perché autonomi e non necessitavano di manichette di rifornimento da trascinarsi appresso.

4

Apparato inglese a ossigeno a circuito chiuso Fleuss-Proto
costruito dalla Siebe & Gorman. Derivava da uno dei primi
autorespiratori a ossigeno a circuito chiuso ideato dal
pioniere inglese Henry Albert Fleuss nel 1878/79. Venne
adottato principalmente dalle forze armate in­glesi e
americane (da Self-contained mine rescue oxygen
breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

L’operatore respirava l’ossigeno fatto affluire all’interno di un “sacco polmone” secondo la tecnica del circuito chiuso. In pratica, si inspirava l’ossigeno posto all’interno di questo sac­co e, sempre nello stesso sacco, veniva espirata l’aria proveniente dai polmoni, ric­ca quindi di anidride carbonica e con il residuo ossigeno non utilizzato. Il gas espirato pri­ma di arrivare nel sacco polmone passava at­traverso un filtro riempito di un composto chimico a base di soda che serviva a trattenere la dannosa CO2.

Al sacco erano collegate una o più bombole di ossigeno che lo facevano affluire nel sacco in quanto necessario a reintegrare quello consumato du­rante la respirazione. In questo modo si pote­va respirare senza contatto con l’atmosfera esterna, dove potevano essere pr­esenti i gas venefici. Sfogliando libri e cataloghi dell’epoca vediamo come la maggior parte di questi autorespiratori venisse prodotta dalle stesse aziende molto attive nel campo subacqueo e cioè nella produzione di apparecchiature da palombaro. E’ evidente che l’esperienza cumulata nella ricerca sulle apparecchiature di immersione favoriva tutto quello che ruotava sui sistemi di respirazione.

 

5

Apparato americano a ossigeno a circuito chiuso McCaan.
Raccoglieva le esperienze tedesche e inglesi in un
autorespiratore molto compatto (da Self-con­tained mine
rescue oxygen breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

 

Dall’uso “terrestre” a quello subacqueo il passo fu breve, anche se la cosa, in fin dei conti, non prese un grande sviluppo. Infatti, l’uso dell’ossigeno puro come gas respiratorio per le apparecchiature subacquee poneva forti limiti per la sua tossicità se respirato sotto pressione. Inoltre non si riusciva a vedere l’utilità operativa di un uomo sott’acqua munito di tale autorespiratore così limitato (non dimentichiamoci che le pinne non erano ancora state sviluppate), per lavorare sott’acqua l’attrezzatura riconosciuta era solo lo scafandro da palombaro e niente avrebbe potuto prenderne il posto. L’unico uso che se ne fece fino alle soglie della seconda Guerra Mondiale fu quello di autorespiratore di emergenza per la fuoriuscita dai sommergibili in avaria. Per vederlo trasformato da brutto anatroccolo in cigno dovremo attendere il genio di due italiani che indirettamente ne decreteranno il successo.

Sono interessanti i disegni del brevetto dell’apparato di respirazione a ossigeno a circuito chiuso depositato da Fleuss nel 1879. Come si può evincere dal disegno, attraver­so l’uso di uno scafandro da palombaro modificato, era stato previsto anche un uso subacqueo per questo di­spositivo. Fleuss non fece altro che migliorare e rende­re fruibile quanto già ideato verso la metà del 1800. In­fatti, a tale periodo si possono ricondurre le prime rea­lizzazioni di un autorespiratore a circuito chiuso costi­tuito da bombole di ossigeno e un contenitore con all’interno i reagenti chimici in grado di fissare la CO2.

aro fleuss

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Si trattava dell’apparato del francese Sandala del 1842 e di quello di un altro francese, de Saint-Simon Siccard del 1849. Le prime sperimentazioni subacquee di questi apparati furono spesso rischiose e sarà solo nel 1879, grazie a Paul Bert, che si chiariranno gli aspetti di tossicità legati alla respirazione di ossigeno puro sotto pressione.

Fine prima parte – continua 

Fabio Vitale

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Dell’autore si consiglia la lettura dei seguenti libri:

autore amazon

Fabio Vitale1 


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Carmagnola 2023, Varato il Gruppo Navy Social dell'Associazione I Delfini ODV

Bellissima iniziativa a Carmagnola (TO) da parte della locale sezione ANMI ed del Museo Civico Navale 

ragazzi digiugno1

I  tre giovani...: Lidia Bergia, al primo anno al politecnico di Milano, Federico Lusso, 5 anno liceo scientifico scienze applicate di Carmagnola, William Di Giugno 1 anno università Scienze politiche di Torino.... con il Presidente Giuseppe Di Giugno

 

Carmagnola 2023,

Varato il Gruppo Navy Social dell'Associazione I Delfini ODV a cui l'Anmi di Carmagnola e il Museo Civico Navale di Carmagnolahanno affidato la creazione e la cura di tutte le pagine Social  I Marinai di Carmagnola, I Delfini, il Comac e il Museo grazie al lavoro e al "cuore" di questi ragazzi navigheranno a vele spiegate nel grande mare di internet...

In queste settimane il Gruppo creato dall'Associazione I Delfini ODV lavorerà alla creazione delle pagine Social (Facebook/Istagramm/Tik Tok ) in primis dei Delfini... scadenza domenica 3 dicembre 2023 in cui saremo in tutti e tre i canali pienamente operativi. Naturalmente come da tradizione dei Delfini (che da più di vent'anni effettuano opera di volontariato per il Museo Navale, per la città di Carmagnola, e per il Comac...) a questa squadra di operativi della rete appunto i nostri Navy Social... Il Museo Navale e Il Gruppo Anmi di Carmagnola hanno deciso di affidare la creazione o la cura di tutti i propri canali Social... Questo permetterà da un lato una nuova gestione fresca e dal taglio decisamente innovativo.... (tutti e tre i ragazzi sono nati dopo il 2000 e quindi nativi digitali) per canale Facebook del Museo e dell'Anmi di Carmagnola... D'altra parte ci consentirà di lanciarci su due nuovi Social TikTok e Istagrammper raggiungere una fascia d'età più giovane e riuscire a raggiungere il maggior numero di persone possibili.... Naturalmente come da tradizione il taglio che daremo a tutta la comunicazione sarà parecchio innovativo... cercando di cavalcare (insieme a questi tre giovani) l'aspetto arrembante che da sempre contraddistingue tutte le iniziative dei Marinai di Carmagnola...

Dove puntiamo??? Entro i prossimi tre anni avere i numeri più alti a Carmagnola  e con questo incentivare l'accesso nella nostra città di tanti turisti e curiosi... poi chi lo sa? L'appetito vien mangiando...

Il prossimo 3 Dicembre (festa di Santa Barbara a Carmacity) presenteremo e festeggeremo insieme alle autorità cittadine e tantissimi marinai questi ragazzi e l'inizio della nuova avventura nel grande mare di internet...

A nome di tutti I Marinai auguro a loro buon lavoro e a tutti voi prometto presto tutti i riferimenti del caso... un abbraccio Giuseppe Di Giugno 

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Disposizioni in materia di conversione di titoli professionali marittimi

Disposizioni in materia di conversione di titoli professionali marittimi

Collegio Capititani

Il Collegio Capitani di Napoli ha inserito nella sezione dei file utili dedicati alla pescadel sito web un importante documento "Nuovo testo unificato elaborato dal comitato ristretto e adottato come nuovo testo base" a data 6 ottobre 2015.

Di questo documento sugli interventi per il settore ittico vi segnaliamo l'articolo 10 che vi riportiamo integralmente:

La conversione dei titoli professionali in abilitazioni per viaggi costieri, ai sensi dell'articolo 14 del decreto del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti 6 settembre 2011, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.216 del 6 settembre 2011, è consentita entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge.

 La conversione ai sensi dell'articolo 14, lettera A), del citato decreto ministeriale 6 settembre 2011 è consentita per i titoli conseguiti entro il 31 luglio 2010 ed è ammessa anche per i titoli professionali di cui agli articoli 254, 254-bis e 257 del regolamento per l'esecuzione del codice della navigazione (navigazione marittima) di cui al decreto del Presidente della Repubblica 15 febbraio 1952, n.328, e successive modificazioni.

Il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti provvede, con proprio decreto, ad adeguare il citato decreto ministeriale 6 settembre 2011 alle disposizioni del presente articolo.

FONTE: collegio capitani napoli

Dopo le Età della Pietra, del Bronzo e del Ferro: l'Età della Plastica

L'inquinamento da plastica è ufficialmente entrato nella stratificazione fossile: i frammenti di questo materiale nei sedimenti oceanici sono raddoppiati ogni 15 anni, dal secondo dopoguerra ad oggi.

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Inquinamento da plastica su una spiaggia del Pacifico. Mari e oceani: dove si accumula lo strato di plastica 

Il 12 settembre è la Giornata mondiale senza sacchetti di plastica, un'occasione per riflettere sulla non necessità delle buste di plastica monouso nei supermercati, sostituibili con borse riutilizzabili. Questa ricorrenza è stata istituita nel 2009 dalla Marine Conservation Society, un'organizzazione no-profit che vigila sulla salute degli ecosistemi marini: sono proprio gli oceani a ricordarci che, nella lotta contro l'inquinamento da plastica, siamo indietro anni luce.

 AMARA CONFERMA. Un nuovo studio su un campione di sedimenti oceanici appena pubblicato su Science Advances rivela infatti che dagli anni '40 del Novecento ad oggi, la concentrazione di residui di plastica nel pavimento oceanico è raddoppiata ogni 15 anni: la crescita delle quantità di fibre e frammenti rispecchia fedelmente la diffusione dei materiali plastici degli ultimi 70 anni.

Secondo gli scienziati della Scripps Institution of Oceanography dell'Università della California di San Diego, che hanno guidato la ricerca, dopo le Età del Bronzo e del Ferro siamo entrati nell'Età della Plastica. La presenza di plastica nei sedimenti marini potrebbe essere usata dai geologi del futuro per datare l'inizio dell'Antropocene, secondo alcuni una nuova era geologica, caratterizzata da profonde trasformazioni ecosistemiche prodotte dall'uomo.

InquinamentoTUTTA "OPERA" NOSTRA. Lo studio, l'analisi più dettagliata mai compiuta sulla presenza di plastica nei sedimenti marini presenti e passati, ha esaminato le annuali stratificazioni in un campione prelevato oltre un chilometro e mezzo al largo della costa di Santa Barbara, in California.

Il bacino si trova non lontano da un'area abitata da 4 milioni di persone (Los Angeles) ma è allo stesso tempo povero di ossigeno per l'andamento locale delle correnti: non ci sono animali che possano scavare nei sedimenti e alterarne la composizione.

Il campione è lungo 36 centimetri e comprende i sedimenti stratificati sul fondale oceanico dal 1834 al 2009. È stato estratto nel 2010 ma non c'è il rischio che, nel frattempo, il nostro inquinamento da plastica sia diminuito (anzi). L'aumento di particelle di plastica è parso esponenziale, e strettamente legato alla diffusione del materiale e all'aumento di popolazione nella California meridionale. Nel più recente degli strati analizzati, la concentrazione di plastica era di 40 particelle all'anno per ogni "quadrato" di sedimenti oceanici di 10x10 cm per lato. 

Plastica: ecco chi inquina il Mediterraneo

Plastica sacchettiDAI VESTITI. La maggior parte dei residui trovati, due terzi delle particelle, è costituita da fibre di plastica dei materiali sintetici usati nell'abbigliamento: una conferma del fatto che manca, al momento, un sistema di filtraggio adeguato di questi residui, che attraverso le acque reflue finiscono direttamente in mare. Un quinto dei frammenti di plastica nei sedimenti oceanici era composto da particelle di altri materiali plastici degradati; la pellicola di plastica era all'origine di un decimo dei residui.

UNA RELAZIONE TOSSICA. Quella osservata dagli scienziati è una "firma" molto chiara. La prova che la plastica è finita nei sedimenti praticamente da subito, nei primi anni della sua diffusione globale (dal 1945 in poi: ma in misura minore si usava anche prima). «Il nostro amore per la plastica è rimasto nei residui fossili» ha detto Jennifer Brandon, prima autrice dello studio. Non sappiamo che effetto abbia sugli organismi che popolano i fondali, come i molluschi, né sul corpo umano che di quegli stessi organismi si nutre: si pensa che attraverso cibo e acqua, introduciamo nell'organismo 50 mila particelle di plastica all'anno.  

 

 

FONTE: Logo Focus 

Forse non tutti sanno che Popeye è esistito veramente.

Popeye

Frank ' Rocky ' Fiegel, ispirò il personaggio di Popeye. Era un marinaio polacco, emigrato in Illinois negli Stati Uniti, che era sempre coinvolto in combattimenti e scorribande.

Frank era anche noto per la sua forza fuori dal comune. Batteva avversari molto più grandi di lui al punto che a volte si alzavano da terra quando li colpiva con un unppercut.
Viene anche ricordato per il suo buon cuore e affetto verso i bambini.

Il fumettista Elzie Crisler Segar era vicino a Frank e ha creato il personaggio Popeye nel 1919 per un fumetto comico del New York Journal ispirandosi al suo amico.

Frank aveva un occhio più grande dell'altro, quindi il fumettista battezzò il personaggio “Pop-Eye”che in inglese è il nome di una malattia che colpisce alcuni pesci lasciandoli con un occhio più grande dell’altro.

La lattina di spinaci che dà forza al marinaio esisteva anche nella vita reale ed era lo spuntino di Frank durante la pausa di lavoro al porto.

Olivia Oyl è stata ispirata a una vera donna di nome Dora Paskel, mentre Bruto è stato ispirato a un ragazzo molto forte che arrivò al porto dove si trovava Franz 'Rocky' Fiegel e combatté contro di lui. Frank - Popeye, ovviamente, vinse l’incontro!

FONTE: Filippo Leggieri su Facebook

Galata-Museo del mare di Genova

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La visita


Una straordinaria avventura alla scoperta di sei secoli di vita sul mare
La costruzione di vetro e acciaio, opera dell’architetto spagnolo Guillermo Vasquez Consuegra veste di nuovo il più antico edificio della Darsena, un tempo Arsenale della Repubblica di Genova dove venivano costruite, armate e varate le galee.
Aperto nel 2004, anno di Genova Capitale Europea della Cultura, oggi il Galata è il più grande museo marittimo del Mediterraneo, innovativo e tecnologico.
Ma non solo, il museo è anche fuori. Scopri qui il Galata Open Air Museum

PIANO TERRA

Piano TerraIl vostro primo sguardo si posa sulla nuova hall del Galata, ristrutturata di recente con richiami al mondo del mare e della navigazione (vedi box a fianco). Dopo le sale del Porto di Genova nell’antichità e di Cristoforo Colombo, dove sono custoditi preziosi documenti e il
suo famoso ritratto, la visita prosegue nell’armeria della Darsena, una fedele ricostruzione 1:1 di una Galea del ‘600 – lunga 40 metri e alta a poppa 9 – sulla quale si può salire per scoprire la vita a bordo di schiavi, forzati e buonavoglia che ne costituivano l’equipaggio.

0) Faro fanale, 4 imbarcazioni storiche, diorama palombaro

1) “L’Affresco” di Renzo Piano

2) Genova: il Porto dopo il medioevo

3) Cristoforo Colombo, un marinaio genovese?

4) Andrea Doria e le galee genovesi

5) Le armi della Repubblica

6) Arsenale: la galea sullo scalo

7) Galeotti: vita a bordo

PRIMO PIANO

Primo pianoDa qui si vede dall’alto la coperta della galea che termina nella carrozza, dove trovavano posto signori e passeggeri di riguardo. Una scena rievoca l’arrivo a Genova dei forzieri
d’argento portati sulle galee genovesi dalla Corona di Spagna ad Andrea Doria.
In seguito ammirerete preziosi globi e antichi atlanti, consultabili grazie alla navigazione virtuale che consente di “sfogliare” mappe realizzate dai più famosi cartografi del Cinque e Seicento. La sala dei mostri marini, infine, fa rivivere l’immaginario del mare tra meraviglia e paura.

8) Galee, tra storia e arte

9) Il ponte della Galea

10) Genova e la guerra nel Mediterraneo

11) Atlanti e Globi

12) Sala Mare Monstrum

SECONDO PIANO

Secondo pianoVedrete la zattera originale dove Ambrogio Fogar e Mauro Mancini rimasero in balìa dell’oceano per 74 giorni e, subito dopo, affronterete una tempesta in 4D a bordo di una scialuppa.
Potrete curiosare nella sala nautica e salire a bordo di un brigantino-goletta; dopo il cantiere navale storico e la falegnameria, entrerete in uno Yacht Club di fine ‘800, con i dipinti della Collezione Croce.

13) Genova e l’età delle rivoluzioni

14)Tempeste & naufragi

15) Le scienze nautiche

16) Il brigantino “Anna”

17) Cantiere navale

18) Galleria Beppe Croce

 

TERZO PIANO

Terzo pianoVi calerete nei panni di un emigrante per conoscere la storia delle emigrazioni italiane e delle nuove immigrazioni, attraverso ricostruzioni d’ambiente, testimonianze fotografiche e filmate, postazioni interattive. Sul ponte di un piroscafo, inoltre, un simulatore navale vi farà vivere l’emozione di pilotare una nave nel porto di Genova.
Infine la scuola dei sommergibilisti del Nazario Sauro S518 vi preparerà alla visita del sottomarino.

19)1861, la chiamata

20) Genova e gli emigranti

21) La dogana

22) La Stazione Marittima

23) Il piroscafo “Città di Torino”

24) La Boca (Argentina)

25) La fazenda (Brasile)

26) Ellis Island (usa)

27)Italiano anch’io

28) Sala degli Armatori

29) Scuola dei sommergibilisti

TERRAZZA

TerrazzaVisiterete gli allestimenti più recenti e, dalle due terrazze Coeclerici e Mirador, potrete godere di incantevoli vedute del centro storico e del porto di Genova, anche a 360°.

30) Sala Coeclerici / Navigare nell’Arte

31) Mostra Andrea Doria. La nave più bella del mondo

 

DARSENA

DarsenaSulla scia dei grandi musei marittimi internazionali, il Galata ha creato sulle sue banchine un Open Air Museum: un museo a cielo aperto che narra la storia dei cantieri navali e delle attività commerciali-marittime che si tenevano in questi spazi.

Fiore all’occhiello è il sottomarino S 518 Nazario Sauro , visitabile in acqua.

 

Galata biglietti

 

Il video è senza audio per scelta.

 

FONTE: Logo Galata Museo

Granelli di sabbia ingranditi 300 volte, uno spettacolo straordinario e inaspettato

Una speciale lente tecnologica ingrandisce i granelli di sabbia e quello che appare è qualcosa di unico e sorprendente

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Sotto la sabbia è sepolto il mistero della vita, fra le dune c’è il canto dell’universo. Chi non sa ascoltare, chi non sa immaginare è lontano dalla verità.
Romano Battaglia forse già intuiva il prezioso tesoro nascosto in un granello di sabbia quando scrisse il suo pensiero.
Lo spettacolo incredibilmente bello che si rivela ai nostri occhi lo dobbiamo al dottor Gary Greenberg.

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Fotografo e cineasta, vanta un dottorato in ricerca biomedica ed è un appassionato di macrofotografia.
La macrofotografia, per i non addetti ai lavori, è uno speciale genere fotografico che prevede l’utilizzo di tecniche fotografiche particolari.
Lo scopo è quello di ingrandire soggetti molto piccoli per rivelarne i più piccoli dettagli.

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Il dottor Greenberg, che ora vive nell’isola delle Hawaii, ha utilizzato questa speciale tecnica per ingrandire pensate cosa: i granelli di sabbia. Immaginiamo il vostro stupore nel guardare queste immagini certamente sorprendenti. Avreste mai immaginato che in un minuscolo granello di sabbia si nascondesse tanta bellezza?

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I granelli di sabbia, ingranditi circa 300 volte, mostrano qualcosa che supera qualsiasi forma di immaginazione.
Un granello di sabbia rispecchia la meraviglia dell’universo.
(Paulo Coelho)
Al loro interno una sorta di mondo magico, forme e colori insospettabili!
Essi sono composti da piccoli e grandi organismi marini. Strutture multiformi, eleganti e delicate.

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“È incredibile pensare che quando camminiamo sulla spiaggia stiamo calpestando questi piccoli tesori” afferma il dottor Greenberg felicemente stupito.
È proprio il caso di dirlo, anche il più piccolo granello di sabbia è unico e irripetibile.
Sul sito Sand Grainsè possibile visionare tutte le straordinarie immagini raccolte dal noto ricercatore.
Il mondo è un luogo meraviglioso, e meravigliosa è anche la più piccola delle cose. Quella che può sembrare la più banale o insignificante. Granelli di sabbia.
Vedere un mondo in un granello di sabbia e un paradiso in un fiore selvatico, tenere l’infinito nel palmo della mano e l’eternità in un’ora.

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Recitava William Blake, e grazie al dottor Greenberg, quel mondo noi lo abbiamo visto.
Cosa ne pensate? Sorpresi anche voi? Condividete l’articolo con i vostri amici, lo apprezzeranno senza dubbio!

(Credits photo: sandgrains)

FONTE: Logo Alicanthe

 

I colori dell’Alba e del tramonto

Dal sito Ocean4future una spiegazione molto chiara sull'argomento a cura di Paolo Giannetti

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Scritto da Paolo Giannetti

Le luci dell’alba e del tramonto hanno spesso un colore molto diverso tra di loro. Sebbene in fondo si tratti dello stesso fenomeno, perché la luce e i colori non si diffondono nella stessa maniera?

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Innanzitutto cerchiamo di capire cos’è il colore

Tecnicamente il colore è la percezione visiva delle diverse radiazioni elettromagnetiche comprese nel cosiddetto spettro visibile. Considerando che nessuno di noi ha la stessa capacità di percepire tutti i colori nello stesso modo, ci possiamo domandare come una luce, nel suo insieme bianca,  ci viene restituita con diversi colori.

Dal punto di vista fisico la luce visibile appare complessivamente bianca se la si considera la somma di tutte le frequenze dello spettro ottico, ovvero di quella parte dello spettro elettromagnetico che cade tra il rosso ed il violetto includendo tutti i colori percepibili dall’occhio umano.

La lunghezza d’onda λ è legata al rapporto tra υ (velocità di propagazione nel mezzo) e ƒ  la frequenza dell’onda … ovvero dalla relazione:

Formula lambda

Senza andare troppo nel complesso, pensate all’arcobaleno, quel fenomeno ottico atmosferico che ci mostra uno spettro quasi continuo di di diversi colori nel cielo. Questo evento avviene quando la luce del Sole attraversa le gocce d’acqua rimaste in sospensione nell’atmosfera dopo un temporale. In pratica a causa della  dispersione ottica della luce solare che attraversa le gocce di pioggia, la luce viene prima rifratta quando entra nella superficie della goccia, poi riflessa sul retro e ancora rifratta uscendo dalla goccia. La quantità di luce rifratta dipende dalla lunghezza d’onda, e quindi restituisce all’osservatore un colore. A causa di un gioco di rifrazioni la luce rossa appare più alta nel cielo, formando i colori esterni dell’arcobaleno. Newton scoprì che era possibile scomporre i colori della luce usando un prisma.

In pratica, l’angolo di rifrazione (più alto nelle alte frequenze, e più basso nelle basse frequenze), variando a seconda della lunghezza d’onda, ci restituisce gamme di colore diverso.

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Lo spettro dei colori

Il colore dei corpi che percepiamo deriva dal fatto che ogni materiale, pur assorbendo tutte le lunghezze d’onda dello spettro visibile, riflette una o più frequenze che, mescolate tra loro, ci restituiscono il colore percepito dall’occhio umano. Un corpo bianco restituisce tutte le frequenze, uno nero nessuna.

Dopo queste premesse, torniamo alla nostra domanda iniziale. I colori delle albe e dei tramonti sono uguali?

Dato che le leggi fisiche restano invariate in entrambi i casi, a parità di condizioni atmosferiche, dovremmo avere albe identiche ai tramonti, ma in realtà questo accade solamente in particolari situazioni come,  ad esempio, in mare aperto.

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Se invece ci troviamo sulla costa, come appare nelle foto, il colore dell’alba (a sinistra) può essere diverso da quello del tramonto (a destra).

Perchè?

All’alba, il sole attraversa quasi tangenzialmente gli strati dell’atmosfera già sottoposti al raffreddamento notturno, mentre al tramonto gli stessi raggi percorrono la stessa traiettoria nell’atmosfera ma attraverso strati d’aria che sono stati riscaldati durante il giorno. La luce più rossa del tramonto è legata ad una temperatura maggiore dell’aria.

Ma questa non è l’unica causa

Entra in gioco anche la minore o maggiore quantità di polveri in sospensione nell’atmosfera: al mattino queste ultime si possono trovare in parte depositate durante la notte, permettendo alla luce di penetrare meglio nell’atmosfera, mentre alla sera, con le polveri al massimo della sospensione, i raggi solari vengono in parte assorbiti (specialmente nella banda del blu) diffondendo una luce rossastra che diviene poi via via sempre più scura.

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Anche l’umidità dell’aria ha un ruolo fondamentale

Se abbiamo un’aria più secca il colore del cielo sarà più rosso. In presenza di aria più umida il colore sarà invece più pallido (sfumato tra il bianco ed il giallo). Dato che normalmente nel nostro emisfero le perturbazioni (almeno alle nostre latitudini) provengono da Ovest, l’aria secca eventualmente presente in quella direzione (verso ponente ovvero in direzione del tramonto) è presagio di bel tempo per le ore successive e ciò spiega il proverbio: “rosso di sera bel tempo si spera“. La saggezza popolare non sbaglia mai.

In mezzo a tutte queste spiegazioni di leggi fisiche di diffusione e rifrazione, entra in gioco anche il nostro occhio, che si adatta diversamente quando la luminosità ambientale è in aumento o in diminuzione (dopo la notte l’occhio è in grado di cogliere molte più sfumature di colori), e il nostro cervello, che interpreta il tutto in modo indipendente, dà percezioni di colore che spesso sono diverse da persona a persona.

Paolo Giannetti

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I lungomare più belli d’Italia, per passeggiate uniche

lungomare italia passeggiata

Passeggiare godendo di una meravigliosa vista mare è un vero privilegio, un momento rilassante per scaricarsi dalle fatiche della giornata, un momento per fare sport con un panorama mozzafiato o, semplicemente, per staccare la spina, anche in famiglia. Abbiamo scelto per voi 10 lungomare tra i più i belli d'Italia, luoghi incantevoli e per passeggiate uniche.

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Falcomatà, il bel lungomare di Reggio Calabria

Quello di Falcomatà è uno dei lungomare più amati in tutta Italia, un vero punto di riferimento per chi vuole scoprire non solo il mare, ma anche il cuore della città calabrese. Si conti che il lungomare cittadino è costituito da quattro vie: il lungomare Falcomatà, appunto, il lungomare Matteotti a cui si aggiungono corso Vittorio Emanuale III e viale Genoese Zerbi. Passeggiando qui si possono scoprire diverse meraviglie, tra cui i giardini della Villa Comunale e stupendi palazzi e ville in stile Liberty.

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Genova Nervi, passeggiata panoramica sul lungomare

La passeggiata ligure di Genova Nervi, sul lungomare Anita Garibaldi è una tra le più belli d'Italia, altamente scenografica. Il passaggio, infatti, è scavato nella roccia che si tuffa a picco sul mare, con un affaccio unico su suggestive calette naturali. Un belvedere che porta fino al castello, attraversando parchi, antiche ville e con una vista panoramica meravigliosa.

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Bari, il lungomare con dettagli nobili e meravigliosi

Tra i lungomare più belli d'Italia, non può mancare quello di Bari che, grazie ad un'importante opera di valorizzazione, oggi si presenta in tutta la sua bellezza con panchine e con lampioni in stile retrò. Camminando lungo la passerella della città pugliese si potranno incontrare anche importanti edifici storici come chiesa di San Nicola e il castello Svevo-Normanno, uno dei monumenti in stile romanico più importanti d'Italia.

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San Benedetto del Tronto, lungomare alberato con vista panoramica

Quello di San Benedetto del Tronto è di certo uno dei lungomare più belli delle Marche. Il percorso, che costeggia il mare Adriatico, è ampio, alberato e con moltissime palme. Ben curato, qui si può fare anche una sosta gradevole sulle belle panchine e poi proseguire il cammino più vicini al mare, ammirando gli scogli.

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Caorle, passeggiata romantica con vista unica

Passeggiare sul lungomare di Caorlepiccolo borgo marinaro veneto, è un vero piacere, anche per la vista. Camminando, infatti, si può raggiungere il santuario della Madonna dell'Angelo, monumento splendido che si trova una posizione suggestiva, ovvero proprio dove finisce la scogliera e ha inizio la spiaggia di Levante.

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Salerno, passeggiata sul lungomare e il molo per momenti rilassanti

Si pensi che il lungomare di Salerno, negli anni Cinquanta era considerato il più bel lungomare di tutto del Mediterraneo. Anche oggi, a dire il vero, si difende ancora bene, con i suoi viali alberati ben curati, divisi da aiuole fiorite che costeggiano il Mar Tirreno. Inoltre, per scoprire i luoghi più tradizionali, si può allungare la passeggiata verso il molo.

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Lungomare di Livorno per una passeggiata romantica dopo il tramonto

Il lungomare toscano di Livorno è perfetto per gli animi romantici, soprattutto per chi ama camminare dopo il tramonto. La passeggiata non può che partire dalla meravigliosa ed elegante Terrazza Mascagni, con un pavimento a scacchiera e una balaustra formata da ben 4100 colonne marmoree, per poi proseguire verso il porto e tornare verso il centro della città.

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Lungomare di Riccione, per passeggiare lungo i bagni con stile

Completamente restaurato negli ultimi anni, il lungomare di Riccione, in Emilia Romagna, è diventato uno tra i più belli d'Italia. Passeggiare (o correre) qui, lungo i bagni, con a fianco la spiaggia e il mare Adriatico è un vero privilegio. Inoltre, ci si può sedere, di tanto in tanto, nelle panchine con gazebo posizionati lungo il cammino. Dallo stile moderno, ma ricco di piante e fascino.

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Bogliasco, passeggiata romantica tra le case colorate dei pescatori

In Liguria, non può mancare la bella Bogliasco, tra i lungomare più belli in cui passeggiare. Qui si può iniziare il percorso prendendo l'antica strada romana che vi porterà verso le coloratissime case dei pescatori. Un vero incanto.

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Alghero, passeggiata lungomare circondati dalle mura

Meraviglioso - e non solo per la vista - il lungomare di Alghero, in Sardegna, è davvero speciale perché consente a tutti di incamminarsi verso la città fortezza attraversando un antico passaggio. Si tratta di un percorso che riprende le mura vecchie, con uno splendido affaccio sulla costa.

Fonte delle foto:  iStock

Fonte articolo:Logo Siviaggia

Il barometro marino, uno strumento antico ma ancora molto utile

Dal sito Ocean4future un argomento che interessa tutti

STRUMENTI Barometre aneroide 01

I marinai sanno che quando la pressione atmosferica scende non è un buon segno. Ma come fanno ad accorgersene? Semplice, utilizzando il barometro, uno strumento nautico che misura la pressione locale e può aiutare a prevedere l’andamento meteorologico in mare.

Il barometro fu scoperto circa quattro secoli fa da un italiano, Evangelista Torricelli. Una scoperta rivoluzionaria dal punto di vista scientifico che abbiamo sotto gli occhi di tutti, essendo presente in quasi tutte le case. Ne raccontiamo la storia e le sue evoluzioni tecnologiche partendo dai primi che si basavano sugli effetti della pressione atmosferica su un tubicino pieno di mercurio.

Come  funzionavano i barometri a mercurio?
In realtà, come vedremo, il sistema di funzionamento di questi strumenti era molto semplice.

STRUMENTAZIONE Barometer by Charles Frodsham view 2 London date unknown mahogany mercury metal glass Shugborough Hall Staffordshire England DSC00451

Barometro a mercurio di Charles Frodsham, London, conservato a Shugborough Hall – Staffordshire, England Barometer by Charles Frodsham, view 2, London, date unknown, mahogany, mercury, metal, glass – Shugborough Hall – Staffordshire, England – DSC00451.jpg – Wikimedia Commons

I primi barometri erano composti da un tubicino di vetro trasparente, posizionato verticalmente al suolo, con l’estremità superiore chiusa e quella inferiore aperta su una vaschetta piena di mercurio, un metallo allo stato liquido, molto denso e sensibile ai cambiamenti di pressione e di temperatura. Per dargli solidità erano inseriti in eleganti contenitori in ottone o in legno. Il funzionamento è molto semplice. Il livello di mercurio sale o scende all’interno del tubo a seconda delle variazioni della pressione dell’aria.

STRUMENTAZIONE principio baroemtro a mercurio Prinzip Torricelli

Principio di funzionamento del barometro a mercurio di Torricelli – Fonte e autore Volker Sperlich: “Übungsaufgaben zur Thermodynamik mit Mathcad” (2002) Fachbuchverlag Leipzig Prinzip Torricelli.jpg – Wikimedia Commons

Tutto incominciò nel XVII secolo, nel 1643, quando un brillante matematico italiano, Evangelista Torricelli, allievo di Galileo Galilei, inventò il primo strumento di misura per misurare la pressione atmosferica. Si trattava di un tubo di vetro chiuso a un’estremità e aperto dall’altra, con una sezione di un centimetro quadro, della lunghezza di un metro, riempito di mercurio, metallo allo stato liquido caratterizzato da una alta densità, posto verticalmente in una vaschetta, anch’essa contenente mercurio. In pratica si creava un sistema di vasi comunicanti. Torricelli osservò che quando la pressione dell’aria (triangolo bianco) aumentava, spingeva verso il basso il mercurio all’esterno del tubo e, di conseguenza, il livello di mercurio all’interno del tubo aumentava. Qualora la pressione diminuiva avveniva il contrario ovvero il livello diminuiva. Questo comportamento si prestava quindi ad effettuare una misurazione precisa ed istantanea della pressione atmosferica.

Torricelli, dopo aver bloccato l’estremità aperta, rovesciò il tubo e lo appoggiò verticalmente su una ciotola contenente del mercurio. L’accorgimento di chiudere l’estremità era ovviamente per non far entrare aria nel tubo formando così il vuoto (un concetto innovativo per l’epoca) al di sopra della colonna di mercurio. Perché usò il mercurio e non altre sostanze? Perché se avesse usato l’acqua, essendo meno densa del mercurio, la pressione dell’aria avrebbe sollevato il livello molto più in alto. In altre parole sarebbe stato necessario avere un tubo più lungo di quello necessario per contenere il mercurio, rendendo lo strumento poco pratico. Torricelli aveva compreso che era il peso dell’atmosfera a causare lo scorrere del mercurio nel tubicino e scrisse che “Sulla superficie del liquido che è nella ciotola c’è il peso di un’altezza di cinquanta miglia di aria.” Lo strumento da lui inventato fu chiamato, in suo onore, barometro torricelliano.

In seguito gli scienziati notarono che questo cambiamento era correlato all’andamento del tempo meteorologico per cui le variazioni meteo erano strettamente legate alle variazioni della pressione atmosferica. Osservando gli spostamenti dei livelli nella colonnina si potevano prevedere con molta precisione cambiamenti significativi del tempo come l’arrivo di temporali o del bel tempo.

Oggi sappiamo che l’arrivo di aria più fredda, legata al passaggio di un fronte freddo, fa aumentare localmente il peso della colonna d’aria e quindi la pressione al suolo, mentre quello di aria più calda (essendo più leggera) la fa ovviamente diminuire, come al passaggio di un fronte caldo. In parole semplici quando una nube temporalesca si avvicina la pressione misurata dal barometro tende a scendere, a seguito delle correnti convettive più calde che dal suolo alimentano la nube. Questo è un campanello di allarme importante che i naviganti dovrebbero conoscere bene. Sarà sempre il nostro barometro ad indicarci quando il temporale, accompagnato da raffiche e da rovesci di pioggia (outflow) incomincerà ad allontanarsi, anticipato da una risalita brusca della pressione.

Quale è il valore della pressione atmosferica al suolo?
A livello del mare, la pressione atmosferica spinge il mercurio nell’ampolla verso l’alto e fa salire, in condizioni standard, il livello nel tubo ad un’altezza di circa 760 mm (circa 30 pollici). Torricelli dedusse quindi che il peso di questa colonna si opponeva alla pressione atmosferica e che  aumentando la pressione il livello si alzava. Un’intuizione geniale che è alla base della meteorologia moderna.

Perché varia?
La pressione atmosferica cambia continuamente ed è legata al surriscaldamento delle masse d’aria locali ed alla quota di misura. Per comodità il valore standard pressione è di un atmosfera (1 atm) al suolo che è equivalente a circa 760mm di mercurio. Per l’esattezza 760 mm equivale a 1,0132 bar. I subacquei sanno che la pressione di atmosfera aumenta di un’atmosfera ogni dieci metri sott’acqua. Se dal suolo salissimo in quota scopriremmo che la pressione diminuisce man mano che saliamo fino ad annullarsi. Diminuendo la pressione, la misurazione nel tubo da un valore sempre minore (da 760 mm scenderà fino a zero salendo in quota). Per avere un‘idea, la pressione sulla cima del Monte Everest (circa 8840 metri) è leggermente inferiore ad un terzo della pressione atmosferica standard a livello del mare (circa 0,3 atm).

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I primi barometri marini erano costituiti da piccoli tubi di vetro, che ricordavano i termometri, protetti da cilindri di ottone, e appesi o racchiusi in scatole protettive in legno. Questi barometri erano calibrati in modo da poter leggere sulla scatola oltre che il valore di pressione, anche semplici indicazioni: Bel tempo” o Fair, “pioggia” o Rain,tempesta” o Storm. Questi barometri nautici erano studiati per essere appesi nelle plance delle navi per un’immediata lettura da parte del navigante. I primi barometri torricelliani erano comunque già molto precisi ma … avevano un problema, si basavano per funzionare sul mercurio, un metallo particolare (è l’unico ad essere allo stato liquido) ma molto velenoso. Quelli di una certa età ricorderanno i termometri a mercurio che quando si rompevano riempivano il pavimento di palline argentee. Ci giocavamo ingenuamente senza capirne la forte tossicità per l’organismo che può avvenire sia per ingestione che per inalazione dei vapori o anche per semplice contatto. Questo fattore nel tempo portò alla sostituzione del barometro a mercurio con altri tipi di barometri. Infatti, con l’avanzare della tecnologia, sebbene i barometri marini al mercurio fossero e (sono) ancora considerati più precisi, furono sostituti da quelli aneroidi.

how aneroid barometer worksUn barometro aneroide è costituito da una piccola cella di metallo con una molla contenuta in una scatola metallica. La cellula è circondata da una lega metallica di rame e berillio. Man mano che la pressione dell’aria all’esterno della cella cambia, la molla all’interno si espande, o si contrae, e questi movimenti fanno muovere una lancetta posta sul quadrante frontale del barometro. 

I barometri aneroidi, spesso presenti nelle nostre case come oggetto ornamentali, hanno in genere un solo quadrante con una lancetta di misura che indica diverse misurazioni e condizioni meteorologiche. Sul suo quadrante si nota un’altra lancetta (spesso dorata) che può essere fatta ruotare con le dita (essendo libera) tramite un bottone zigrinato. Una domanda che molti fanno è a che cosa serva. Si tratta di un semplice indice che, posizionato in un certo momento della giornata sulla lancetta del barometro, essendo slegato da qualsiasi meccanismo, in un periodo successivo fa comprendere se c’è stato un aumento o una diminuzione di pressione.

 

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Mechanical design di un barometro aneroide di Feingerätebau Fischer/GDR autore foto FranzKK Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 – Design of aneroid barometer aneroid cell.JPG – Wikimedia Commons

Per poter ottenere delle misure precise il barometro deve essere sempre regolato (calibrato) sulla pressione atmosferica, ridotta a livello del mare, e quindi calibrato di volta in volta, in funzione della altezza in cui ci troviamo, semplicemente spostando delicatamente una vite posta sulla cassa sul retro. Per calcolare la riduzione ricordatevi che ogni 80 metri questo valore può essere stimato intorno a 10 millibar, per cui se la pressione media è di 1012 mbar, se viviamo in collina  a 8oo metri di quota, la riduzione da apporre sarà di circa 100 mbar.

Questo per esser precisi ma serve veramente ai fini predittivi dell’andamento della pressione? In realtà no. Quello che ci interessa è la variazione dell’indice, in crescita o in decrescita, fattore che ci indica se stiamo andando verso il tempo buono o cattivo.

Nel XX secolo fu sviluppato il barometro marino digitale, che funziona traducendo le letture elettroniche della pressione atmosferica e delle variazioni di temperatura in … elementari previsioni meteorologiche. Per farlo utilizza degli algoritmi che tengono conto dell’umidità, della pressione, della temperatura dell’aria e, in certi casi, della velocità del vento rilevata. I moderni barometri digitali competono per precisione con i barometri al mercurio che sono ormai sempre meno diffusi e li troviamo presenti anche … nei moderni orologi digitali. 

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Orologio digitale, in basso a destra viene indicata la pressione atmosferica (1009 bar) – Autore foto VSchagow 2019120310 Casio ProTrek PRW 60Y-1AER barometer 2019.jpg – Wikimedia Commons

A cosa servono i barometri in campo nautico?
Sin dai tempi antichi, la possibilità di fare una previsione meteorologica accurata è stato sempre un fattore importante per i naviganti. Poter prevedere l’arrivo di una linea temporalesca consentiva al capitano di modificare la sua rotta prima di essere sorpreso da mare mosso e vento forte. Il barometro marino fu quindi sviluppato tecnicamente e commercialmente per offrire ai marinai un mezzo conveniente e portatile per prevedere i cambiamenti atmosferici in mare. Nonostante i mezzi oggigiorno disponibili, il barometro marino non è scomparso dalle plance, e viene di solito accoppiato ad altri indicatori meteorologici come termometri e anemometri.

Ora che abbiamo imparato a leggerlo, ricordiamocelo la prossima volta che andremo per mare: un semplice strumento che non può mancare nella dotazione nautica di ogni amante del mare.

Andrea Mucedola

in anteprima barometro aneroide, XX secolo Barometre aneroide 01.jpg – Wikimedia Commons

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Ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare.

 

Il Faro di Torre Canne compie 90 anni

L’ evento per festeggiare la ricorrenza sarà presentato in conferenza stampa

 faro torre canne

FASANO90 anni di attività sono un bel traguardo per il faro di Torre Canne e per festeggiare la ricorrenza sono in programma alcune iniziative che vedono coinvolte amministrazione comunale, istituzioni, associazioni, residenti e villeggianti nella marina fasanese. Le celebrazioni si svolgeranno il prossimo 12 settembre.

Una conferenza stampa di presentazione dell’evento denominato  “La lanterna di Canne“, si svolgerà giovedì 5  settembre  alle ore 11.00 nei pressi del faro di Torre Canne. Sarà presente il sindaco, Francesco Zaccaria, gli assessori Cinzia Caroli e  Giuseppe Galeota e  i rappresentanti delle associazioni che organizzano l’evento accanto all’amministrazione comunale.

Il faro di Torre Canne fu costruito a partire dal 1927 ed entrò in funzione due anni dopo. Dotato di un’ottica fissa, emette luce intermittente ogni 10 secondi. Strutturalmente, è una torre ottagonale alta 35 metri, larga 7 metri alla base e 4 all’estremità superiore. Dopo i lavori di rigenerazione urbana della località balneare è stata realizzata la Piazza del Faro, luogo di incontro e di ritrovo per turisti e residenti. La struttura militare, simbolo di Torre Canne, è divenuta anche elemento di attrazione turistica e culturale. I locali al piano terra ospitano la sede di alcune istituzioni e l’infopoint turistico.

«Intento di questa amministrazione – dichiara il sindaco Zaccaria –  è quello di rendere sempre più il faro e la sua piazza punto di riferimento per la vita sociale e culturale di Torre Canne».

FONTE: logogofasano300

Il faro maledetto di Tévennec

La curiosa storia del Faro di Tévennec a cura di Paola Giannelli

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di Paola Giannelli

Tévennec è una minuscola isola francese, poco più di uno scoglio, che ospita un vecchio faro, uno dei quarantotto che costellano il profilo frastagliato della regione di Finesterre, in Bretagna.
L’isolotto è adagiato su un corridoio di mare in cui i naufragi erano frequenti a causa delle correnti e di imponenti mareggiate. Non meraviglia, quindi, che i racconti tramandati su Tévennec inizino con la vicenda di un naufrago: sopravvissuto al mare, l’uomo raggiunse l’isola, ancora disabitata, per morirvi di stenti. Si può immaginare che il marinaio abbia cercato inutilmente di attirare l’attenzione delle imbarcazioni di passaggio, ma a causa delle insidie di quel tratto di mare, pochi vi si avventuravano.

Nonostante la prudenza dei naviganti, gli incidenti erano frequenti e le autorità francesi decisero di porvi rimedio con la costruzione di un faro che entrò in funzione verso la fine del 1800 quando Tévennec aveva già acquisito la nomea di isola maledetta. Si raccontava che le anime dei defunti vi facessero tappa e che la morte in persona si aggirasse su quel fazzoletto di scogli.
A presidio del faro si avvicendarono una ventina di guardiani che – con un paio di eccezioni – rinunciarono subito alla mansione, morirono in circostanze oscure o persero la ragione.
Un racconto era comune a tutti: durante le tempeste frequenti, l’isola sembrava abitata da fantasmi inquieti, in grado di produrre suoni spaventosi.
Il rumore era reale e la sua ragione è stata spiegata da una recente spedizione di speleologi. L’isolotto è percorso da un tunnel naturale: l’ingresso delle onde durante le tempeste provoca dei suoni inquietanti, simili a forti lamenti.

Nell’impossibilità di reperire personale per far funzionare il faro, nel 1910 il governo francese decise di renderlo automatico: fu il primo in Francia. Acceso giorno e notte veniva alimentato da considerevoli forniture di gas combustibile per ridurre i viaggi verso l’isolotto, a volte difficili per le condizioni del mare.

La storia di Tévennec sembrava destinata a concludersi con un faro solitario, su un’isola disabitata, presto dimenticato. Qualche anno fa, invece, un ente francese che si occupa del recupero e della valorizzazione dei fari di Francia, include Tévennec tra i fari di interesse storico.
Marc Pointud, il suo presidente, pensa di trascorrervi due mesi per riportare l’attenzione (e i possibili finanziamenti per il restauro) sul faro. Si trasferisce con le attrezzature che gli serviranno per rendere abitabile una stanza, vivere e aggiornare un blog. Anche se le comodità sono modeste, ed è quasi impossibile restare all’asciutto durante le tempeste, non demorde, porta a conclusione il suo soggiorno con la sola compagnia di due libri, ignorando l’effetto ipnotico, che si fa quasi tentazione e richiamo, delle acque in tempesta.

Curiosamente, il faro temuto per le urla e i lamenti soprannaturali ha insegnato il silenzio, perché – dopo i primi giorni – quei rumori che hanno fatto perdere il senno ad alcuni guardiani, le onde che si infrangono e i venti  non si sentono più, quasi scompaiono dalla percezione, pur essendo sempre presenti. Resta il colloquio con se stessi, che diventa una particolare forma di silenzio:

“Il silenzio è un abisso personale di redenzione. È l’alfa e l’omega del pensiero”.

 

FONTE:Logo Laveranda

Il sole ingoiato dal vulcano, lo spettacolare tramonto sullo Stromboli candidato a Patrimonio Unesco

tramonto stromboli

Il sole che tramonta sul cratere del vulcano Stromboli, in Sicilia, come se ne venisse ingoiato. Uno spettacolo che toglie il fiato, da vedere almeno una volta nella vita. Così bello da diventare Patrimonio dell'Umanità. O almeno provarci. 

Sembra un dipinto vista la sua bellezza, ma il sole che sembra infilarsi direttamente nella bocca dello Stromboli è reale. Ad ammirarlo d'estate sono in tanti. Oggi, il tramonto di una delle isole più affascinanti e selvagge delle Eolie potrebbe essere candidato a diventare patrimonio Unesco.

I tramonti sono suggestivi e romantici ovunque, lo sanno anche i bambini, ma questo ha qualcosa di davvero speciale. Al calar della sera, d'estate, il cielo si tinge di tonalità calde, di arancio e rosso, che sembrano esser dipinte direttamente dalle spettacolari eruzioni di lava del vulcano.

Sullo sfondo color fuoco, il sole sembra essere ingoiato dallo Stromboli. Uno spettacolo unico che si può ammirare solo da poche località siciliane e calabresi, dalla Costa degli dei, da Pizzo Calabro a Zambrone, da Tropea e da pochi borghi dell’entroterra orientati sul Tirreno.

Da qui l'idea di un comitato di giovani calabresi, Calabria Network Mediterraneo, di proporre la candidatura del tramonto sullo Stromboli a patrimonio mondiale Unesco dell'Umanità.

tramonto stromboli 2

tramonto stromboli 1

I requisiti richiesti ci sono tutti: unicità, universalità e insostituibilità. Inoltre, il fenomeno soddisfa il VII Criterio della Convenzione sul patrimonio dell’Umanità del 1972 in base al quale sono riconoscibili

"fenomeni naturali o atmosfere di una bellezza naturale e di una importanza estetica eccezionale".

tramonto stromboli 3

Le Eolie sono già Patrimonio Unesco dal 2000 come riserva della biosfera. Nelle 7 isole, sono presenti due vulcani attivi, Vulcano e Stromboli. Quest'ultimo regala spesso spettacolari eruzioni, mediamente ne avviene una ogni ora. Dalla sua sciara del Fuoco, visibile solo dal mare, scivolano giù costantemente detriti e ceneri.

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Foto: Francesca Mancuso

Uno spettacolo nello spettacolo!

FONTE: logo greenme

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Non arrenderti mai amico mio, impare a cercare sempre il sole, anche quando sembra che venga la  tempesta ... e lotta!

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