Quale era la differenza tra i S.L.C. e i Chariot britannici? Ce lo racconta Mauro Moscatelli

Un interessante approfondimento dal sito OCEAN4FUTURE a cura di Mauro Moscatelli

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La storia degli Assaltatori italiani nella Seconda guerra mondiale è universalmente conosciuta. Sulle gesta di quel manipolo di uomini che, a cavalcioni del Siluro a Lenta Corsa (S.L.C.) – frutto del più puro ingegno italiano – combatterono in tutti i teatri bellici del Mediterraneo, sono stati scritti fiumi di inchiostro. Probabilmente meno conosciuta è la storia dell’omologo apparecchio britannico, lo “Chariot”, che sull’onda dei clamorosi successi italiani tentò, con la sua messa in linea nel 1942, di imitarne le gesta.

Forse per questo motivo e forse anche a causa della scarsa disponibilità di foto che ritraggono l’S.L.C., a volte l’inglese “Chariot” viene spesso confuso, dai meno attenti, con il guerresco apparecchio letteralmente inventato da Teseo Tesei e Elios Toschi nei primi anni ’30.

L’S.L.C.

L’idea di costruire un mezzo innovativo semovente subacqueo nacque da una conferenza tenuta presso la Regia Accademia Navale di Livorno da Raffaele Rossetti sull’affondamento della Viribus Unitis con la “Mignatta”. Un’idea  che attivò l’immaginazione di Teseo Tesei per realizzare il progetto del Siluro a (di) Lenta Corsa (alcune fonti anche Siluro a Lunga Corsa) passato alla storia con il nomignolo di “maiale”. Sviluppato con l’aiuto di Elios Toschi, il primo prototipo dell’L.S.C. fu collaudato nel Regio Arsenale di La Spezia la notte del 26 ottobre 1935. La prima versione del mezzo subacqueo semovente realizzato da Teseo Tesei e Elios Toschi presentava le seguenti caratteristiche:

  • Peso totale 1.400 kg
  • Lunghezza f.t. 7,30 m
  • Diametro del corpo del cilindro 530 mm
  • Propulsione motore elettrico a corrente continua da 1,6 HP
  • Velocità massima circa 3 nodi
  • Autonomia circa 15 miglia alla velocità di 2,3 nodi

Il siluro a lenta corsa venne impiegato in tutti i teatri del Mediterraneo con fortune alterne, soprattutto nelle prime fasi della guerra. Infatti, soprattutto a causa di colpevoli ritardi nello sviluppo di tutta la componente, le prime operazioni fallirono la prova a causa di stupide avarie che impedirono di cogliere il pieno clamoroso successo, a volte a pochi metri dall’obiettivo. Fallimenti operativi che permisero agli inglesi di iniziare a raccogliere preziose informazioni sulla nuova arma sviluppata dagli italiani, che consentiranno loro, nel 1942, di realizzare la versione britannica della “torpedine semovente” italiana. Ma a fronte di questi insuccessi, malgrado l’imponente sistema difensivo messo in atto dagli inglesi, che ormai ben conoscevano la minaccia, numerose furono le operazioni portate a termine con pieno successo, la più eclatante delle quali fu certamente l’operazione del 1941 contro la roccaforte di Alessandria d’Egitto, passata alla storia con l’acronimo di “operazione G.A.3“.

 

Il Chariot

Il successo dell’operazione ad Alessandria d’Egitto, quando tre S.L.C. causarono l’affondamento delle uniche corazzate della Mediterranean Fleet, indussero il Primo Ministro britannico Winston Churchill ad intervenire presso il Comitato dei Capi di Stato Maggiore: “Prego riferire su quanto è stato fatto per emulare i successi degli italiani nel porto di Alessandria attraverso analoghi metodi (…) C’è qualche motivo per cui noi si sia incapaci della stessa specie di scientifica azione aggressiva dimostrata dagli italiani?” Il risultato di questa dura reprimenda fu la realizzazione di una copia pressoché speculare del semovente italiano, che gli specialisti britannici riuscirono a realizzare grazie alle abbondanti informazioni tecniche raccolte fin dal 1940. È così nacque lo Chariot, letteralmente “carretto”, il cui primo vero esemplare fu provato in mare nel giugno del 1942. Le principali caratteristiche tecniche e prestazioni dello “Chariot” MK1 non si discostavano molto dai primi S.L.C. italiani:

  • Peso totale circa 1.500 kg
  • Lunghezza f.t. 6,80 m
  • Diametro del corpo centrale 533 mm
  • Propulsione motore elettrico a corrente continua da 2 HP
  • Velocità massima 2,9 nodi
  • Autonomia circa 17,4 miglia a 2,9 nodi

I risultati ottenuti dagli inglesi con il loro Chariot nel periodo pre-armistizio non furono esaltanti. Delle 4 operazioni avviate solo quella contro il porto di Palermo del gennaio 1943 ebbe successo, con l’affondamento dell’incrociatore leggero Ulpio Traiano ed il grave danneggiamento della motonave Viminale. Durante il periodo della co-belligeranza italiana con gli alleati i Chariot parteciparono nel giugno del ’44 all’attacco della base navale di La Spezia in mano tedesca, provocando l’affondamento dello scafo in abbandono della RN Bolzano. Il 19 aprile del 1945, con l’operazione “Toast”, 2 Chariots attaccarono l’incompiuta portaerei Aquila all’ormeggio a Genova.

Da questa constatazione e dalla volontà di rendere onore a quegli incredibili combattenti, che dall’una e dall’altra parte combatterono per mare, ho sentito l’esigenza di scrivere questo breve articolo, con l’intento di indicare quegli elementi specifici che consentano di individuare inequivocabilmente, con facilità e certezza, quando si tratta del semovente italiano e quando di quello inglese.

Le differenze tra l’equipaggiamento subacqueo del pilota inglese da quello italiano sono numerose e ben evidenti. Dovendo operare anche nelle fredde acque del nord, il pilota inglese era equipaggiato con una tuta stagna decisamente più imponente. La tuta era dotata di un cappuccio che copriva completamente la testa come una sorta di elmo da palombaro. La maschera era costituita da un vetro mobile che veniva serrato sull’intelaiatura del cappuccio per mezzo di alcuni galletti di fissaggio a vite. Sulla sommità del cappuccio era presente una valvola che consentiva di scaricare l’eccesso di aria presente all’interno della tuta stagna. Questi tre elementi sono facilmente individuabili in tutte le fotografie di Chariot che circolano in rete e rappresentano, di fatto, gli elementi che più di altri consentono di distinguere i piloti inglesi dai piloti italiani. Molto più semplice l’equipaggiamento del pilota italiano che lasciava completamente libera la testa. Per proteggersi dal freddo il pilota poteva indossare una sorta di cuffia imbottita.

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La maschera bioculare, visibile nella foto indossata dalla M.A.V.M. Mario Tadini, fu successivamente sostituita da una maschera con lente unica.

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Nella foto che ritrae Luigi Durand De La Penne è ben visibile l’enorme differenza, in termine di ingombri, tra l’equipaggiamento subacqueo in dotazione ai piloti italiani rispetto ai corrispettivi inglesi (due immagini sul lato sinistro).

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Anche per quanto riguarda il semovente si possono facilmente notare delle importanti differenze tra l’apparecchio italiano (S.L.C.) e quello inglese (Chariot). In particolare, le differenze che facilmente balzano all’occhio riguardano le sovrastrutture che armano la parte centrale del semovente destinata ad ospitare e proteggere i piloti. All’apparenza più squadrato e spigoloso quello inglese, più rotondeggiante quello italiano. Inoltre lo Chariot inglese è ulteriormente caratterizzato dai numerosi fori cilindrici delle piastre di rinforzo laterali, sempre ben visibili quando l’apparecchio è fuori dall’acqua.

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Queste due immagini conclusive evidenziano le caratteristiche distintive dello Chariot inglese sopra descritte. Grazie all’osservazione di queste semplici caratteristiche, spero sarà ora più semplice distinguere lo Chariot inglese dall’SLC italiano senza cadere in inganno.

Mauro Moscatelli

Articolo pubblicato originariamente su S.L.C. o Chariot? Attenzione a non confonderli | (anaim.it)


Per saperne di più

Per chi volesse approfondire il tema trattato, consiglio le seguenti letture:

I Mezzi di assalto italiani 1940-1945

Questo splendido volume bilingue realizzato dalla Edizioni “Storia Militare” è una vera e propria bibbia sul mondo dei mezzi d’assalto italiani dove vengono riportati con dovizia di particolari tutte le informazioni tecniche disponibili sui mezzi sia subacquei sia di superficie. Notevoli anche gli approfondimenti sulle realizzazioni similari prodotte da Inghilterra, Germania e Giappone. Infine non mancano approfondimenti sugli equipaggiamenti utilizzati dagli Incursori italiani, e sull’organizzazione logistica messa in piedi dalla Decima Flottiglia MAS. Un libro che non può assolutamente mancare nella libreria di un appassionato della storia dei mezzi d’assalto.

Chariots of war

L’autore di questo volume in lingua inglese è Robert E. Hobson, figlio del Lieutenant-Commander R.S. Hobson, pilota di Chariot durante la Seconda guerra mondiale. In seguito alla morte del padre avvenuta nel 1989, Robert si ritrovò quasi per caso a curiosare su una serie di documenti relativi alla sua esperienza di guerra; tra questi documenti spiccavano alcuni che riportavano la stampigliatura “TOP SECRET” ed erano relativi ad un’arma subacquea indicata come “chariot” o “siluro umano”. Incuriosito dalla lettura di quella documentazione, Hobson cercò di documentarsi ulteriormente, ma si rese immediatamente conto che esisteva pochissimo materiale circa questo affascinante ed importante aspetto della guerra navale, ne tanto meno un elenco degli uomini coinvolti in questa attività̀. Per riportare la memoria su questi ardimentosi marinai interpreti di una incredibile storia, Hobson ha creato un memoriale, un museo ed infine ha scritto questo libro. Chariot of war è il libro che racconta la storia dei “maiali” inglesi nella seconda guerra mondiale.

Inoltre:

Le armi segrete degli incursori britannici durante la seconda guerra mondiale, i chariot • (ocean4future.org)

la serie I mezzi di assalto, dalla mignatta ai siluri a lenta corsa: le azioni che cambiarono la guerra navale – prima parte • (ocean4future.org)

NOTA: le immagini presentate in questo articolo sono tratte dai libri “I mezzi d’assalto italiani 1940-1945” e “Chariots of war “.

Alcune delle foto presenti in questo blog possono essere state prese dal web, citandone ove possibile gli autori e/o le fonti. Se qualcuno desiderasse specificarne l’autore o rimuoverle, può scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. e provvederemo immediatamente alla correzione dell’articolo

Classe 1962, si è arruolato in Marina a gennaio del 1980. Ha frequentato la Scuola Sottufficiali di La Maddalena nella categoria Nocchieri. Dopo un breve imbarco su nave Cavezzale, nel 1981 ha frequentato il 32° Corso Incursori “Boomerang”, meritando il brevetto nr. 669. Dopo 42 anni di servizio effettivo, di cui 40 interamente trascorsi in forza al Gruppo Operativo Incursori, è stato posto in congedo per raggiunti limiti di età con il grado di 1° LGT. Attualmente si occupa della gestione del sito web www.anaim.it, dell’Associazione Nazionale Arditi Incursori Marina (ANAIM) del quale è socio ordinario

 

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Giuramento congiunto del corso normale marescialli della Marina e degli allievi Carabinieri

Domani, dalle ore 10.00, nella Piazza Marinai d’Italia di Taranto giureranno fedeltà alla Repubblica, in una cerimonia congiunta, gli allievi del Corso Normali Marescialli Marina Militare e gli allievi del Corso Carabinieri

giuramento2024 taranto
 

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https://bit.ly/GiuramentoMMeCC

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Il caso del USS San Francisco: quando un sottomarino nucleare urtò una montagna … sottomarina

Dal sito OCEAN4FUTURE una curiosità che pochi conoscono

MARINA US SOTTOMARINO SSN 711 damages 05

Tutti sappiamo quanto sia importante aggiornare le mappe dei nostri sistemi di navigazione per non incorrere in spiacevoli inconvenienti. Se questo può comportare dei ritardi guidando la nostra autovettura, il problema può essere decisamente più serio in mare, in particolare se stiamo navigando … sott’acqua, dove la navigazione necessita di carte nautiche decisamente aggiornate. Cosa hanno di speciale? Come quelle di superficie, le carte nautiche impiegate sui sommergibili riportano gli ostacoli alla navigazione e gli ufficiali di rotta devono considerare che il loro “ingombro” può variare anche con la profondità. Il problema è che la morfologia dei fondali del mare non è ancora così conosciuta per cui le sorprese possono essere spiacevoli.

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Santa Rita, Guam – Il sottomarino d’attacco USS San Francisco (SSN 711) scortato da due rimorchiatori portuali ritorna ad Apra Harbour, Guam, dopo un dispiegamento di cinque mesi. San Francisco deve essere assegnato al COMSUBRON Fifteen, che è l’unico squadrone avanzato di sottomarini rischierato nel territorio statunitense di Guam – Autore marinaio fotografo di 2 Classe Mark A. Leonesio (RELEASED) – Fonte http://www.navy.mil/view_image.asp?id=14706
USS San Francisco (SSN-711) Apra.jpg – Wikimedia Commons

È quello che avvenne l’8 gennaio 2005, quando l’USS San Francisco, un sottomarino a propulsione nucleare della marina statunitense (US Navy) classe Los Angeles, entrò in collisione con la parte superiore di una montagna sottomarina. 

Un gigante del mare


L’USS San Francisco è un sottomarino di grandi dimensioni con un dislocamento di ben 6.900 tonnellate in immersione ed è una lunghezza circa 110 metri. La sua propulsione è assicurata da un reattore nucleare General Electric PWR S6G che fornisce una potenza di 35mila cavalli che permettono una velocità massima di 33 nodi. Essendo un sottomarino passa gran parte della sua missione di pattugliamento negli abissi per riemergere solo a termine del suo lungo periodo di operazioni che può essere anche di molti mesi. Teoricamente, a differenza delle navi e sommergibili convenzionali, non hanno bisogno di fare rifornimento di carburante avendo un’autonomia potenziale di anni grazie alla propulsione nucleare. L’equipaggio è normalmente composto da 129 tra ufficiali, sottufficiali e marinai specialisti che operano per mesi all’interno del battello nel suo transito nelle profondità marine.

Al momento della collisione, l’USS San Francisco era vicino a Guam in una missione di addestramento ed in rotta verso Brisbane, Australia, dove avrebbe dovuto fare una breve sosta. Le rotte di navigazione erano state tracciate sulla mappe in dotazione, evitando aree con possibile presenza di ostacoli. Il sottomarino era ad una profondità di circa 525 piedi (160 metri) e navigava alla velocità di circa 25 nodi in prossimità della catena montuosa delle Isole Caroline. Navigando alla cieca (blind navigation), ovvero senza l’utilizzo del sonar attivo (come normalmente avviene per evitare di essere sentiti), il battello non si rese conto dell’approssimarsi della montagna sottomarina.

Un breve filmato del sottomarino USS San Francisco in emersione

Anche se la velocità di 25 nodi (25 miglia all’ora) potrebbe non sembrare molto, parliamo di un gigante del mare con una massa di più di 6.000 tonnellate che improvvisamente andò ad urtare una montagna sottomarina che non appariva sulle carte nautiche in dotazione. Un urto di prora tanto violento che danneggiò gravemente i serbatoi di zavorra e la cupola del sonar, e comportò il ferimento di 98 persone di cui uno, il marinaio macchinista di 2 classe Joseph Allen Ashley, perse la vita. Dai rapporti emerse che i marinai, che stavano consumando il pasto nella mensa di bordo, furono scagliati attraverso il locale. Uno dei sottufficiali, Brian Barnes, durante un’intervista, descrisse la drammatica scena: ” … solo corpi ovunque. Vetri e piatti rotti … ed i tuoi compagni che si lamentano perché soffrono, urlano.”

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USS San Francisco (SSN-711) in bacino di carenaggio per valutare i danni subiti dopo essersi arenata a circa 350 miglia a sud di Guam l’8 gennaio 2005.  La protezione blu serve a nascondere l’attrezzatura sottostante classificata – foto del marinaio fotografo 2a classe Mark Allen Leonesio – da U.S. Navy NewsStand Photo ID 050127-N-4658L-030; foto modificata da Papa Lima Whisky 
USS San Franciso drydock Sm edit.jpg – Wikimedia Commons

A seguito dell’urto, la prua del USS San Francisco si accartocciò aprendosi per i primi dieci metri prodieri, con le strutture rovinosamente esposte al mare. L’acqua di mare incominciò ad entrare all’interno del sottomarino attraverso le falle e l’unica soluzione fu l’emersione rapida, pompando aria nei serbatoi di zavorra per variare il suo assetto e riportare il sottomarino in superficie. L’equipaggio reagì prontamente all’ordine di risalita di emergenza nonostante molti erano gravemente feriti. Si racconta che un marinaio azionò le valvole della risalita rapida nonostante avesse entrambe le braccia fratturate.

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disegno della sezione prodiera del USS San Francisco – da https://idahospudsblog..-collisions-uss-san-francisco.html

Una volta azionati gli interruttori per la manovra di risalita rapida, ci si aspettava che i serbatoi di zavorra del sottomarino si riempissero immediatamente di aria ad alta pressione, rendendo il sottomarino positivo e quindi talmente “galleggiante” da delfinare oltre la superficie dell’acqua. In realtà, per 60 interminabili secondi di terrore il San Francisco sembrò non reagire … un’eternità per l’equipaggio. Quindi, la parte posteriore del sottomarino iniziò finalmente ad inclinarsi verso l’alto mentre i serbatoi di zavorra posteriori si riempivano gradualmente d’aria. In superficie i motoristi di bordo furono in grado di avviare il motore diesel ausiliario per mantenere pieni i serbatoi di zavorra danneggiati. Fortunatamente i suoi siluri Mk. 48 ed i missili da crociera Tomahawk non si attivarono e, sorprendentemente, anche il reattore nucleare non fu danneggiato.

L’USS San Francisco, non con poche difficoltà, fu in grado di navigare in superficie alla lenta velocità di dieci nodi verso Guam, impiegando cinquantadue ore per arrivare nella base di Guam dove poté effettuare le prime riparazioni (temporanee) in modo da poter poi raggiungere la base navale di Pearl Harbor dove verosimilmente lo aspettava un lungo periodo di lavori di manutenzione.

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Apra harbor (8 maggio 2005) – Il sottomarino classe di Los Angeles USS San Francisco (SSN 711)  nel bacino di carenaggio. Una nuova grande cupola in acciaio di altezza circa 20 piedi e un diametro di 20 piedi è stata messa al posto della precedente danneggiata – U.S. Navy photo (RELEASED) – Public domain
USS San Francisco (SSN 711) shown in dry dock during repair.jpg – Wikimedia Commons

Epilogo

Dopo aver sostituito le parti danneggiate il USS San Francisco fu distolto dalla attività operativa e designato all’addestramento per la scuola di ingegneria nucleare della Marina di Charleston, Carolina del Sud. 

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Capitano di fregata Kevin Mooney – U.S. Navy photo (RELEASED) –Public domain
CDR Kevin Mooney.jpg – Wikimedia Commons 

Il comandante del sottomarino all’epoca dell’incidente, capitano di fregata Kevin Mooney, fu sollevato dal comando con la seguente motivazione “… critical safety procedures were overlooked on the nuclear submarine …“. Il procedimento disciplinare, tenutosi nella base navale di Yokosuka, a sud di Tokyo, da parte di una Commissione della U.S. Seventh Fleet, riguardò anche altri sei membri dell’equipaggio, che furono poi degradati per aver dimostrato qualche … incapacità professionale. Per il resto dell’equipaggio, l’immediata risposta all’emergenza a seguito della collisione, che comportò il salvataggio del battello, ricevettero una medaglia. Sembrerebbe una logica conseguenza ma durante l’inchiesta emerse comunque qualcosa di strano.

Cosa era successo?

La domanda che ci si pone è come possa essere successo un tale incidente. Al di là delle responsabilità assegnate al Comandante sulla gestione dell’emergenza (difficilmente valutabili senza poter accedere al rapporto finale), durante l’inchiesta la commissione della US Navy scoprì, con un certo imbarazzo, che il sottomarino aveva utilizzato per navigare delle carte obsolete. La carta nautica utilizzata dall’equipaggio era infatti stata preparata dalla Defense Mapping Agency … nel 1989 e mai aggiornata dai responsabili del servizio di navigazione.

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La rotta percorsa dal sottomarino nucleare prima dell'”incontro” con la montagna sottomarina, presente anche su Google Earth –
secondo  https://idahospudsblog.blogspot.com/2020/07/submarine-collisions-uss-san-francisco.html

Secondo uno studio sull’area dell’incidente, preparato dall’Università del Massachusetts nel 2008, un’immagine satellitare Landsat mostrava già una montagna sottomarina di oltre 6.500 piedi di elevazione dal fondo, che arrivava fino a 30 metri dalla superficie. Purtroppo le carte della Marina statunitense non erano state aggiornate con i nuovi dati perché, secondo il rapporto della University of Massachusetts, la US Navy aveva ritenuto che, con la cessazione della Guerra Fredda, l’area del sito dell’incidente non avesse una priorità elevata per effettuare una mappatura più accurata. Cosa che era stata invece data alla Regione marittima mediorientale durante la guerra globale al terrorismo. L’inchiesta scoprì (vedi aggiornamento) però che altri documenti nautici, non tenuti in dovuta considerazione dal team di navigazione, erano comunque presenti a bordo e, se fossero stati considerati, avrebbero potuto limitare se non evitare l’incidente. 

Aggiornamento
Secondo il sito MARINELINK, dall’inchiesta risultarono nuovi fatti che giustificarono le azioni disciplinari per il Comandante e alcuni membri dell’equipaggio:
… omissis …
“The findings of fact show that San Francisco, while transiting at flank (maximum) speed and submerged to 525 feet, hit a seamount that did not appear on the chart being used for navigation,” the 124-page report said of the incident in the vicinity of the Caroline Islands. 

“Other charts in San Francisco’s possession did, however, clearly display a navigation hazard in the vicinity of the grounding,” it said. “San Francisco’s navigation team failed to review those charts adequately and transfer pertinent data to the chart being used for navigation, as relevant directives and the ship’s own procedures required. “If San Francisco’s leaders and watch teams had complied with requisite procedures and exercised prudent navigation practices, the grounding would most likely have been avoided. Even if not wholly avoided, however, the grounding would not have been as severe and loss of life may have been prevented.”
… omissis …
Greenert also criticized the executive officer and navigation team for their share of the responsibility, saying their “failure to adequately and critically review applicable publications and available charts led to submission of an ill-advised voyage plan and hindered the commanding officer’s ability to make fully informed safety-of-ship decisions.

Conclusioni

L’USS San Francisco, al termine dei lunghi lavori, riprese il mare e tornò a Point Loma nell’ottobre 2016 dopo aver concluso nella sua vita operativa sei dislocamenti oceanici. Il cambio di comando e la cerimonia di addio avvenne il 4 novembre 2016, poco prima di essere trasferito a Norfolk per essere trasformato in “sottomarino scuola ormeggiato” (MTS) presso la Navy’s Nuclear Power Unit, una struttura di formazione specialistica di base a Charleston, South Carolina. L’11 maggio 2017, la nave fu posta in “‘In Commission Special’ – stand down for MTS conversion“, un processo di 32 mesi che comprendeva lo sbarco di tutti sistemi non necessari che venne però completato solo a metà del 2021. Il 16 agosto 2021 il sottomarino venne quindi trasferito da Norfolk alla base di Charleston dove fu radiato definitivamente il 15 maggio 2022.

Andrea Mucedola

in anteprima il grave danno al sottomarino USS San Francisco – Autore USN photographer – Fonte  http://www.strategypage.com/gallery/articles/military_photos_20053315.asp
SSN-711-damages 05.jpg – Wikimedia Commons 

Riferimenti
Command investigation about the apparent submerged grounding of USS San Francisco (SSN 711)  

Spud’s blog: Submarine Collisions – USS San Francisco SSN-711 (idahospudsblog.blogspot.com)
Roblin, Sebastien (17 October 2019). “This Is What Happens When a U.S. Navy Attack Submarine Crashes Into a ‘Mountain'” – The National Interest.
Running Critical: The Silent War, Rickover, and General Dynamics Hardcover – January 1, 1986, Patrick Tyler 
Wikipedia

Ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con numerosi Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare. Fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Atlantide e della Scuola internazionale Subacquei scientifici (ISSD – AIOSS).

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Il ritorno strategico delle battaglie navali. E l'Italia mette in acqua la sua flotta globale

Gli Houthi nel Mar Rosso hanno mostrato i danni che si possono infliggere bloccando un canale. Il destino di Taiwan dipende anche dal mare. Il nostro Paese impegnato dal Mediterraneo all'Oceano Pacifico

Corazzata

Allarme rosso: Lancio missilistico dallo Yemen, tuona l'altoparlante di nave Caio Duilio. Il cacciatorpediniere è il comando tattico dell'operazione europea Aspides (Scudo) nel Mar Rosso per difendere i mercantili dalla minaccia degli Houti spalleggiati dall'Iran. Ieri un missile balistico antinave è stato lanciato dagli Houthi filo iraniani contro il cargo Hope Island di proprietà inglese, ma gestito da italiani. La portaerei Garibaldi ha operato in Norvegia per l'esercitazione Nordic response 24 della Nato, un forte segnale ai russi, assieme alla nave anfibia San Giorgio e con cinquanta unità di diversi paesi. Il 6 aprile la nave scuola Amerigo Vespucci, impegnata nel giro del mondo come fiore all'occhiello dell'Italia, ha doppiato a vela Capo Horn. Le nostre forze partecipano dall'8 al 21 aprile all'esercitazione Sea Shield nel Mar Nero e sul Danubio a guida romena. E la portaerei Cavour, l'ammiraglia italiana, con la sua squadra navale, salperà per l'Estremo Oriente dove la tensione è sempre alta per le mire cinesi su Taiwan. Una flotta globale che lo scorso anno ha dispiegato in media, ogni giorno in mare, 30 navi, due sommergibili e una dozzina di assetti aerei (in tutto 4mila marinai). Metà delle unità sono state schierate al di fuori del Mediterraneo nella riedizione moderna della politica delle cannoniere, oggi chiamata diplomazia navale. «In un mondo globalizzato non c'è nulla di troppo lontano. Non bisogna pensare in termini di distanza geografica, ma di interesse nazionale dal Mediterraneo all'Indo Pacifico» spiega al Giornale l'ammiraglio Luigi Binelli Mantelli, che è stato capo di stato maggiore della Marina e della Difesa. I numeri della centralità del mare» parlano chiaro: 90% del traffico merci mondiale e il 25% di impatto sul prodotto interno lordo italiano.

«Aspides dal punto di vista dell'interesse nazionale è una missione fondamentale per la sicurezza e la nostra economia. I porti di Trieste, Genova e Gioia Tauro sono destinati a subire grosse perdite di traffico se non si garantirà l'assoluta libertà di navigazione. Americani e inglesi bombardano i siti di lancio nello Yemen. La nostra missione è difensiva, ma attiva. Se arriva un barchino minato o un drone dobbiamo tirarli giù», spiega Giuseppe Lertora, che ha ricoperto l'incarico di Cincnav, comandante della squadra navale. E il Duilio ha già intercettato tre droni degli Houthi abbattendoli con i cannoni Oto Melara. La prima azione di guerra della Marina militare dalla fine del secondo conflitto mondiale.

I passaggi attraverso Suez sono crollati del 50%. E per il canale viaggiava il 40% dell'import-export marittimo italiano. Non solo: le portacontainer che facevano scalo da noi adesso che devono circumnavigare l'Africa potrebbero puntare sui porti di Le Havre, Rotterdam e Amburgo. Non è un caso che all'Italia sia stato affidato il comando tattico dell'Aspides con il contrammiraglio Stefano Costantino a bordo del Caio Duilio. «Esiste un obiettivo strategico di accerchiare l'Europa dall'Ucraina, all'Africa fino ad Israele - sostiene Binelli Mantelli -. Un disegno che fa comodo alle grandi potenze orientali, Russia e Cina, per indebolire l'Occidente e in particolare il nostro continente». A presidiare l'area oltre lo stretto di Bab el-Mandeb la Marina schiera anche la fregata lanciamissili Federico Martinengo, che ha preso il comando della missione antipirateria Atalanta.

«Nel Mediterraneo abbiamo ampliato notevolmente l'area di sorveglianza arrivando a due milioni di chilometri quadrati», fa notare Lertora. Il fulcro del dispiegamento navale italiano rimane il Mare Nostrum. Mediterraneo sicuro, una delle missioni più importanti, arriva a schierare fino a 6 fra navi e sommergibili, come la fregata Carlo Bergamini. Gli obiettivi sono la difesa delle linee di comunicazione marittime, il controllo del dominio subacqueo, la protezione dei nostri pescherecci, della flotta nazionale e delle piattaforme off shore. A Tripoli, nella base navale di Abu Sitta, è sempre ormeggiata una nave in appoggio tecnico-logistico alla Marina libica. L'Italia aiuta anche la Guardia costiera nella lotta all'immigrazione illegale. Altre unità, come il cacciamine Viareggio e il pattugliatore polivalente d'altura Morosini, hanno partecipato alla missione Noble Shield e fanno parte del gruppo marittimo Nato che garantisce la deterrenza nel bacino del Mediterraneo dove non mancano incursioni russe. Per l'ex Cincnav «l'attività russa è tornata ai tempi della Guerra fredda». La nuova missione Fondali sicuri con nave Vieste protegge gli spazi di mare dove corrono le infrastrutture critiche come linee dati ed energetiche. L'operazione è stata lanciata nel 2022 dopo il sabotaggio del gasdotto Nord stream nel Mar Baltico. E proprio nel Nord è stata schierata la fregata Luigi Rizzo per l'operazione Brilliant Shield voluta dalla Nato dopo l'invasione dell'Ucraina come scudo navale per i paesi Baltici e la Polonia. Dal 3 al 14 marzo la portaerei Garibaldi e nave San Giorgio con unità da sbarco della brigata San Marco hanno partecipato all'esercitazione Nordic response 24 nell'area fra Norvegia, Svezia e Finlandia, neo membri della Nato.

La mobilitazione per contenere l'orso russo prevede pure, come ha annunciato il ministro Crosetto in Parlamento, la partecipazione italiana alla Coalizione marittima, guidata da Gran Bretagna e Norvegia, per «la ricostituzione della Marina ucraina». Lertora fa notare che «secondo l'espressione mare-oceano lo spazio Euro-Atlantico è collegato all'Indo Pacifico. La Cina ha più navi degli americani e nel 2030 supererà anche il gap tecnologico. Vuole dimostrare di essere la padrona dell'Indo-Pacifico».

Il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, in visita a Tokyo agli inizi di febbraio, ha confermato l'invio di una squadra navale guidata dall'ammiraglia italiana Cavour per addestramento congiunto con la Marina giapponese a cominciare dalla portaerei Kaga. Prima ancora le unità italiane parteciperanno all'esercitazione Pitch Black a Darwin.

La squadra navale italiana opererà nell'Indo-Pacifico per sei mesi a cominciare da giugno. E parteciperà, per la prima volta, alla più grande manovra navale del mondo, la Rim of the Pacific Exercise, a guida americana dal quartier generale di Pearl Harbour.

Il vero problema della flotta globale, però, è la carenza di personale. Il parlamento ha approvato l'aumento di 3.250 uomini arrivando ad un totale di 30.500 militari. La Marina sottolinea che «non è risolutivo a fronte dell'esigenza minima utile a fronteggiare gli impegni, calcolata in almeno 35.000 unità». E il modello più adeguato alle sfide di oggi è di 39mila marinai.In pratica mancano all'appello almeno 5mila marinai.

FONTE:IL GIORNALE.IT

 

News Marina Militare,, Il ritorno strategico delle battaglie navali. E l'Italia mette in acqua la sua flotta globale

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Un evento storico: Nave Amerigo Vespucci ha doppiato per la prima volta Capo Horn

Dal sito OCEAN4FUTURE un bellissimo articolo sull'evento del Vespucci a cura di Andrea Mucedola

Alle ore 04:53 Z del 5 aprile 2024, Nave Vespucci ha doppiato a vela Capo Horn, in rotta per raggiungere il porto di Ushuaia. L’evento è storico essendo la prima volta che la nave più bella del mondo si spinge così a sud per transitare in un’area marina considerata ancora oggi tra le più pericolose per la navigazione.

 

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Estratto del messaggio del transito della nave scuola Amerigo Vespucci da Capo Horn

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Il mitico Cap Horn

La storia di Capo Horn si perde nei secoli quando, nel 1526 la nave spagnola San Lesmes, comandata da Francisco de Hoces, fu spinta a sud da una tempesta all’estremità atlantica dello stretto di Magellano. La nave arrivò oltre la latitudine di 56° S, fino ad allora si pensava fosse il limite estremo delle terre Non a caso, dopo la occasionale scoperta, nelle carte nautiche venne riportato il nome di quel mare come Mar de Hoces. Un mare che destò scarso interesse vista la sua pericolosità. Quelle acque tempestose, battute da venti furiosi portarono alla ricerca di passaggi più sicuri, in quella complicata geografia di canali e isole sperdute. Nel settembre del 1578, nel corso della sua circumnavigazione del mondo, il celebre navigatore e pirata Francis Drake tentò di attraversare lo stretto di Magellano per raggiungere l’Oceano Pacifico ma, un’improvvisa tempesta, spinse però le sue navi ben a sud della Terra del Fuoco. La distesa di mare aperto che incontrarono portò Drake a supporre che la Terra del Fuoco fosse un’isola con un mare aperto a sud e, sulle carte inglesi apparve la dicitura Drake Passage.

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CapeHornDetailMap.png – Wikimedia Commons

All’inizio del XVII secolo la Compagnia olandese delle Indie Orientali ottenne il monopolio su tutto il commercio olandese attraverso lo Stretto di Magellano e il Capo di Buona Speranza, le uniche rotte conosciute all’epoca verso l’Estremo Oriente. La ricerca di nuove rotte alternative verso la sconosciuta Terra Australis, portò Isaac Le Maire, un ricco mercante di Amsterdam e Willem Cornelison Schouten, capitano di una nave della città di Hoorn, a lasciare l’Olanda all’inizio di giugno 1615 con due navi: la Eendracht di 360 tonnellate (con Schouten e Le Maire a bordo), e la Hoorn di sole 110 tonnellate, al comando del fratello di Schouten, Johan. A causa del naufragio della seconda, la Eendracht si trovò ad attraversare il tempestoso e fino allora sconosciuto capo che venne chiamato Kaap Hoorn, in onore della loro città di origine e in seguito descritto dal capitano della Eendracht, alla fine di gennaio del 1616, nel suo resoconto Relazione di Un viaggio Meraviglioso. Da quel momento, nacque il suo mito ed il suo passaggio di Horn divenne un «evento» che molti incominciarono a festeggiare con un orecchino a forma di anello al lobo destro.

ClipperRoute

La rotta del clipper veniva effettuata tra l’Inghilterra e l’Australia/Nuova Zelanda e viceversa ClipperRoute.png – Wikimedia Commons 

Sebbene questo Capo fu per decenni un’importante via marittima sulla rotta dei clipper per il commercio, collezionando non pochi naufragi, il traffico mercantile attraverso Capo Horn fu notevolmente ridotto dall’apertura del Canale di Panama nell’agosto 1914. In realtà alcune navi cisterna e passeggeri di grandi dimensioni sono troppo larghe per passare attraverso il Canale di Panama, per cui occasionalmente transitano su quelle rotte, in particolare quando devono fare spola a Ushuaia o Punta Arenas verso la Penisola Antartica.

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mappa dell’area
Caphorn1.en.svg – Wikimedia Commons

Fattore determinante sono le condizioni meteorologiche lo consentono per cui la navigazione a sud di Capo Horn è ancora ampiamente considerata particolarmente pericolosa a causa dei forti venti, delle grandi onde che si formano, delle forti correnti e della presenza di iceberg. Tra i venti più insidiosi quelli di Williwaw, che possono colpire una nave con poco o nessun preavviso nel transito si preferiscono le acque aperte del Passaggio di Drake, a sud di Capo Horn, che costituiscono un percorso più ampio, con una larghezza di circa 800 chilometri (500 miglia), offrendo quindi una maggior possibilità di manovra al variare dei venti. Ricordo che i venti dominanti a latitudini inferiori a 40° sud possono soffiare da ovest verso est quasi ininterrottamente, dando origine ai ” “roaring forties” e agli ancor più temibili “furious fifties” e “screaming sixties“. Questi venti, che condizionano la capacità di manovra delle navi, sono esacerbati nei pressi del Capo dall’effetto di incanalamento causato dalle Ande e dalla penisola antartica, prendendo forza nello stretto Passaggio di Drake.

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Foto di una nave a vela non identificata durante una tempesta a Capo Horn. Data compresa tra il 1885 e il 1954 – Fonte Biblioteca nazionale dell’Australia

Unidentified tall ship near Cape Horn – Nla.pic-vn3299637-v.jpg – Wikimedia Commons

Come ricorderete da altri articoli, l’effetto del vento causa l’altezza delle onde (non a caso si parla sempre di Forza del vento e non del mare) per cui questi forti venti dell’Oceano Australe (che possono soffiare tra i 160 e i 220 km/h) agendo sulla grande massa d’acqua fanno scontrare le correnti atlantiche con quelle pacifiche, dando origine a onde che possono raggiungere grandi altezze (anche di 20 metri). Inoltre, a sud di Capo Horn, queste onde incontrano una zona di acque poco profonde (il fondale dello Stretto di Drake sale da 4.000 a 100 m di profondità in poche miglia) che ha l’effetto di rendere le onde più corte e più ripide, aumentando notevolmente il pericolo per le navi in transito.

Spero di aver chiarito con questo breve articolo l’importanza della grande impresa della nave scuola Amerigo Vespucci e del suo equipaggio, orgoglio della nostra Marina e dell’Italia. 
Andrea Mucedola

Se non diversamente citate, immagini tratte da wikipedia

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Ammiraglio della Marina Militare Italiana (riserva), è laureato in Scienze Marittime della Difesa presso l’Università di Pisa ed in Scienze Politiche cum laude all’Università di Trieste. Analista di Maritime Security, collabora con numerosi Centri di studi e analisi geopolitici italiani ed internazionali. È docente di cartografia e geodesia applicata ai rilievi in mare presso l’I.S.S.D.. Nel 2019, ha ricevuto il Tridente d’oro dell’Accademia delle Scienze e Tecniche Subacquee per la divulgazione della cultura del mare. Fa parte del Comitato scientifico della Fondazione Atlantide e della Scuola internazionale Subacquei scientifici (ISSD – AIOSS).

 

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La Marina Militare smantella le sue navi in un sito turco inquinato e privo di valutazione di impatto ambientale

Una notizia da Greepeace

cantieri turchi

Mentre si vanta della sua attenzione al rispetto dell’ambiente e alla valorizzazione del mare, la Marina Militare italiana smantella le sue navi storiche  in uno dei cantieri noti per la mancanza di conformità con la normativa UE. È quanto denunciano Greenpeace e la ONG Shipbreaking Platform, proprio mentre si sta ultimando la consegna di sette unità navali della Difesa italiana al cantiere turco Ege Çelik di Aliağa.

Come mostra un rapporto di Shipbreaking Platform, i cantieri di riciclaggio di Aliağa sono esentati dall’obbligo di valutazione di impatto ambientale e presentano alti livelli di inquinamento dell’aria, del suolo e dell’acqua, oltre a gravi irregolarità nella gestione dell’amianto e in materia di salute e sicurezza dei lavoratori. Oltre all’amianto, le sostanze tossiche rilevate sono arsenico, piombo e altri metalli pesanti, idrocarburi poliaromatici, ossido di tributile e dieldrina. Secondo il rapporto, i rifiuti solidi e liquidi derivati dal petrolio, provenienti dalla sentina delle navi, dall’acqua, dalla zavorra e dai fanghi, contribuiscono all’inquinamento costiero. Le alte concentrazioni di piombo nel suolo dei cantieri sono invece attribuibili alle vernici per navi. L’indagine ha inoltre svelato che l’inquinamento atmosferico da particolato e metalli pesanti è più intenso nella regione dove avviene la demolizione e riciclo delle navi.

«Aliağa è lo stesso sito in cui rischiava di finire smantellata la Costa Concordia. Per ovvi motivi di immagine e reputazione, la Concordia fu poi smantellata a Genova. È evidente che per la Marina Militare questa reputazione conta poco», dichiara Alessandro Giannì, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia. «Oltre che un contributo a un disastro ambientale noto da decenni, questa è anche un’occasione persa per creare occupazione nel nostro Paese con una filiera del decommissioning alimentata da commesse pubbliche e sostenuta da una normativa più efficace».

Quattro unità della Marina italiana (gli ex pattugliatori Bersagliere e Artigliere, e le ex fregate Maestrale e Scirocco) sono arrivate al cantiere di Aliağa il mese scorso, altre tre (gli ex sommergibili Da Vinci, Marconi e Di Cossato) sono partite da La Spezia la sera del 9 aprile con la stessa destinazione. Lo smantellamento di queste unità è un’impresa complessa, con sfide significative come la potenziale ruggine e il deterioramento, che aumentano il rischio di accumulo di gas pericolosi in spazi ristretti. È probabile che siano presenti materiali pericolosi quali carburante, PCB, nonché un’elevata quantità di amianto in spazi confinati. Dati i gravi problemi ambientali riscontrati nel settore del riciclaggio navale in Turchia, il trattamento di queste unità ad Aliağa suscita molte preoccupazioni.

Un altro rapporto, condotto dalla Facoltà di Agraria dell’Università Ege, in Turchia, ha rilevato che la biosfera di Aliağa e delle immediate vicinanze è in uno stato di estremo disastro e che le capacità di carico del bacino sono state superate. L’inquinamento da arsenico e piombo, in particolare, avrebbe raggiunto cumulativamente livelli pericolosi per la salute umana e per l’ambiente, mentre le attività industriali in corso nella regione, compreso il settore del riciclaggio delle navi, sarebbero insostenibili in termini di effetti sul suolo e sulle piante.

Il cantiere Ege Çelik, che ha vinto il bando da 1,7 milioni di euro dell’Agenzia Industrie Difesa, è nell’elenco dei siti approvati dall’Unione Europea, ma la sua la conformità non è stata pienamente confermata nel rapporto di ispezione della Commissione Europea di dicembre 2023. Tra i principali problemi del cantiere, il rapporto cita l’insufficiente controllo delle perdite e di altri effetti negativi sull’ambiente durante lo smantellamento delle piattaforme petrolifere e gli importi molto bassi delle fatture emesse per la rimozione dell’amianto che fanno dubitare che l’amianto a bordo delle navi venga rimosso in modo sicuro. Sono state riscontrate anche la mancanza di azioni preventive e l’irregolare manutenzione dei dispositivi di sicurezza.

«Considerata la preoccupante situazione ambientale ad Aliağa, in Turchia, è imperativo che il proprietario dei rifiuti, la Marina Militare italiana, conduca la due diligence  riguardo alla destinazione finale delle proprie navi», dice Ekin Sakin, Policy Officer di Shipbreaking Platform e autrice del report Ship Recycling in Turkey: Challenges and Future Direction. «È fondamentale garantire che lo smantellamento e i successivi processi di gestione dei rifiuti non abbiano un impatto negativo sull’ambiente e sulle persone».

Scarica le foto delle 4 unità navali della Marina Militare Italiana spiaggiate al cantiere Ege Çelik di Aliağa.

FONTE: GREENPEACE

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