Così i marinai italiani insegneranno ai libici a salvare vite in mare

Marinai Libia

Le tragedie nel Mediterraneo

Entrano nel vivo gli addestramenti. I primi: due equipaggi militari di Eunavfor, la San Giorgio e l’olandese Rotterdam, prenderanno a bordo un’ottantina di guardacoste di Tripoli e Misurata per spiegare che cosa si deve fare e soprattutto non fare. Ma la domanda resta la stessa: c’è una strategia politica per fermare i barconi? La risposta non cambia da anni: no. Tutto è lasciato alla capacità dei nostri militari, all’esperienza dei volontari, alla discrezionalità dei guardacoste magrebini

dal nostro inviato Francesco Battistini

TUNISI - Prima scena: una barchetta di legno, che nel buio si vede appena, occhi spaventati nel nero del Mediterraneo. L’altra notte, i volontari della Vos Hestia si sono dannati per soccorrere quel centesimo guscio scovato fra le onde al largo della Libia. Salirci, recuperare il recuperabile, navigare fino in Italia, sbarcare i corpi sommersi (cinque) e quelli salvati (duecento) dalle acque. Poi, quando non avevano ancora finito, via radio han sentito gracchiare un altro allarme: presto, c’è una seconda carretta in difficoltà, bisogna risalpare, rinavigare, risalvare, riportare… «A volte sembra di svuotare il mare col cucchiaio», si sfogano i volontari delle ong. Ma se nel cucchiaio finiscono vite e storie, benedetto chi svuota: «Cercare e salvare», dice Gillian Moyes di Save the Children, «per noi resta la priorità».

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Presi a bastonate

Seconda scena: giovedì scorso, alle 2.30 di notte, c’è un altro barcone là in mezzo. E l’ong tedesca SeaWatch, in mano giubbotti e canotti, che sta provando a tirarlo fuori dai guai. Non è facile: i migranti sono terrorizzati, ogni movimento brusco può essere una tragedia. All’improvviso, compaiono i guardacoste libici. E quel che succede — ci son poche ragioni per dubitare che sia successo, a parte le deboli smentite dei tripolini — racconta d’un caos difficilmente governabile. I tedeschi si trovano nel mezzo d’una specie di spedizione punitiva. L’equipaggio della motovedetta libica, di quelle fornite in passato dall’Europa, tanto per intenderci, arremba gli immigrati, urla loro qualcosa in arabo, prende a bastonate chi prova a salvarsi aggrappandosi, scatena il panico a bordo. E infine fa proprio l’opposto di quel che si deve: spinge i poveretti su un lato dell’imbarcazione, provocando il rovesciamento. «La gente è caduta in mare — dice Ruben Neugebauer, portavoce di SeaWatch —, molti di loro non sapevano nuotare, crediamo che una trentina siano annegati. Mai vista un’operazione di soccorso del genere. Del resto, da questa parte di mondo è sempre molto complicato sapere chi fa che cosa…».

Aiutarli ad aiutare

Molti muoiono così. Di pasticci. Di superficialità. Di paura. Chi paga per il viaggio, spera di non essere intercettato dagli egiziani o dai libici. Ma «le missioni internazionali non sono eterne», è stata una delle dichiarazioni uscite anche dal vertice europeo di Bratislava sulle migrazioni. Ed è quindi ora che le navi di pattuglia, le più esperte dell’area, insegnino il difficile mestiere dell’Sos. Da questo mercoledì mattina, entrano nel vivo gli addestramenti. I primi: due equipaggi militari di Eunavfor, la San Giorgio e l’olandese Rotterdam, prenderanno a bordo un’ottantina di guardacoste di Tripoli e di Misurata per spiegare che cosa si deve fare, e soprattutto non fare. «Il nostro obbiettivo non cambia» nonostante l’ultimo episodio, dichiara sicuro Antonello De Renzis Sonnino, il portavoce dell’operazione: sempre oggi, i ministri Nato si riuniscono per decidere chi vuole unirsi all’Italia e agli altri Paesi di “Sophia”. La tragedia dell’aereo Eunavfor precipitato a Malta, e le polemiche intorno a una missione che non convince tutti, non bastano a mutare rotta». «Non ci occuperemo di respingimenti — spiegano dal ministero della Difesa — insegneremo solo gl’interventi di salvataggio. I militari libici verranno addestrati a effettuare specifici compiti che definiamo non-combat»: tradotto, li aiuteremo ad aiutare, proprio per evitare disastri come quello di giovedì notte. Il training quotidiano, messo a punto dal quartier generale dell’ammiraglio Enrico Credendino, è diviso in tre «pacchetti»: le tecniche d’accostamento, le parole da usare coi megafoni, i metodi d’evacuazione, il pronto intervento sui feriti… La scuola di soccorso durerà diverse settimane, un po’ sul modello di quanto già sperimentato assieme alla Marina tunisina (che infatti ha imparato a far da sé: l’altroieri, ha soccorso al largo di Djerba un gruppo d’immigrati che stava affondando), e prelude alla fornitura di barche e di mezzi da consegnare al governo tripolino di Al Serraj, di fatto l’unico riconosciuto dalla comunità internazionale. «Nell’instabilità libica, con almeno tre Marine militari e decine di milizie diverse a operare, qualche rischio in effetti c’è – dice una fonte italiana sul terreno -. Non sappiamo se quel che trasmettiamo oggi possa finire, domani, nelle mani d’altri. Ma non abbiamo molte scelte. La situazione è tale da non permettere rinvii».

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L’anno dei record

Il 2016 non è ancora finito ed è già l’Annus Horribilis dei morti nel Mediterraneo Centrale: 3.100 in nemmeno dieci mesi, mai così tanti. Sfiniti, asfissiati, annegati, disidratati, bruciati, assiderati. A volte, morti che camminano: in Calabria, la scorsa settimana è sbarcata dalle navi di soccorso una madre nigeriana, dalle braccia le erano scivolati nel nero del mare i due bambini, tre e quattro anni, e non faceva che ripeterne i nomi in balìa dello choc… Con la chiusura in primavera della Balkan Route, dalla Turchia verso la Germania, il Canale di Sicilia è tornato a essere il ventre molle dell’Europa. Lo dicono i dati del Viminale e queste settimane d’ottobre, di mare calmo e di partenze affollate: in un solo mese, le navi hanno soccorso ventimila persone, e si prevede che per novembre si saranno già toccate le quote più alte degli anni scorsi.

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La strage dei bambini

Nel record, ce n’è un altro ancora peggiore: quello dei bambini soli. Gli orfani del Canale. Ventimila solo nel 2016. Qualcuno arriva morto, come una bimba di 8 anni che è stata calpestata nella calca d’un salvataggio nell’ultimo weekend. Nel 90 per cento dei casi sono piccoli che non hanno più nessuno e — altro che le barricate nel Ferrarese — cinquecento sono stati sistemati solo in questi giorni in Sicilia: l’isola ne ospita seimila, il 40 per cento di tutti quelli approdati in Italia. Secondo una denuncia dalla Caritas di Palermo, molti spariscono poi nel nulla, durante i trasferimenti da un campo all’altro: «Ogni settimana ne vediamo a centinaia — dice Sabrina Avakian, distaccata dall’Unicef nei centri accoglienza della Calabria —. Neonati, ragazzini, adolescenti che non sanno nemmeno dove sono finiti. Soli al mondo. Molti hanno subìto traumi, hanno visto annegare persone, alcuni hanno addosso le ustioni causate dal carburante dei gommoni». Occuparsene ha un costo emotivo (ed economico) molto alto: in media ci vuole almeno un anno, prima di riuscire a dare a un bambino un minimo d’assistenza adeguata.

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Come ai tempi di Gheddafi

La domanda è sempre la stessa: c’è una strategia politica per fermare i barconi? La risposta non cambia da anni: no. Tutto è lasciato alla capacità dei nostri militari, all’esperienza dei volontari, alla discrezionalità dei guardacoste magrebini. Oggi, certifica l’Onu, sono registrati 313.236 sfollati interni libici, 256.690 migranti economici dall’Africa subsahariana, 100.569 profughi di guerra siriani, iracheni, eritrei. Senza contare tutti quelli non registrati, naturalmente. In base ai famosi accordi col Rais, allora venivano fermati quasi tutti lì: a subire torture, vessazioni, ricatti d’ogni genere. Col mondo che fingeva di non vedere. A Misurata, denunciava allora l’Onu, si stipavano le persone a decine in celle minuscole e senza letti, un buco nel pavimento come cesso, e «ci sono centinaia di detenuti eritrei — si leggeva allora sul rapporto — rinchiusi da più di tre anni, senza aver commesso alcun reato, senza il diritto a una difesa legale».

Centri come lager

E ora? Idem. L’unica differenza è che si salpa. Perché il resto, i segni delle sevizie, è ogni giorno sotto gli occhi dei soccorritori: guineani, gabonesi, somali sono costretti a prigionie anche d’un anno, in posti come lo stesso campo di Misurata che offre (si fa per dire) due docce e due wc ogni 500 reclusi, qualche straccio in terra a far da materasso, un piatto di riso e acqua torbida, spesso imbevibile. Poche ore fa, in Sicilia, i medici hanno visitato poveretti con segni di bastonate e d’arma da fuoco, feriti dai trafficanti prima di partire. A Catania, s’è scoperto che le nigeriane mandate a prostituirsi devono sottoporsi perfino ai riti voodoo. «Ci sono migranti così deboli — hanno raccontato alcuni salvati ai medici di Msf – da non essere in grado d’imbarcarsi: magari hanno pagato, ma devono rinviare la partenza perché non ce la fanno più…».

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I soldi ai Paesi d’origine

Aiutarli in mare. O magari prima, evitando che arrivino alle coste. L’Interpol segnala che sui barconi, più che i terroristi, sono tornati a navigare i carichi di droga: tutta roba che sale dal deserto. Dopo gli ultimi vertici, l’Ue ha deciso d’aprire uffici alle fonti delle migrazioni: Senegal, Niger, Mali, Nigeria, Etiopia. E per assistere questi cinque Paesi, a bassissimo reddito, stanzierà meno di 500 milioni di euro: un ottavo di quanto dato (o promesso) alla ricca Turchia di Erdogan. Basta? Ovvio che no: come per le motovedette libiche, addestrate dai nostri militari perché si carichino la responsabilità dell’aiuto, così bisognerebbe fare per i governanti di quei Paesi. Cacciando gl’incapaci, investendo in qualcosa di meglio. Il Vaticano ha lanciato negli ultimi mesi una campagna contro il land grabbing in questa parte d’Africa occidentale: è la svendita delle terre dei contadini, politici corrotti che la depredano per darla alle multinazionali americane ed europee (anche italiane), stravolgendo coltivazioni secolari, trasformandole in affari più redditizi, facendo soldi facili col biocarburante. È anche per questo sfruttamento senza limiti che la povera gente se ne va da Paesi come la Guinea, ormai in saldo, e viene a morire nel mare nostro. È anche dopo questi saccheggi che liquidiamo questi migranti come «economici», considerandoli meno urgenti dei profughi di guerra. Loro fuggono e basta: non basteranno i nuovi guardiani del mare, a salvarli.

FONTE: Logo Corrieredellasera

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