Il lavoro più bello del mondo, marinaio e militare.

Una sentita dichiarazione d'amore per il proprio lavoro di Nunzio Giancarlo Bianco

Nunzio manara

Il mio modo di osservare le cose, l’ambiente che mi circonda, l’ascoltare le persone,condividere pensieri, m’ha dato la possibilità di non essere mai superficiale con nessuno, a tutto questo, mettici pure di aver fatto il lavoro più bello del mondo, marinaio e militare.
Nei commenti di qualcuno c’è chi comprende e chi no, ed è giusto così, anzi di chi dissente mi dà modo di pensare, di dirmi a me stesso se il mio scrivere è comprensibile, ma quando al dissenso v’è un collega a lui dico, che non tutta la vita è stata facile, non tutto è stato gioioso, rasenterebbe la perfezione, ma una cosa ho sempre dato il giusto peso, onore all’uniforme, mi sono sempre posto un pensiero fisso fino all’ultimo giorno di servizio, ai diritti, per conquistarli, ad essere riconosciuti, ho innanzi tutto assolto a doveri, ho sempre cercato di dare il massimo.
Il mio lavoro, l’ho sempre considerato una fortuna, nel nostro ambiente militare, rimani in una comunità che, se ti lasci apprezzare, che riconoscono la tua sincerità, che hanno sempre notato il tuo profondo impegno, eri ineccepibile per chiunque e quando, ogni anno arrivavano quelle benedette note sul servizio prestato, la parte di cui tenevo sempre conto era “ha prestato il servizio svolto, con dedizione e passione, e alto senso del dovere”, avevo capito che, avevo dato il massimo.
Ma la magia del militare più grande a mio avviso, oltre a vivere in un mondo sempre giovane è anche, e questo è capitato alla fine della carriera, io lì fra giovani, e donare la mia esperienza, aneddoti, affinché, il mio operato non rimanesse vano e qualcuno dirà, tu ti illudi, forse sarà anche così, ma questo capita anche a un padre quando trasmette la sua vita, e se un figlio ne pensa bene del genitore, lo stesso accade a un ragazzo o ragazza che vive nel nostro ambiente, siamo stati tutti ragazzi, e tutti arriviamo al capolinea lavorativo, l’importante è, lasciare un buon esempio, non importa se il tuo nome viene menzionato, è solo la tua coscienza che trova pace, perché sai che hai dato tutto.
A chi legge, spero solo che comprenda, che il mio scrivere non è altro, un modo di comunicare l’amore per la professione e il rispetto dell’uniforme indossata, è vero, rimane cucita sulla pelle, ma anche se oggi mi diletto nello scrivere, i miei pensieri, non sono altro che travasare esperienze di vita militare, e dico solo, grazie a chi ha la pazienza di comprendere il mio pensiero.

Nunzio Giancarlo Bianco

La flotta Russa dimenticata

La flotta russa dimenticata vista dal Drone

Sono tre,le caravelle russe lasciate da anni al loro destino per troppi debiti o questioni giudiziarie...
Battono bandiera maltese ma sono registrate al porto di San Pietroburgo con nomi russi impronunciabili e negli uffici della capitaneria di porto, per comodità, le hanno ribattezzate amichevolmente le tre caravelle. Ufficialmente si chiamano V-Nicolaev, Vomvgaz, Orenburg Gazprom: tre navi fluviali di fine anni Ottanta, lunghe circa 110 metri, di proprietà di una società riconducibile al colosso russo Gazprom, ferme nelle acque dal 2006 in un noto porto italiano, ridotte a relitti (una ha già una falla nello scafo). La loro non è l’unica storia di navi abbandonate nei porti italiani spesso per via di debiti dell’armatore o questioni giudiziarie. Poi il tempo passa e non solo non c’è più resa economica sufficiente per rimetterle in mare ma addirittura non sono buone nemmeno come ferro da rottamare.

Le tre caravelle arrivarono ormai undici anni fa da Sebenico con un carico di pietrame calcareo diretto al terminal del porto italiano.. Vennero fermate per una questione di sicurezza: mancava un’abilitazione. Non si sono più mosse perché nel tempo si sono accumulati debiti e sequestri conservativi fino al punto da non essere più appetibili per l’armatore. Per un periodo sono state ormeggiate in darsena di città e dal 2009 sono a ridosso della scarpata della cassa di colmata... Sono in stallo,in un limbo.
Il codice della navigazione consente l’intervento dell’autorità per ragioni di sicurezza se c’è intralcio alla navigazione o rischi ambientali: il punto di ormeggio è fuori da ogni transito e prima di essere sistemate lì erano state bonificate. Ormai non sono più appetibili nemmeno da rottamare: i costi delle operazioni sarebbero più alti di quanto ricavabile vendendo il ferro per la fusione...

Info dal web...
Le immagini dal drone sono del nostro Amico Massimiliano M. e le potete trovare anche sulla pagina amica :
https://www.facebook.com/Urbexintruders/

FONTE: https://www.facebook.com/misteridellaterra.it/

 

La Spiaggia Rosa, parte della mia tesi di Laurea.- Luca Bittau

Vorrei raccontare una storia che è parte della mia vita, prima che questa venisse "sopraffatta" dai delfini.

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Nel 2008, 12 anni fa, mi laureai con una tesi di sedimentologia marina, con uno studio sulle spiagge di Cala di Roto (la famosa Spiaggia Rosa), la Spiaggia del Cavalieri e la Spiaggia di Cala Santa Maria, tutte nell'Arcipelago di La Maddalena.
Allora si sapeva ben poco sull'origine del colore rosa di questa spiaggia, simbolo del nostro Parco Nazionale e con Vincenzo, Il Prof. Pascucci per tutti coloro che non sono studenti di Scienze Naturali di Sassari, e con il mio amico Stefano, suo assistente, facemmo non poca fatica a ricostruire le dinamiche che creano questo meraviglioso angolo di paradiso, che l’hanno resa famosa e che la portarono anche a essere immortalata nel film di Michelangelo Antonioni “Il Deserto Rosso”, con attrice protagonista Monica Vitti.
Studiai anche la Miniacina miniacea (il microrganismo responsabile del colore rosa) e trovammo che la percentuale di scheletri di microrganismi (bianchi e rosa) era altissima, fino al 80-90%, paragonabile a quella delle spiagge coralline tropicali (dove però il carbonato di calcio deriva soprattutto da frammenti di coralli), con alcuni campioni ricchi di sedimento rosa paragonabili ad altri che avemmo la fortuna di analizzare grazie al contributo del Parco Nazionale, e che erano stati rubati negli anni 70’ e restituiti. Gli effetti della chiusura si potevano misurare già allora: a poco più di 10 anni dal provvedimento la spiaggia stava riacquistando il suo carattere distintivo.
Mauro, l’allora custode dell’isola, ci aiutò instancabilmente a capire parte dei fenomeni di erosione e deposizione che creano questo miracolo che attira così tante persone nel nostro arcipelago. Nelle foto, alcuni momenti di quel bellissimo e faticoso periodo, durato 4 anni, fatto di immersioni, campionamenti ma anche di tantissime ore passate in laboratorio a lavare, essiccare, setacciare e pesare campioni, spesso col naso sanguinante per aver respirato sabbia. Risparmio i grafici e le statistiche, quelle le lasciamo all'Università :)
C’è anche la testimonianza di come tanti anni di chiusura abbiano fatto bene a questa spiaggia, riportandola ad una condizione di equilibrio e con una deposizione di sedimento rosa che è chiaramente visibile. Chi conosce bene le spiagge, chi parla senza condizionamenti, sa che esse non sono mai uguali, che “respirano”, che cambiano continuamente e che possono scomparire e ricomparire miracolosamente.
Chi le studia sa anche che non è da un singolo episodio che si capisce il loro stato di salute, che gli studi durano anche anni, e che però le spiagge portano i segni della sofferenza ben visibili, per chi li sa leggere. Tra le innumerevoli spiagge che abbiamo in Sardegna, che abbiamo nell'arcipelago di La Maddalena, bellissime e fragili, io credo ancora che questa spiaggia debba rimanere chiusa, ad accesso limitato, magari con una fruizione controllata e rigorosa, da “osservatori discreti”.
Questo posto, che dir si voglia, ormai rappresenta un simbolo, un laboratorio a cielo aperto, un’occasione unica per far sensibilizzazione, per educare al rispetto della natura, perché è un monito, e purtroppo noi uomini abbiamo bisogno di queste cose per ricordarci del danno che possiamo fare e che abbiamo fatto in passato.

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A chi dice che la Spiaggia Rosa non è più rosa... auguro di poterla visitare da vicino (in maniera rispettosa!) per constatare che il "rosa" è ancora là, perché continua ad arrivare dal mare il sedimento rosa. E consiglio di portare gli occhiali da sole, per apprezzare meglio quello che vedranno, perché il riverbero della parte bianca della sabbia è talmente forte da attenuare l'effetto cromatico

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Il sedimento rosa tende a depositarsi "fresco" sul bagnasciuga, ma le onde lo portano poi a depositarsi sulla spiaggia emersa, dove, per effetto dei raggi ultravioletti si "scolora" (non è un processo veloce, comunque). Ecco che allora ne arriva dell'altro, in un continuo rinnovarsi che incanta chi riesce a coglierne la dinamica.

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E a volte appare anche così! Di un rosa intenso, da non credersi, quasi inverosimile. E chi dice che la foto è ritoccata, non conosce la Spiaggia Rosa, e non crederebbe nemmeno a come quel posto diventa al tramonto, quando tutto, davvero tutto, diventa rosso e rosa.

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Non ricordo nemmeno quante immersioni feci, ma fu sorprendente constatare quanto vecchia fosse la prateria di Posidonia di fronte a quella spiaggia. E' quella la vera sorgente della sabbia e l'habitat di quei microrganismi che le danno il colore rosa.

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Il Side Scan Sonar, lo strumento che usammo per ricostruire le immagini della conformazione del fondale della cala e osservare alcune forme di erosione della prateria di posidonia.

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Non era semplice navigare su un gommone con uno strumento costosissimo al traino e un computer legato alla plancia che potrebbe bruciarsi per un po' di gocce d'acqua salata...

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Una delle innumerevoli misurazioni effettuate in tutte le spiagge studiate (ovviamente con tutti i permessi per la ricerca!!

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La batteria di setacci usata in laboratorio all'Università per separare le varie parti di un campione, tutte con uguale granulometria (diametro dei grani di sabbia). Il problema che saltò fuori era di farlo senza rompere questi granuli, che nel caso della spiaggia rosa erano anche fragili! 

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Una delle immersioni che servivano per campionare la spiaggia sommersa, che costituisce la superfice maggiore di una spiaggia, anche in termini di volumi di sabbia.

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Fu incredibile osservare anche a occhio nudo cone il ridotto impatto dell'uomo creasse microhabitat in buone condizioni, sia nell'ambiente somerso che sulla linea di costa.

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La tecnica che allora mettemmo a punto viene usata ancora oggi (il Prof. la chiama "metodo "Bittau", ma io preferirei evitare) e consente, con pochi soldi, di avere precisi campioni di sabbia dai fondali che si devono studiare.

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La Miniacina miniacea, il foraminifero che cresce su substrati organici e che, una volta distaccato, va a formare la frazione rosa della sabbia della Spiaggia Rosa. Oggi è conosciuta anche dai bambini delle scuole elementari, ma allora completamente sconosciuta ai più, se non per averne già parlato nel libro che uscì qualche anno prima, e che scrissi con Marco Leoni e Fabio Presutti.

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Un campione di sabbia osservato al microscopio, non a forte ingrandimento. Si osservano frammenti di briozoi, echinodermi, molluschi, foraminiferi e, naturalmente, di Miniacina miniacea.

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Alcuni campioni di Miniacina miniacea, osservati al microscopio elettronico. Da questa immagine si capisce perché si chiamino foraminiferi, "portatori di fori, cavità".

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Questi gusci calcarei sono il segreto della Spiaggia Rosa, gusci di tante specie di microrganismi marini che, rompendosi in minuscoli frammenti, costituiranno la parte bianca della sabbia. E non solo: costituiscono gran parte dei fondali che ci deliziano con i loro colori,dallo smeraldo al blu. Tutti questi microrganismi vivono sotto e tra le foglie di Posidonia ocanica. E' lei la ragione dell'esistenza di questa e di tante altre sabbie candide nel Mediterraneo e dei colori che rendono così belli i fondali sabbiosi dei nostri mari.

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Il campione di sabbia rosa "rubato" negli anni 70' e che ho avuto la fortuna di poter studiare, grazie alla concessione del Parco Nazionale dell'Arcipelago di La Maddalena, per comparare quanto fosse cambiata la percentuale di sedimento rosa in 30 anni.

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La cosa incredibile di quel posto è che tutto ricorda il colore rosa: perfino i "ripples", le piccole formazioni sommerse sul fondale, sono rosa! con quei depositi di Miniacina che si accumulano tra le piccole creste..

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Ed ecco come le lamine di sedimento rosa vengono "catturate" dagli strati di sabbia, così come qualsiasi altro sedimento

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Tra le tante cose, ho anche effettuato alcuni voli con un piccolo aeroplano (il mitico Jabiru!) per poter fotografare la spiaggia dall'alto. Ebbene si: allora non esistevano ancora i droni! — con Gianluca Mosino

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Non nascondo che vederla da lassù toglieva ancor di più il fiato.

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Ecco come si presentava, e si presenta anche oggi quel tratto di costa dell'Isola di Budelli: centinaia di barche da un lato (mi pare che in questa foto se ne contino più di 300) con le relative ancore, e subito oltre quel piccolo promontorio... nessuna! il silenzio. Forse quel silenzio faceva e fa meraviglia ancora oggi, per chiunque visiti quel posto meraviglioso.

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Ed ecco com'era la Spiaggia Rosa negli anni 80' (credo), quando migliaia di persone potevano scenderci, e quando molti potevano portare via un po' di sabbia come ricordo. Mi dissero che quel "souvenir" gli venisse anche suggerito. Io non l'ho mai vista così, nè la vorrei mai vedere così. (Non so di chi sia questa foto, mi scuso e spero si faccia vivo l'autore).

Questo articolo è stato estratto da un post di Mauro Morandi custode di Budelli, che a sua volta ha condiviso quello dell'autore Luca Bittau.

A loro va il mio particolare ringraziamento.

Plastica Addio! Dal Veneto arriva la pellicola per cibi 100% naturale fatta dalle api

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Un’ idea ecologica ed innovativa quelle che arriva da Castelfranco Veneto dove si pensa a soluzioni alternative per liberarsi una volta per tutte dalla plastica

sostituendola con un materiale ecologico 100% naturale, composto da fibra di cotone olio di jojoba e ingrediente speciale, la cera d’api, che a differenza della pellicola trasparente di plastica, non inquina e può essere riutilizzato 100 volte per singolo foglio.

Apepak è fatto di cotone biologico certificato Global Organic Textile Standard, o riciclato dagli avanzi dei laboratori tessili italiani. La cera d’api, la resina di pino e l’olio di jojoba sono forniti da apicoltori e aziende italiane, con quindi una grandissima cura per i dettagli e le materie prime

Questo super materiale di chiama Apepak e l’idea e la realizzazione vengono dalla cooperativa sociale Sonda, che sta facendo parlare molto di sè grazie ai social,

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e Apepak si presenta come un panno di cotone, che lavorato con cera d’api e olio di jojoba diventa modellabile e resistente ad unto e perdite, così da poter essere utilizzato per ricoprire gli alimenti, Il vantaggio è quello di non usare la plastica, di avere un prodotto riutilizzabile e che alla fine del suo ciclo di vita non inquina

è traspirante e permette quindi che il contenuto avvolto respiri, perfetto quindi per i prodotti come pane e prodotti di panificazione per evitare che l’umidità li renda molli. Perfetto anche per frutta e formaggi, per mantenerli freschi ed in buone condizioni a lungo,

Apepak sostituisce gli involucri usa e getta di carta, plastica e alluminio, così da:
Risparmiare 9 kmq di involucri di plastica all’anno
Remunerare 30 minuti di lavoro di un socio svantaggiato di Sonda Società Cooperativa Sociale Onlus
Remunerare 3 giorni di lavoro di api da miele italiane
Sostenere l’agricoltura di cotone biologico e dare una nuova vita agli avanzi dei laboratori tessili italiani.

La cooperativa ha un laboratorio a San Vito di Altovole, e li sta già producendo e sperimentando questa nuova pellicola, anche grazie all’aiuto di un gruppo di volontari che la sta testando per capire come migliorare il prodotto per renderlo unico nel suo genere,

Francesca Amato, vicepresidente della cooperativa racconta a TribunaTreviso:

“L’idea ci è arrivata da un nostro amico negli Usa che ha registrato il marchio Apepak. Per noi però ha anche un’altra valenza: quella che questa produzione si trasformi in posti di lavoro per persone svantaggiate, Ci sono già alcuni prodotti similari ma stiamo cercando di avere un prodotto più ecologico possibile.”

l’idea della cooperativa non è solo quella di creare un prodotto completamente ecologico e buono per l’ambiente, ma anche quella di inserire e dare lavoro a persone in difficoltà

Ecco cosa si legge sul sito internet di ApePak:

L’ALTERNATIVA NATURALE AGLI INVOLUCRI DI PLASTICA
Dopo una vita di sogni e un anno di sviluppo, eccovi la nostra idea:
Apepak sostituisce gli involucri usa e getta, ​È durevole, multiuso, malleabile, antisettico, sigillante, biodegradabile…

Apepak è perfetto per portare un panino a scuola, la frutta in ufficio, far lievitare un impasto
o sigillare il piatto degli avanzi. E tu, come lo userai?

Bella idea, italiana, per tutti gli appassionati di sostenibilità e per chi vuole ridurre i consumi di plastica monouso!

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Ecco il sito internet di ApePak

FONTE: Logo positizie

"Ravenna sommersa dal mare entro il 2100": l'allarme dell'Enea“

E' quanto emerge dalle proiezioni dell'Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile) diffuse nel corso di un convegno dedicato al Mediterraneo e all'economia del mare“
Ravenna rischio1

"Il fenomeno dell'innalzamento del mare, che al 2100 metterebbe a rischio oltre 5.600 kmq del nostro Paese, riguarda praticamente tutte le regioni italiane bagnate dal mare, per un totale di 40 aree costiere, tra le quali anche Ravenna". E' quanto emerge dalle proiezioni dell'Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile) diffuse nel corso di un convegno dedicato al Mediterraneo e all'economia del mare insieme con Confcommercio per la firma di un protocollo d'intesa sullo sviluppo sostenibile.

In particolare - i dati disponibili si riferiscono 15 aree su un totale di 40 identificate - la questione riguarderebbe una vasta area nord adriatica tra Trieste, Venezia e Ravenna; ma anche l'area di Cagliari, Oristano, Fertilia, Orosei, Colostrai (Muravera) e di Nodigheddu, Pilo, Platamona e Valledoria (Sassari), di Porto Pollo e di Lido del Sole (Olbia) in Sardegna; la foce del Pescara, del Sangro e del Tronto in Abruzzo; l'area di Lesina (Foggia) e di Taranto in Puglia; La Spezia in Liguria, tratti della Versilia, Cecina, Follonica, Piombino, Marina di Campo sull'Isola d'Elba e le aree di Grosseto e di Albinia in Toscana; la piana Pontina, di Fondi e la foce del Tevere nel Lazio; la piana del Volturno e del Sele in Campania; Metaponto in Basilicata; Granelli (Siracusa), Noto (Siracusa), Pantano Logarini (Ragusa) e le aree di Trapani e Marsala in Sicilia; Gioia Tauro (Reggio Calabria) e Santa Eufemia (Catanzaro) in Calabria.

"Il livello del mar Mediterraneo si sta innalzando velocemente a causa del riscaldamento globale. Entro il 2100 migliaia di chilometri quadrati", oltre 5.600 km quadrati e più di 385 km di costa, "di aree costiere italiane rischiano di essere sommerse dal mare, in assenza di interventi di mitigazione e adattamento". Secondo l'Enea "entro la fine del secolo l'innalzamento del mare lungo le coste italiane è stimato tra 0,94 e 1,035 metri", prendendo in considerazione un modello cautelativo, e "tra 1,31 metri e 1,45 metri", seguendo una base meno prudenziale. A questi valori - spiega l'Enea - "bisogna aggiungere il cosiddetto 'storm surge', ossia la coesistenza di bassa pressione, onde e vento, variabile da zona a zona, che in particolari condizioni determina un aumento del livello del mare rispetto al litorale di circa 1 metro". Sommando la superficie delle 15 zone costiere già mappate - in tutto si arriverà a 40 più a rischio - "si arriva a un'estensione totale a rischio inondazione di 5.686,4 kmq", una superficie "pari a una regione come la Liguria".“


FONTE: Logo Ravennatoday

150 balene avvistate nell’Oceano Antartico mentre si nutrono assieme: il video meraviglioso

Durante una spedizione in Antartide gli scienziati hanno avvistato enormi gruppi di balene mentre si nutrivano assieme. Perché è una splendida notizia.

 A cura di Andrea Centini

La balenottera comune australe (Balaenoptera physalus quoyi), una sottospecie che vive nell'emisfero sud del pianeta, è tornata a riappropriarsi dell'habitat antartico da cui era stata “strappata” durante l'epoca della baleneria. Nel cuore di una spedizione scientifica condotta lungo le coste della penisola antartica nel 2018, infatti, sono stati avvistati ben 100 gruppi di balenottere comuni. La maggior parte di essi era composto da pochi esemplari, massimo quattro, ma in un'area gli scienziati hanno incontrato due enormi aggregazioni di cetacei, nelle quali c'erano 50 e 70 esemplari. L'anno successivo, durante un'altra spedizione, gli scienziati hanno avvistato ben 150 balenottere in un unico “gruppone”. Uno spettacolo straordinario e commovente, considerando che questi maestosi giganti del mare erano stati portati sull'orlo dell'estinzione. Ancora oggi la balenottera comune è classificata come vulnerabile (VU) nella Lista Rossa dell'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN); questi avvistamenti non fanno che ben sperare per il futuro di questa meravigliosa specie (e della sua sottospecie australe).

Balena

Una balenottera comune. Credit: Andrea Centini

A studiare e descrivere l'incontro con i grandi gruppi di cetacei è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati tedeschi dell'Alfred Wegener Institute Helmholtz Centre for Polar and Marine Research, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Institute of Marine Ecosystem and Fishery Science dell'Università di Amburgo e della Natural History Unit della BBC, la cui troupe ha ripreso gli animali con l'ausilio dei droni e da un'elicottero. Gli scienziati, coordinati dalla professoressa Bettina Meyer, docente presso l'Università di Oldenburg, hanno scoperto questi gruppi di balene per caso; tra marzo e maggio del 2018, infatti, si erano diretti verso la penisola antartica – con l'ausilio del rompighiaccio da ricerca Polarstern – con l'obiettivo principale di studiare il krill, i crostacei di cui si nutrono i giganti del mare. La troupe della BBC ha partecipato alla spedizione anche con un elicottero, con il quale sono stati condotti 22 voli e coperti oltre 3.200 chilometri.

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Come indicato, durante le osservazioni aree e dalla nave sono stati scoperti circa cento piccoli gruppi di balene, ma due di essi erano enormi. Sia il primo che il secondo, composti rispettivamente da 50 e 70 balenottere comuni australi, sono stati identificati nei pressi di Elephant Island, nel Mare di Weddell al largo della Penisola Antartica. “Non avevo mai visto così tante balene in un posto prima ed ero assolutamente affascinato dall'osservare questi enormi gruppi nutrirsi”, ha dichiarato la professoressa Meyer, genuinamente entusiasta per l'incontro.

FONTE:Logo fanpage

 

Abruzzo, a 92 anni ogni giorno guida 60 km per guardare il mare

Ogni giorno Pasquale Di Marco percorre 30 km all'andata e al ritorno per osservare il mare di Giulianova dopo una vita intera trascorsa in miniera.

Una delle località balneari più frequentate d’Abruzzo è la meta preferita di Pasquale Di Marco, 92enne ex minatore che ogni giorno guida per 60 km solo per vedere il mare di Giulianova. La storia dell’anziano signore ha colpito “Radio G Giulianova”che ha deciso di intervistarlo dopo le tante segnalazioni ricevute dalle persone che avevano notato la sua presenza sulla spiaggia. I residenti di Giulianova, piccola cittadina abruzzese sul mare, sono rimasti affascinati da quella presenza e così in tanti lo hanno fotografato in riva al mare. Il giornalista Francesco Marcozzi si è chiesto quale fosse il motivo e si è fatto raccontare tutta la storia. Pasquale Di Marco ha vissuto per buona parte della sua vita in Belgio a lavorare nelle miniere di carbone a 900 metri di profondità.

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Ora a 92 anni ha bisogno ogni giorno di vedere il mare. Guida per 30 km fino a Giulianova, scende in spiaggia con la sua piccola sedia e arriva fino al bagnasciuga. Si siede e guarda il mare, per due o tre ore. «Ringrazio Dio, che mi dà il questo potere di venire qua. E che mi tiene ancora la mente lucida», queste le sue parole. L’uomo arriva da Poggio San Vittorino, un paesino in provincia di Teramo, ma la voglia di vedere il mare è più forte di tutto e così ogni giorno percorre 30 km all’andata e 30 al ritorno per osservare le onde del mare. Cappello d’ordinanza in testa, sedia che non manca mai e i suoi occhi ad ammirare l’immensità.

Un’immagine romantica e inusuale ai giorni nostri, proprio per questo tantissime persone hanno apprezzato la storia di Pasquale che è stata resa ulteriormente virale da una pagina Facebook (Abruzzese fuori sede) che raccoglie le migliaia e migliaia di persone emigrati e nostalgici della propria terra. L’intervista a Pasquale si è poi conclusa con qualche segreto per tenersi in forma. Lui, lucido e sempre disponibile, ha dichiarato di non aver mai fumato in vita sua e di non bere, ma sul mangiare è drastico: “Mangio tutto”. A lui basta il mare e quella spiaggia dalla sabbia bianca che affascina tanti turisti in estate. Ampia e protetta da palme, sembra di stare in qualche località esotica.

anziano giulianova

FONTE:Logo Siviaggia

Affondando nel blu, i misteri dei canyon sottomarini e dei vortici oceanici profondi

Un altro interessantissimo articolo dal sito Ocean4future

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Cosa sappiamo dei fondali abissali?
Per assurdo gli abissi del mare sono ancora un mistero per l’Uomo, sia dal punto di vista biologico che oceanografico. La nostra conoscenza sembra ridursi in funzione della profondità, dove la luce non penetra e tutto scompare. E’ solo grazie alla ricerca oceanografica che molti dei suoi misteri sono stati rivelati. Nelle profondità degli oceani, l’orografia in alcuni casi sembra ricalcare quella di superficie con montagne, altopiani e spaccature di dimensioni equivalenti se non maggiori del Grand canyon statunitense. Profonde fenditure che raggiungono le piane abissali, spesso estendendosi dalla costa fino al profondo bordo del mare della piattaforma.

Genesi dei canyon profondi 
Ci sono molte teorie sulla loro origine che non si escludono l’una dall’altra. Gli scienziati ritengono che i canyon si siano formati in Ere lontane a seguito di violenti fenomeni geologici e atmosferici che formarono queste gigantesche fenditure della Terra, modificando profondamente i contorni dei fondali.

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Queste spaccature, originatesi milioni di anni orsono,
si spingono verso il largo, sprofondando negli abissi,
antiche testimonianze di quando i mari erano molto più bassi

Alcuni si formarono durante le glaciazioni, altri a causa del trasporto dei sedimenti generati da frane sottomarine di enormi masse di roccia. Nella loro genesi concorsero gli effetti dell’idrodinamismo (in particolare a seguito di violente tempeste) ed i movimenti orizzontali e verticali causati da eventi sismici provocati dalla frizione delle falde.  

canyon sottomarini

Profonde ferite della Terra
La ricerca oceanografica moderna ha individuato molti di questi antichi canyon che ancor oggi nascondono molti segreti. Anticamente i livelli dei mari erano più bassi a causa delle glaciazioni che occupavano gran parte del pianeta. Questi canyon erano in superficie ed ospitavano fiumi turbolenti che scavavano le pareti rocciose (come il fiume Colorado nel Grand canyon), trasportando sedimenti e detriti verso i proto mari. Con l’innalzarsi delle temperature, i ghiacci si sciolsero ed il livello dei mari si sollevò, sommergendo queste imponenti strutture geologiche. 

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Il canyon sottomarino più grande e profondo mai scoperto è stato scoperto nel Mare di Bering ed è stato chiamato Zhemchug Canyon. Le sue dimensioni sono straordinarie; per dare un’idea è più profondo del Grand Canyon1 ed ha un rilievo verticale che scende dalla piattaforma poco profonda del Mare di Bering fino alle profondità abissali del Bacino aleutiano fino ad una profondità di 2600 metri, estendendosi su un’area di 11.350 chilometri quadrati. Il canyon di Zhemchug si divide in due rami principali, ciascuno più grande di uno dei canyon marini continentali più famosi, il Monterey Canyon.

In quelle fredde e profonde acque ricche di ossigeno, flussi di correnti trasportano nutrienti planctonici che risalgono dalle profondità del canyon verso la superficie, fornendo sostentamento a numerose forme di vita. 

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Un granchio reale d’oro (Aequispinus lithodes)
su una spugna raccolti durante le ricerche nel
Zhemchug Canyon nel mare di Bering

Oltre agli aspetti geologici, il canyon di Zhemchug è quindi un habitat importante per molte specie della fauna marina oceanica. Ad esempio, mammiferi marini come le foche nordiche, i delfini e molte specie di balene vivono in quelle acque. Sulle pareti rocciose si ritrovano invertebrati, coralli e spugne. Tra di essi anche dei curiosi granchi che sono stati raccolti perla prima volta dai ricercatori della nave oceanografica M/V Esperanza che, da molti anni, studia le caratteristiche geologiche e biologiche del canyon. Nel 2016, l’oceanografa Michelle Ridgeway esplorò il canyon in una spedizione sponsorizzata da Greenpeace, raggiungendo la profondità di 536 metri sotto la superficie, scoprendo un habitat biologico straordinario.

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Un altro interessante canyon marino è il Canyon di Perth, situato al largo della costa dell’Australia occidentale. Secondo gli scienziati dell’Ocean Institute della University of Western Australia, che hanno condotto tra i primi l’esplorazione di questo canyon sottomarino, hanno scoperto che si estende dalla piattaforma continentale per oltre quattro chilometri sul fondo oceanico. Utilizzando sistemi di mappatura all’avanguardia ed il ROV della nave da ricerca Falkor, gli oceanografi lo hanno seguito fino ad una profondità di oltre 2000 metri, mappandone dettagliatamente 154 miglia quadrate.

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Batimetria del grande canyon di Perth, Australia

Anche in questo caso, il canyon sommerso si è dimostrato un hot spot straordinario per la vita marina, attirando molti mammiferi marini grazie alla sua ricchezza ittica. Durante l’esplorazione i ricercatori hanno incontrato innumerevoli organismi tra cui anemoni venere ed un meraviglioso corallo dorato.

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La vita sul fondo del canyon Zhemchug 

Inoltre, lungo le sue pareti, sono state catalogate numerose creature abissali tra cui stelle e coralli molli a fungo. L’esplorazione ha impiegato sistemi allo stato dell’arte, che hanno permesso di raccogliere informazioni su queste strutture geologiche ma anche di ritrovare sul fondo un glider (un veicolo autonomo subacqueo impiegato per le ricerche oceanografiche) che era scomparso due anni prima.

Probabilmente, il canyon di Perth si formò più di cento milioni di anni fa, quando un antico fiume lo generò nella regione emersa che separava l’Australia occidentale dall’India. Una zona geologica particolare in cui la crosta terrestre e la litosfera si trovano in condizioni tettoniche distensive. Sotto l’azione delle forze generate dai movimenti convettivi del mantello terrestre sottostante, la crosta e la litosfera vennero separate, creando così questa profonda spaccatura.

Lo studio di queste enormi spaccature oceaniche fornisce la possibilità di conoscere habitat straordinari dal punto di vista geologico e biologico ma anche di comprendere meglio i fenomeni profondi delle masse d’acqua.

Attraverso l’analisi dei dati satellitari sono stati scoperti fenomeni oceanografici di grande importanza in prossimità dei canyon. Ad esempio, nelle vicinanze del canyon di Perth, nel giugno del 2006, è stato osservato dallo spazio un misterioso vortice profondo di 200 chilometri di diametro posto a mille metri di profondità che potrebbe influenzare gli equilibri che regolano il clima del pianeta.

I vortici profondi
Come ricorderete, gli oceani assolvono una funzione fondamentale sul cambiamento climatico perché contribuiscono ad assorbire le emissioni di anidride carbonica in maniera significativa. Un’azione importante per la nostra sopravvivenza che, solo negli oceani meridionali, trattiene il 40% della CO2. Alcuni scienziati ritengono che queste strutture geologiche possano in qualche modo modificare la circolazione dei volumi d’acqua al punto di creare vortici profondi abissali che faciliterebbero il trasferimento dell’anidride carbonica nelle profondità dell’Oceano, influenzando di conseguenza il clima del pianeta. 

ciclo co2 oceani

La natura dei grandi vortici profondi oceanici non è conosciuta ma si ritiene che siano generati dalle interazioni delle correnti e dei venti con le strutture sottostanti. Il primo vortice abissale fu scoperto da un satellite e venne descritto dagli scienziati come una “trappola marina mortale“, in quanto capace di risucchiare molte specie viventi, comprese le larve di pesce pelagiche che sono un importante nutrimento per le forme maggiori di vita marina. Quale sia il suo ruolo negli scambi chimico fisici delle masse d’acqua è però un mistero ancora tutto da scoprire.

Vortici oceanici simili ai buchi neri

Il vortice abissale dallo spazio

In uno studio pubblicato sul Journal of Fluid Mechanics, un team di scienziati ha analizzato i dati rilevati dalle immagini satellitari ed ha presentato un interesse modello matematico che li assimila ai buchi neri nelle profondità dello spazio. Gli scienziati ritengono che i canyon sottomarini potrebbero facilitare la formazione di questi vortici, facendo convergere le forze che li generano. Una tesi interessante che richiederà ulteriori studi nelle profondità degli abissi per capirne i segreti.

1 il Grand canyon ha un’altezza rispetto alla sua base di 1857 metri

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FONTE:logo ocean4future

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Affondata la nave con a bordo Porsches, Bentleys, Audi, Volkswagen e Lamborghini

Dopo l’incendio subito la car carrier Felicity Ace si è inabissata nei pressi delle isole Azorre con a brodo il suo carico prezioso del valore di circa 400 milioni di dollari

Felicity Ace

Da quanto si apprende da fonti di stampa internazionale la nave cargo con bandiera panamense Felicity Ace della giapponese Mol – Mitsui Osk Line, con a bordo 4.000 auto Wolkswagen,dopo aver preso fuoco il 16 febbraio scorso per un incendio divampato nella stiva, è affondata ieri mattina 1 marzo, vicino alle isole Azzorre, dopo due settimane di tentativi di salvataggio delle squadre locali e di due grandi rimorchiatori arrivati da Gibilterra.

La nave, partita da Emden, in Germania, era diretta al porto di Davisville, nel Rhode Island a nord est degli Stati Uniti, ed è affondata – a quanto sembra – mentre le squadre di salvataggio marittimo stavano lavorando per rimorchiarla; i dettagli a disposizione sono scarsi ma dai rapporti si evince che le condizioni meteorologiche nell’area si erano deteriorate, rendendo il rimorchio più difficile. I 22 membri del suo equipaggio sono subito stati mesi in salvo dalla Marina militare e dalla squadre aeree dell’autorità portoghese. Un portavoce di Mol Ship. Management Singapore ha riferito a Bloomberg di essere rimasto sorpreso dalle informazioni ricevute della squadra di salvataggio quando la nave è affondata. Fino a venerdì scorso Mol e funzionari portoghesi avevano infatti affermato che la stabilità era soddisfacente. Mol ha inoltre riferito che la nave è affondata a circa 220 miglia nautiche al largo delle Azzorre; secondo la Marina portoghese la nave si trovava a circa 25 miglia al di fuori del limite della zona economica esclusiva dello Stato. La profondità dell’area segnalata è di circa 3.000 metri.

Nell’area sono stati segnalati alcuni materiali e una piccola macchia d’olio e sono attualmente in corso i monitoraggi da parte di alcune agenzie specializzate e dell’aviazione portoghese. Una delle navi di salvataggio è stata inviata a Ponta Delgada per caricare ulteriori attrezzature antinquinamento. Contestualmente è stata rimandata sul posto anche la nave della Marina Militare NRP Setubal, che aveva lasciato la zona per rifornirsi a Ponta Delgada. MOL riferisce inoltre che le navi di salvataggio rimangono nell’area per monitorare la situazione.

La notizia della perdita delle navi è arrivata dopo che il Gruppo Volkswagen aveva confermato agli acquirenti di auto alcuni dettagli sull’entità del danno e sui modelli coinvolti. La società stima che a bordo fossero presenti auto per un valore di 400 milioni di dollari, tra cui 1.100 Porsche e 189 Bentleye un numero imprecisato di auto Audi, Volkswagen e Lamborghini. Volkswagen ha confermato agli acquirenti che i suoi SUV elettrici ID.4 erano tra le auto perse informandoli che avrebbe rivisto i suoi piani di produzione per dare la priorità alle sostituzioni e che nel contempo ha ricevuto i nuovi veicoli del modello andato perduto, che hanno aggiornamenti qualitativi superiori alle precedenti disperse nell’incendio.
 

Alla Stazione Marittima la settimana del mare: si parte lunedì

Stazioneesterno

Il mare è vita. Il mare è cultura. Il mare è bellezza. Il mare è festa.  Salerno è il mare e la casa del mare a Salerno è la Stazione Marittima, pronta ad accogliere una serie di eventi tra i tanti organizzati nell’ambito del XX raduno nazionale dell’ANMI, Associazione Nazionale Marinai d’Italia, che si terrà a Salerno dal 23 al 29 settembre. Nell’elegante conchiglia disegnata dall’archistar Zaha Hadid gestita dalla società Salerno Stazione Marittima SpA (presidente Antonio Brigantino, amministratore delegato Orazio De Nigris), saranno ospitati convegni, conferenze, mostre, presentazioni di volumi. Un palcoscenico prestigioso con una serie di interventi di rilievo nazionale. Sarà una settimana da vivere intensamente.

Ecco il calendario degli appuntamenti

Martedì 24 alle ore 18.30: convegno Stella Maris sul “Welfare marittimo”: relatori Antonia Autuori, presidente dell’associazione Stella Maris, da anni impegnata nella promozione dell’Apostolato del mare all’interno del porto di Salerno e sul territorio diocesano, monsignor Claudio Raimondo, priore della parrocchia di Santa Trofimena della Santissima Annunziata a Salerno, e il professore Domenico Della Porta, direttore del reparto Prevenzione dell’Asl Salerno.

Mercoledì 25 settembre alle ore 10.30: conferenza sulle “Nuove tecnologie navali” con il patrocinio dell’Ordine Nazionale degli ingegneri, dell’Ordine Nazionale degli avvocati e dell’Imat, Italian Maritime Academy Technologies, società specializzata nella formazione per marittimi. Moderata dall’ingegnere Attilio Tolomeo, prenderanno parte alla conferenza il Comandante di Fregata Marco Sciarretta dell’Ufficio Storico Marina Militare, l’ingegnere Alberto Maroso, presidente di Atena (Associazione italiana tecnica navale), Antonio Errigo, vice-presidente di Alis, associazione che riunisce imprese leader nel settore del trasporto intermodale e della logistica, il dottor Fabrizio Monticelli, amministratore delegato di Imat, il dottor Luca Sisto, direttore generale di Confitarma, confederazione italiana armatori.

Mercoledì 25 (ore 17): taglio del nastro per la mostra “Marina Militare”. Nell’hangar della Stazione Marittima, oltre all’installazione di un info desk, ci sarà un’esposizione di modellini storici navali, un simulatore della plancia della nave Bergamini e un simulatore di barca a vela.

Giovedì 26 (ore 16.30): conferenza su “Geopolitica e potere marittimo”, moderata dal dottor Maurizio De Cesare, direttore di Porto&Interporto. Dopo i saluti del Propeller Club, del Rotary, del Club Atlantico Napoli, prenderanno la parola il direttore di Limes, Lucio Caracciolo, il presidente dell’Autorità di Sistema Mediterraneo Centrale, il professore Pietro Spirito, il direttore di Rivista Marittima, il Comandante di Vascello Daniele Sapienza, il direttore generale di Confitarma, Luca Sisto e il professore Alessandro Mazzetti, storico geopolitico.

Venerdì 27 (ore 18.30): presentazione del libro “Il porto di Salerno”, una storia lunga dieci secoli. Alla serata, moderata dal giornalista Giovanni Grande, parteciperanno l’autore, l’avvocato Alfonso Mignone, l’editore Vincenzo D’Amico e il professore Pietro Spirito, presidente dell’Autorità di Sistema Mediterraneo Centrale.

Sabato 28 (ore 15.30): presentazione del volume “Nave Vespucci”, un vero e proprio diario di bordo edito da Mursia, scritto dalla giornalista di Rtl Eleonora Lorusso che sarà presente alla serata in compagnia dell’ammiraglio Paolo Pagnottella, presidente nazionale ANMI, Associazione Nazionale Marinai d’Italia.

FONTE: logo Anteprima24

Arriva la carica dei parchi eolici offshore: cinque nuovi progetti tra Sardegna e Puglia

Nuove richieste di rilascio di concessioni demaniali marittime sono state presentate alle Capitanerie di porto di Cagliari e Brindisi

Parco eolico offshore

19 MARZO 2022

Il Ministro alla Transizione Ecologica Roberto Cingolanine aveva parlato due giorni fa durante una informativa al Senato sul tema della dipendenza italiana dal gas russo, facendo cenno a una “accelerazione di tutti i progetti rinnovabili, off-shore e on-shore“ ed evidenziando come tra i primi le richieste di connessione siano arrivate a toccare i 40 gigawatt.

La carica di nuove iniziative – in particolare, nell’eolico galleggiante – è concretamente visibile nel numero di richieste di concessione marittima demaniale di cui si sta avendo notizia in questi giorni. Ai progetti cui si è fatto cenno nelle scorse settimane (quello di cui è partita la costruzione, al largo di Taranto, e quelli di cui è stato avviato l’iter al largo della Calabriadella Puglia meridionale, e di Sarroch, in Sardegna) si aggiungono ora ulteriori procedure che stanno muovendo i primi passi.

Ad oggi si ha traccia di due nuovi progetti per impianti che si allacceranno alla rete Terna nel comune di Sarroch, ribattezzati Nora Ventu 1 e 2. L’iniziativa è promossa dalla società omonima (Nora Ventu), nata come partnership tra Falck Renewables e BlueFloat Energy, società ‘dietro’ anche ai progetti Odra Energia e Kailia Energia, entrambi al largo della Puglia.

Per il progetto sardo, Nora Ventuha richiesto il rilascio di due concessioni 40ennali. Nel campo 1 è prevista l’installazione di 52 pale, mentre sul secondo ne sorgeranno 40, tutte comunque di tipo galleggiante.

Agli atti della Capitaneria di Porto di Cagliari risultano poi altri due progetti facenti capo a Sea Wind Italia Srl, società con sede a Portovesme, chiamati Del Toro 1 e Del Toro 2,a sud ovest della Sardegna con allaccio a Portoscuso. Per entrambi la richiesta è di concessioni 30ennali, con l’installazione di 24 imoianti in ognuno di essi.

Parallelamente un’altra iniziativa è stata avviata in Puglia, con la partenza di un procedimento di autorizzazione unica. Brindisi offshore 2.0, questo il nome del progetto che fa capo a Tg Energie rinnovabili srl, prevede il rilascio di una concessione demaniale marittima per la durata di anni 30 per l’installazione di 95 aerogeneratori della potenza complessiva di 1.425 MW oltre le 12 miglia nautiche dalla costa. Il tratto interessato, di competenza della Capitaneria di porto di Brindisi, è quello antistante le località di Torre Cavallo e Cerano del comune.

F.M.

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FONTE: Logo Shippingitaly

Balene alle Isole Canarie

AVVISTAMENTO DI CETACEI NELL’ARCIPELAGO

Balene canarie cop

La ricchezza dei fondali marini delle Isole Canarie, la trasparenza e le eccellenti temperature delle sue acque, con una media di 19º C in inverno e 25º C in estate, attirano molti animali marini. Il grande vantaggio dell'arcipelago rispetto ad altri luoghi di osservazione è che molti di questi animali vi abitano stabilmente. Si tratta delle cosiddette specie residenti.

Ciò fa sì che alle Isole Canarie si possano trovare quasi 30 specie diverse, tra cui la balenottera azzurra e i delfini. La loro presenza è così comune che le isole sono diventate il luogo più importante d'Europa per osservarli in libertà. Poter godere di questi mammiferi e contemplarli in totale libertà nel loro habitat naturale è un'esperienza davvero indimenticabile per tutta la famiglia.

Delfino

Nelle Isole Canarie è possibile osservare fino a sei diverse specie di questi mammiferi acquatici, considerati tra gli animali più intelligenti del pianeta. Vedere i delfini in mare all'alba, dalle barche o perfino da alcuni punti della costa, è diventato un qualcosa di molto frequente per gli isolani.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Delfín

È molto frequente trovare il tipo di delfino più grande del mondo alle Isole Canarie, perché è dove vive stabilmente. Questo animale estremamente amichevole viaggia sempre in gruppo, interagendo e giocando con gli altri membri del suo branco. Il loro alto livello di socievolezza fa sì che non sia raro vederli avvicinarsi alle barche.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Calderón

Il capodoglio, che può arrivare fino a 20 metri di lunghezza, è uno dei mammiferi più grandi del mondo. Sebbene alle Isole Canarie sia possibile trovarli, il loro avvistamento non è così comune, perché tendono a immergersi frequentemente. Quando sono alla ricerca di cibo, le loro immersioni possono durare 35 minuti e raggiungere i 3 chilometri di profondità.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Cachalote

È la famiglia di cetacei misticeti più diversificata e varia, che comprende la megattera, uno dei residenti abituali delle Isole Canarie, che può arrivare fino a 16 metri di lunghezza. Per la sua forma particolare, è facilmente riconoscibile. Oltre al barbiglio, ha una gobba molto caratteristica che la differenzia dagli altri cetacei.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Rorcual

 Libertà e protezione garantite

Le imbarcazioni abilitate per l’avvistamento di cetacei con le quali è possibile osservare delfini e balene esibiscono il distintivo Blue Boat, un sigillo che indica che adempiono le leggi e le normative che assicurano il trattamento rispettoso delle riserve marine e garantiscono la protezione degli animali che vivono nelle acque delle Isole Canarie.

 

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Barco

Gli appassionati che vogliono vivere l'esperienza di osservare i cetacei nel loro habitat naturale devono seguire in ogni momento le raccomandazioni dei professionisti del settore nelle Isole Canarie, i quali, conoscendo il comportamento di questi animali marini, ti guideranno attraverso le acque cristalline in qualsiasi periodo dell'anno.

 

FONTE:Logo canarie

Brasile, fatta affondare nell'Oceano Atlantico ex portaerei piena di rifiuti tossici | Proteste degli ambientalisti

Il "naufragio pianificato e controllato" della nave, carica di amianto e vernici,  è avvenuto nel tardo pomeriggio di venerdì" a circa 350 km dalla costa

portaerei brasile

La Marina del Brasile ha annunciato di aver affondato nell'Oceano Atlantico l'ex portaerei Foch, carica di amianto, vernici e altri rifiuti tossici, decisione che è stata aspramente criticata da diverse organizzazioni ambientaliste.

"Il naufragio pianificato e controllato della nave è avvenuto nel tardo pomeriggio di venerdì" a circa 350 km dalla costa brasiliana, in un'area "di circa 5.000 metri di profondità", ha spiegato la Marina in un comunicato.

Stato degradato dello scafo

 A inizio settimana, la Marina aveva ritenuto di non avere altra scelta dato lo stato molto degradato di questo vecchio scafo lungo 266 metri, descritto come "pacco tossico da 30.000 tonnellate" dall'associazione Robin des Bois. "Di fronte ai rischi connessi al traino e a causa del deterioramento dello scafo, l'unica soluzione è abbandonarla affondandola in modo controllato", aveva spiegato mercoledì in un comunicato congiunto con il ministero della Difesa brasiliano.

Il tentativo del pm di bloccare l'affondamento

 t Il pubblico ministero federale del Brasile, che ha cercato di fermare l'operazione moltiplicando i ricorsi ai tribunali, ha avvertito delle conseguenze, sottolineando che la portaerei "contiene 9,6 tonnellate di amianto, una sostanza potenzialmente tossica e cancerogena, oltre a 644 tonnellate di inchiostri e altri materiali pericolosi". C'è il "rischio di gravi danni ambientali, in particolare perché lo scafo è danneggiato", ha sostenuto il pubblico ministero.

Le ong ambientaliste Greenpeace, Sea Shepherd e Basel Action Network hanno denunciato "una violazione di tre trattati internazionali" sull'ambiente. L'affondamento causerà danni "incalcolabili, con impatti sulla vita marina e sulle comunità costiere", hanno denunciato in una dichiarazione congiunta.

La storia dell'ex portaerei francese

 La Foch, nave ammiraglia della Marina francese, ha vagato a lungo in mare alla ricerca di un porto rifugio. Costruita alla fine degli anni '50 nel cantiere navale di Saint-Nazaire, nella Francia occidentale, è stata per 37 anni al servizio della Marina di Parigi, prima di essere acquistata nel 2000 dal Brasile, che l'ha ribattezzata San Paolo. Ma a causa del suo degrado e di una serie di problemi legati in particolare a un incendio nel 2005, e quando il suo ammodernamento sarebbe costato troppo, Brasilia ha deciso di disfarsene.

Il mancato smantellamento in Turchia

 Il cantiere navale Sok Denizcilik l'ha acquistata per rottamarla nell'aprile 2021, ma ha minacciato di abbandonarla perché non riusciva a trovare un porto che la accogliesse. Nel giugno 2022 ha ottenuto l'autorizzazione dalle autorità brasiliane a traghettarla in Turchia per lo smantellamento. Ma mentre si trovava a fine agosto all'altezza dello Stretto di Gibilterra, le autorità ambientali turche hanno fatto sapere che non era più la benvenuta. La nave ha così invertito la rotta senza però trovare alcun porto in cui attraccare, nonostante l'accertamento di un "aggravamento dei danni" allo scafo.

FONTE:Logo TGCom24

Breve storia dell’autorespiratore a ossigeno – prima parte

Dal sito Ocean4future una lezione sugli autorespiratori ad ossigeno a cura di Fabio Vitale

Fleuss

 

Scritto da Fabio Vitale

REX29 1 Autorespiratore

Autorespiratore ad ossigeno (ARO) prodotto dalla Cressi
sub, completo di due bombole e di maschera simile ai
modelli usati durante la guerra dai nostri sommozzatori
… ma quando nacquero i primi autorespiratori ad ossigeno?

La nascita degli autorespiratori ad ossigeno

Questa storia, come tutte le storie che parlano di invenzioni, nasce da lontano ma si materializza verso i primi anni del 1900 quando, frutto dell’evoluzione degli studi sull’ossigeno (scoperto scientificamente nel 1771 per merito del farmacista svedese Karl William Scheele), si vedono sulle pagine dei periodici illustrati, immagini di uomini muniti di strane apparecchiature che, indossate, li rendevano al contempo mostruosi e affascinanti. Siamo negli anni del grande sviluppo industriale dove tutto era frenetico: le scoperte, la produzione industriale, l’estrazione di materie prime e soprattutto la produzione di energia utile a tutti questi processi, energia prodotta per lo più bruciando enormi quantità di carbone.

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Apparato di soccorso a ossigeno a circuito chiuso te­desco
Draeger modello 1916/1917. Il primo modello fu
commercializzato nel 1903 e subì successivamente quattro
modifiche arrivando in ultimo al modello 1916/1917.
Era sicuramente uno dei più affidabili e fu usato largamente
in tutto il mondo. (da Self-contained mine rescue
oxygen breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

La sua estrazione avveniva in miniere che si moltiplicavano a vista d’occhio e con esse cresceva anche il numero degli incidenti e dei minatori coinvolti nelle viscere della terra. Incidenti dovuti alla presenza, naturale in questi giacimenti, del grisou, un gas inodore e incolore contenente prevalentemente metano, molto infiammabile che già a una percentuale intorno al 7/10% costituiva una miscela esplosiva molto potente. L’accumulo di questo gas nelle gallerie provocava spesso delle esplosioni e degli incendi che rendevano la miniera impraticabile per lo sviluppo dei fumi tossici. Proprio per prestare soccorso ai minatori coinvolti in questi incidenti, si sviluppò quindi l’autorespiratore a ricircolo di ossigeno che permetteva di addentrarsi in ambienti invasi da gas tossici senza correre il rischio di rimanerne avvelenati. Erano facili da usare, assolutamente pratici perché autonomi e non necessitavano di manichette di rifornimento da trascinarsi appresso.

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Apparato inglese a ossigeno a circuito chiuso Fleuss-Proto
costruito dalla Siebe & Gorman. Derivava da uno dei primi
autorespiratori a ossigeno a circuito chiuso ideato dal
pioniere inglese Henry Albert Fleuss nel 1878/79. Venne
adottato principalmente dalle forze armate in­glesi e
americane (da Self-contained mine rescue oxygen
breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

L’operatore respirava l’ossigeno fatto affluire all’interno di un “sacco polmone” secondo la tecnica del circuito chiuso. In pratica, si inspirava l’ossigeno posto all’interno di questo sac­co e, sempre nello stesso sacco, veniva espirata l’aria proveniente dai polmoni, ric­ca quindi di anidride carbonica e con il residuo ossigeno non utilizzato. Il gas espirato pri­ma di arrivare nel sacco polmone passava at­traverso un filtro riempito di un composto chimico a base di soda che serviva a trattenere la dannosa CO2.

Al sacco erano collegate una o più bombole di ossigeno che lo facevano affluire nel sacco in quanto necessario a reintegrare quello consumato du­rante la respirazione. In questo modo si pote­va respirare senza contatto con l’atmosfera esterna, dove potevano essere pr­esenti i gas venefici. Sfogliando libri e cataloghi dell’epoca vediamo come la maggior parte di questi autorespiratori venisse prodotta dalle stesse aziende molto attive nel campo subacqueo e cioè nella produzione di apparecchiature da palombaro. E’ evidente che l’esperienza cumulata nella ricerca sulle apparecchiature di immersione favoriva tutto quello che ruotava sui sistemi di respirazione.

 

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Apparato americano a ossigeno a circuito chiuso McCaan.
Raccoglieva le esperienze tedesche e inglesi in un
autorespiratore molto compatto (da Self-con­tained mine
rescue oxygen breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

 

Dall’uso “terrestre” a quello subacqueo il passo fu breve, anche se la cosa, in fin dei conti, non prese un grande sviluppo. Infatti, l’uso dell’ossigeno puro come gas respiratorio per le apparecchiature subacquee poneva forti limiti per la sua tossicità se respirato sotto pressione. Inoltre non si riusciva a vedere l’utilità operativa di un uomo sott’acqua munito di tale autorespiratore così limitato (non dimentichiamoci che le pinne non erano ancora state sviluppate), per lavorare sott’acqua l’attrezzatura riconosciuta era solo lo scafandro da palombaro e niente avrebbe potuto prenderne il posto. L’unico uso che se ne fece fino alle soglie della seconda Guerra Mondiale fu quello di autorespiratore di emergenza per la fuoriuscita dai sommergibili in avaria. Per vederlo trasformato da brutto anatroccolo in cigno dovremo attendere il genio di due italiani che indirettamente ne decreteranno il successo.

Sono interessanti i disegni del brevetto dell’apparato di respirazione a ossigeno a circuito chiuso depositato da Fleuss nel 1879. Come si può evincere dal disegno, attraver­so l’uso di uno scafandro da palombaro modificato, era stato previsto anche un uso subacqueo per questo di­spositivo. Fleuss non fece altro che migliorare e rende­re fruibile quanto già ideato verso la metà del 1800. In­fatti, a tale periodo si possono ricondurre le prime rea­lizzazioni di un autorespiratore a circuito chiuso costi­tuito da bombole di ossigeno e un contenitore con all’interno i reagenti chimici in grado di fissare la CO2.

aro fleuss

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Si trattava dell’apparato del francese Sandala del 1842 e di quello di un altro francese, de Saint-Simon Siccard del 1849. Le prime sperimentazioni subacquee di questi apparati furono spesso rischiose e sarà solo nel 1879, grazie a Paul Bert, che si chiariranno gli aspetti di tossicità legati alla respirazione di ossigeno puro sotto pressione.

Fine prima parte – continua 

Fabio Vitale

Alcune delle foto presenti in questo blog possono essere state prese dal web, citandone ove possibile gli autori e/o le fonti. Se qualcuno desiderasse specificarne l’autore o rimuoverle, può scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. e provvederemo immediatamente alla correzione dell’articolo

Dell’autore si consiglia la lettura dei seguenti libri:

autore amazon

Fabio Vitale1 


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C’è una petroliera semiabbandonata al largo dello Yemen

Che rischia di sversare in mare più di un milione di barili di petrolio: la guerra civile in corso nel paese ne impedisce il recupero

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Una foto satellitare della FSO Safer scattata ad agosto 2020 (EPA/MAXAR TECHNOLOGIES)

di Roberta Cavaglià

Una grande nave petroliera, la F.S.O. Safer, di proprietà della società petrolifera statunitense ExxonMobil, è ormeggiata da quattordici anni a poche miglia dalla costa dello Yemen e rischia di esplodere, prendere fuoco o affondare e riversare nel Mar Rosso una quantità di petrolio enorme. Il rischio è stato paragonato allo storico disastro della Exxon Valdez del 1989: allora la superpetroliera Exxon Valdez, di proprietà della società petrolifera statunitense Exxon (che si chiama ExxonMobil dopo una fusione nel 1999), urtò contro una scogliera nello stretto di Prince William, in Alaska. Secondo le stime dell’Exxon Valdez Oil Spill Trustee Council, il comitato che si occupa di risanare le zone colpite dall’incidente, la nave versò in mare 257mila barili di petrolio, provocando uno dei peggiori disastri ecologici della storia. La quantità di petrolio che potrebbe essere disperso dalla nave F.S.O. Safer è quattro volte superiore a quella della Exxon Valdez, e causerebbe enormi danni ambientali, umani ed economici. «L’unità di misura che si usa per le petroliere è la portata lorda, ovvero le tonnellate che la nave può trasportare a pieno carico. Secondo questo parametro, la Safer è una delle più grandi mai esistite», ha scritto il giornalista Ed Caesar, che ha ricostruito la storia della superpetroliera in un lungo reportage per il New YorkerCostruita nel 1976 in Giappone, la superpetroliera, che all’epoca si chiamava Esso Japan, viaggiò per sei anni tra Europa e Medio Oriente prima di venire acquistata dalla Hunt Oil Company, una compagnia petrolifera statunitense che aveva scoperto un giacimento di petrolio vicino a Marib, una città nell’entroterra dell’allora Repubblica Araba dello Yemen (l’unificazione con la Repubblica Democratica popolare dello Yemen e la nascita dello Yemen per come lo conosciamo oggi avvenne nel 1990). La Hunt Oil Company e la Exxon avevano costruito un oleodotto per trasportare il petrolio da Marib alla costa, dove però non esisteva nessuna struttura per immagazzinarlo. Invece di spendere centinaia di milioni di dollari per costruirla da zero, la compagnia convertì la nave Esso Japan in un terminal galleggiante (in inglese, Floating Storage and Offloading unit, F.S.O.), cambiando il suo nome in F.S.O. Safer e posizionandola al largo della costa yemenita, a nord della città portuale di Hodeidah. «Alla fine degli anni Ottanta, la Safer era uno dei posti migliori dove lavorare in Yemen», scrive Caesar. Alcuni dei membri dell’equipaggio erano italiani – «inclusi degli ottimi chef», scrive – e col tempo sempre più yemeniti trovarono lavoro sulla nave. Nel 2005 la F.S.O. Safer passò a essere amministrata dalla Safer Exploration & Production Operations Company (SEPOC), una compagnia statale yemenita, mentre il governo iniziò a pianificare la costruzione di un terminal sulla costa per sostituirla. «Il nuovo terminal era costruito a metà quando la capitale dello Yemen, Sana’a, fu conquistata dagli Houti», scrive Caesar.

mappa

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Gli Houti sono una milizia sciita zaydita, una setta molto particolare dello sciismo proveniente dalle montagne nel nord dello Yemen. A partire dal 2011 gli Houthi intensificarono la propria insurrezione armata contro il governo, ribellandosi prima al regime del presidente Ali Abdullah Saleh, poi a quello del suo successore, Abdel Rabbo Mansour Hadi. Nel 2014 gli Houti, con il sostegno dell’Iran, occuparono la capitale dello Yemen Sana’a e nel marzo del 2015 entrarono ad Aden, la capitale provvisoria del paese dopo l’occupazione di San’a, provocando la fuga del presidente Hadi in Arabia Saudita. In seguito una coalizione di paesi arabi guidata dall’Arabia Saudita iniziò a bombardare le postazioni degli Houti, avviando una guerra che continua da allora e che le Nazioni Unite e altre organizzazioni ritengono abbia causato la peggiore crisi umanitaria al mondo. Negli ultimi sei anni, le forze della coalizione sono riuscite a riconquistare la parte meridionale del paese, compresa la città di Aden, sede attuale del governo del presidente Hadi (lui, però, continua a vivere in Arabia Saudita per motivi di sicurezza).  Gran parte del nord-est del paese rimane occupata dagli Houti, incluso il porto di Hodeidah, non lontano dalla F.S.O. Safer: è stato conquistato dai ribelli a inizio novembre di quest’anno. Dall’inizio della guerra gli Houti si sono impossessati, tra le altre cose, dell’intero budget della SEPOC, azzerando gli investimenti destinati alla manutenzione della F.S.O. Safer e impedendo all’American Bureau of Shipping, uno dei principali enti che si occupano della sicurezza marittima, di ispezionare la nave. Dal 2017 la nave è senza carburante: i sette membri dell’equipaggio che sono rimasti a bordo usano due generatori di corrente a diesel per riscaldarsi e illuminare gli interni, ma gran parte dei sistemi di sicurezza della nave non funziona più, compreso il sistema antincendio. Da allora, «la nave è diventata una polveriera, a rischio per qualsiasi scarica elettrica, colpo di arma da fuoco, mozzicone di sigaretta», spiega Caesar. La principale preoccupazione di molti esperti ed ex dipendenti della SEPOC è che la nave affondi. In seguito all’incidente della Exxon Valdez, l’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) ha imposto che le superpetroliere siano dotate di un doppio scafo per aumentare gli standard di sicurezza: la F.S.O. Safer è dotata di un solo scafo che, in mancanza di manutenzione e assieme alle sue tubature e alle sue valvole, si sta corrodendo. Nel maggio del 2020, una di queste tubature arrugginite si è rotta e ha iniziato a perdere acqua nella sala macchine (l’acqua di mare viene spesso usata sulle superpetroliere come refrigerante). Dopo vari tentativi da parte dei membri dell’equipaggio, la perdita è stata arginata e il rischio di affondare evitato. Oltre al problema delle tubature, Caesar ipotizza che la nave possa staccarsi dagli ormeggi, anch’essi molto danneggiati, e andare a sbattere contro la costa rocciosa, o che il suo scafo possa cedere e spezzarsi. In ognuno di questi scenari – e anche in caso di un incendio o di un’esplosione – i suoi 1,1 milioni di barili di petrolio finirebbero in mare. A inizio ottobre la rivista scientifica Nature Sustainability ha pubblicato una valutazione dei danni provocati da un’eventuale fuoriuscita di petrolio dalla F.S.O. Safer. Parte delle stime dipende dal tipo e dalla forza delle correnti e dei venti presenti al momento dello sversamento, ma in generale gli scienziati calcolano che il petrolio ci metterebbe tra i sei e i dieci giorni a raggiungere la costa dello Yemen e tre settimane ad arrivare al golfo di Aden, situato nell’Oceano Indiano tra la costa meridionale dello Yemen e la Somalia. Per farlo, la chiazza di petrolio dovrebbe superare lo stretto di Bab el Mandeb, situato tra lo Yemen e la costa del Gibuti, da dove ogni anno passa circa il 10 per cento del commercio marittimo mondiale. Tuttavia, le navi evitano di attraversare zone contaminate dal petrolio, specialmente quando sono in corso operazioni di pulizia: nel caso della Safer, queste operazioni potrebbero durare mesi e costare, secondo le proiezioni realizzate dalla compagnia specializzata nella previsione di rischi e incidenti Riskaware, circa venti miliardi di dollari. A questi si aggiungerebbero i danni provocati dal blocco o dal rallentamento di una buona porzione dei commerci mondiali.Un grande sversamento bloccherebbe anche i porti del paese e, sempre nell’arco di tre settimane, anche quelli di Eritrea e Arabia Saudita. Tra questi, il porto di Hodeidah, che dista 50 chilometri dalla nave e da cui arrivano i due terzi del cibo destinato alla popolazione yemenita. In ogni proiezione di Riskaware, il porto di Hodeidah rimarrebbe chiuso per settimane: nella peggiore delle ipotesi, per sei mesi. Con la chiusura dei porti dello Yemen, tra i 5 e gli 8 milioni di persone che oggi dipendono dalle importazioni di derrate alimentari rimarrebbero senza cibo e 8 milioni senza acqua corrente, dato che la sua fornitura dipende dall’arrivo di carburante nel paese via mare. Il petrolio bloccherebbe anche gli impianti di desalinizzazione dell’acqua di Yemen e Arabia Saudita e colpirebbe l’industria della pesca yemenita che, nonostante le difficoltà legate alla guerra e alla mancanza di carburante, produce cibo per 1,7 milioni di persone. L’inquinamento causato dall’evaporazione o dalla combustione del petrolio aumenterebbe il rischio di patologie cardiovascolari e respiratorie in un paese già colpito da numerose malattie e, nell’ultimo anno, anche dal coronavirus. La fuoriuscita di petrolio colpirebbe infine anche l’ecosistema del Mar Rosso: le riserve di pesce non tornerebbero alle condizioni attuali per i prossimi 25 anni, con danni incalcolabili sulle specie marine che non si trovano in nessuna altra parte al mondo e che nell’Oceano Indiano occidentale rappresentano il 15 per cento del totaleA inizio 2018, sia il governo yemenita che i ribelli Houti chiesero alle Nazioni Unite di intervenire per salvaguardare la F.S.O. Safer. Poco tempo dopo iniziarono le negoziazioni tra gli Houti e le Nazioni Unite, che avevano pianificato per l’estate del 2019 un’ispezione della nave da parte di una propria delegazione. La sera prima dell’ispezione, però, gli Houti annullarono la missione. Secondo Caesar, i ribelli avrebbero capito che «la crisi della Safer [avrebbe dato] loro molto potere all’interno delle negoziazioni più generali che riguardavano la guerra». Qualche mese dopo la mancata ispezione, le negoziazioni si sono interrotte. «Gli Houti sono impazienti di uscire da questo stallo, ma non a ogni costo», ha spiegato Ebrahim Alseraji, uno dei negoziatori coinvolti nelle trattative, precisando che i ribelli vorrebbero continuare a usare la Safer come terminal galleggiante o sostituirla con un’altra nave con la stessa quantità di petrolio a bordo. Alseraji ha specificato che gli Houti vogliono «mantenere il valore economico» presente nella zona (il contenuto della Safer vale sessanta milioni di dollari) e che non permetteranno che il petrolio venga estratto dalla nave finché non ci sarà «pace». Dall’inizio del 2021 gli Houti hanno poi intensificato i loro attacchi nella provincia di Marib, che è l’ultima resistenza del governo yemenita nella parte settentrionale del paese e anche un’area ricca di giacimenti petroliferi. Secondo Alseraji, una volta completata la conquista dello Yemen, l’obiettivo degli Houti sarebbe esportare il petrolio estratto nella provincia di Marib attraverso il porto di Ras Issa, dove però non esiste nessun terminal adatto a immagazzinarlo oltre alla Safer, che si trova a circa otto chilometri di distanza dal porto, o un’eventuale nave simile. Finora la risposta delle Nazioni Unite al problema della F.S.O. Safer è stata sostenuta economicamente da un consorzio di nazioni formato da Paesi Bassi, Regno Unito, Francia, Germania, Norvegia e Svezia, che però non si è dichiarato disponibile a spendere le enormi cifre necessarie per la riparazione o la sostituzione della nave. Nel frattempo, il fallimento delle trattative tra i ribelli Houti e le Nazioni Unite ha lasciato spazio ad altre soluzioni. Ian Ralby, direttore di un’azienda statunitense che si occupa di sicurezza marittima, ha scritto un articolo in cui propone che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite autorizzi l’uso della forza per difendere la nave mentre un’altra petroliera preleva il petrolio a bordo, il tutto senza coinvolgere gli Houti. Anche il ministro degli Esteri dell’Iran ha proposto alle Nazioni Unite di inviare una delle sue navi per prelevare il petrolio dalla nave, senza però intervenire militarmente. È molto probabile però che gli altri paesi della regione, e soprattutto l’Arabia Saudita, si opporrebbero a questa soluzione, data l’ostilità che esiste tra alcuni paesi del Golfo e l’IranEsiste poi un’altra possibilità, definita “l’opzione commerciale”: vendere il petrolio presente sulla nave e i materiali che compongono la superpetroliera per pagare le spese di trasferimento del petrolio su un’altra nave e la rimozione della S.F.O. Safer. L’opzione commerciale sembra la più probabile al momento e le negoziazioni tra gli Houti e l’azienda che l’ha proposta, il Fahem Group, sono iniziate a luglio di quest’anno.

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Clima, la mappa della Nasa sull'innalzamento dei mari: "Ecco quando l'Italia verrà spazzata via"

Si innalza il livello del mare lungo le coste italiane e nei prossimi decenni potrebbe provocare serissimi problemi alle città costiere. 

Clima mappa

A lanciare l'allarme è la Nasa che ha pubblicato sul Sea level portal  la mappa con gli scenari calcolati da qui fino al 2100. Si prevede un aumento di oltre mezzo metro, con valori ancora più alti se dovessero aumentare le emissioni di gas serra. Quel che sembra certo è che ci sarà un innalzamento del livello del mare, che nel caso migliore sarà di circa 30 centimetri e in quello peggiore di 80 già fra 79 anni. Se si guarda l'Italia si scopre che a Venezia nel 2100 l'innalzamento del mare nel caso migliore potrebbe essere 0,41 metri in più o di 0,87 in quello peggiore. Nel 2150 la situazione potrebbe essere ancora più difficile per la città lagunare. Non tanto diversa è la situazione a Genova dove il mare potrebbe crescere da 0,34 metri a 0,80 metri, e nel 2150 da 0,50 a 1,83 metri. A Palermo il mare potrebbe salire da 0,32 a 0,82 metri nel 2100, e da 0,47 a 1,89 metri nel 2150, mentre a Cagliari potrebbe oscillare da 0,39 a 0,88 metri nel 2100, e da 0,58 a 1,98 metri nel 2150. "Il Mediterraneo è una zona dove il cambiamento climatico e l'aumento del livello del mare è più sensibile e rapido rispetto ad altre zone. I parametri globali di crescita dello scioglimento dei ghiacci e dell'innalzamento del livello dei mari sono cresciuti più velocemente rispetto al passato, e se andiamo avanti così si procederà ancora più velocemente", avverte Marina Baldi, climatologa del Cnr.

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Con lo scalo della Viking Jupiter è partita la stagione crocieristica 2019 di Ravenna Cruise Port

viking fronte

Con lo scalo inaugurale di oggi 8 febbraio della neonata Viking Jupiter prende avvio anche la stagione crocieristica 2019 di Ravenna Cruise Port. La Viking Jupiter è una nave da crociera di medie dimensioni, ha una stazza lorda di circa 47.800 tonnellate e nelle sue 465 cabine può ospitare fino a 930 passeggeri.

Gioiello della Viking Cruises, la Jupiter è stata costruita da Fincantieri di Ancona secondo le più recenti normative in tema di sicurezza della navigazione e di salvaguardia ambientale, è fornita dei più moderni e sofisticati sistemi di bordo ed è strutturata per garantire la massima efficienza con bassi consumi, assicurando così la riduzione al minimo dell’inquinamento prodotto dai gas di scarico. La nave dispone, inoltre,di eleganti interni di ispirazione scandinava, progettati dal team della Smc Design di Londra e dallo studio Rottet di Los Angeles, nonché di un’area wellness con sauna e grotta di neve.

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La Viking Jupiter è arrivata stamattina alle 6:30 a Porto Corsini, salutata dai delicati colori dorati dell’alba ravennate. Per l’occasione il Comandante della nave ha invitato a bordo i rappresentanti delle Autorità locali, della comunità portuale e di Ravenna Cruise Port perla tradizionale cerimonia di scambio crest. Circa 500 gli ospiti che parteciperanno alla crociera inaugurale, provenienti da 38 diversi Paesi di ogni parte del mondo, con una prevalenza di Americani, Norvegesi e Inglesi, ma anche con una cospicua rappresentanza di Cinesi. Le operazioni di imbarco si sono svolteal terminal di Porto Corsini, elegantemente allestito per l’occasione secondo l’inconfondibile e sobrio stile Viking, mentre la partenza della nave alla volta di Split, in Croazia, è prevista alla mezzanotte odierna.

L’organizzazione di questo importante scalo inaugurale mette in luce l'impegno di Ravenna Cruise Port "per lo sviluppo del traffico crocieristico nel porto della Regione Emilia-Romagna, nonostante le gravi difficoltà operative determinate dalla limitatezza dei fondali e del diametro del cerchio di evoluzione". Ravenna Cruise Port "è entrata a far parte da poco più di due anni del grande network di Global Ports Holding (GPH), il più importante operatore indipendente di terminal crocieristici al mondo, che vantauna presenza consolidata nel Mediterraneo, in Atlantico e nelle regioni dell’Asia-Pacifico, ivi comprese alcune importanti realtà di porti commerciali in Turchia e Montenegro. Con la recente aggiunta dei terminal crociere di La Habana (Cuba), Zadar (Croazia) e Antigua (Antigua and Barbuda), GPH gestisce un portafoglio di 18 porti in 10 Paesi, nei quali si svolgono ogni anno più di 3.500 accosti di navi di tutte le Compagnie".

FONTE: logo ravennanotizie

Conclusa a Panama l’ottava conferenza Our Ocean 2023: finalmente buone notizie

Buone notizie dal sito Ocean4future

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Un oceano in salute avvantaggia allo stesso modo la natura e l’essere umano; è fondamentale per la sopravvivenza della Terra e dei suoi abitanti, regolando il clima e fornendo prosperità e mezzi di sussistenza a miliardi di persone. Per poter sopravvivere necessita però di un impegno da parte di tutti per la conservazione e preservazione degli habitat oceanici. 

ghiacciai

Di fatto la salute degli oceani si sta deteriorando a causa dell’impatto causato dalle emissioni di gas serra che contribuiscono in maniera significativa al riscaldamento degli oceani, all’innalzamento dei livelli del mare ed all’acidificazione degli oceani. Non ultimo è necessario fermare l’inquinamento antropico ed il flusso di plastiche che continuano ad accumularsi nelle nostre acque sotto diverse forme. Tutti argomenti che abbiamo trattato molte volte e non ci stanchiamo di ripetere.

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Un lungo cammino  forse arrivato ad una pietra miliare

Nella risoluzione ONU 72/249 del 24 dicembre 2017, l’Assemblea generale aveva deciso di convocare una Conferenza intergovernativa, sotto l’egida delle Nazioni Unite, per elaborare il prima possibile il testo di uno strumento internazionale giuridicamente vincolante ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), nello specifico sulla conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionale.

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Il 5 marzo 2023 è stata una data storica. Al termine dell’ottava conferenza mondiale di Our Ocean, tenuta a Panama, sono stati firmati 341 accordi di impegno per un importo stimato di 19.978 milioni di dollari per la salvaguardia degli oceani.

Impegni che sembrano essere finalmente concreti da parte delle Nazioni e sono stati sottolineati poche ore dopo la conclusione dell’accordo da António Manuel de Oliveira Guterres, Segretario generale delle Nazioni Unite, con una dichiarazione trionfale: “Questa azione è una vittoria per il multilateralismo e per gli sforzi globali per contrastare le tendenze distruttive che affliggono la salute degli oceani, ora e per le generazioni a venire”.

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Già denominato Trattato sull’alto mare, il quadro giuridico che è stato approvato a Panama collocherebbe il 30% degli oceani del mondo in aree protette, destinando più denaro alla conservazione marina e regolamentando l’accesso e l’uso delle risorse genetiche marine.

Un passo avanti per poter affrontare in maniera condivisa la triplice crisi del nostro pianeta causata  dal cambiamento climatico, dalla perdita di biodiversità e dall’inquinamento. Questo trattato è in linea con gli obiettivi relativi agli oceani dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e del Quadro globale per la biodiversità di Kunming-Montreal che si propone di proteggere un terzo della biodiversità mondiale – terrestre e marina – entro il 2030, approvato alla  conferenza delle Nazioni Unite di Montreal lo scorso dicembre 2022.

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Di particolare importanza l’accordo raggiunto dai delegati della Conferenza intergovernativa sulla biodiversità marina delle aree al di fuori della giurisdizione nazionaleMarine Biodiversity of Areas Beyond National Jurisdiction (BBNJ), che sembra finalmente mettere un punto ad una questione iniziata nel 2004 e sempre rinviata.

Queste aree oceaniche, poste al di fuori delle giurisdizioni nazionali previste da UNCLOS, occupano il 61% degli oceani. Questo comporta che nell’incertezza, molti Paesi, tra l’altro tra i più industrializzati, da tempo stanno cercando più o meno legalmente di attingere alle risorse minerarie e biologiche di quelle aree: una depredazione incontrollata che se perseguita distruggerebbe gli oceani.

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Gutierrez ha sottolineato come questa decisione si basi sull’eredità della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), significando un passo avanti ottenuto da tutte le parti che hanno dimostrato una giusta flessibilità e perseveranza. L’ambasciatrice Rena Lee, di Singapore, chairwoman della conferenza, ringraziando il sostegno critico delle organizzazioni non governative, della società civile, delle istituzioni accademiche e della comunità scientifica ha aggiunto con viva emozione che “la nave ha raggiunto il porto“.

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Le delegazioni nazionali partecipanti hanno dedicato i due giorni di sessioni per concordare le numerose azioni volte a proteggere gli oceani dall’inquinamento marino, dalla crisi climatica e dall’acidificazione, per di garantire a tutti una gestione responsabile delle risorse marine, nonché una crescita economia sostenibile per tutti.

In breve, le sei linee d’azione su cui si è concentrata questa ottava conferenza sono state: Aree marine protette, sicurezza marina, economia blu, pesca sostenibile, cambiamento climatico e inquinamento marino.

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Cosa ci potremmo aspettare?

In attesa del verbale finale, basandoci sulle notizie trapelate, questo nuovo accordo dovrebbe garantire la protezione della biodiversità marina prevedendo:
– una rete globale e integrata di aree marine protette (AMP) che sosterrebbe la connettività ecologica, aiutando a preservare le specie animali e vegetali e gli ecosistemi. La restrizione delle attività umane in determinate aree ecologicamente o biologicamente significative è un sistema comprovato per prevenire il degrado ambientale. Un insieme di Hope Spot identificati scientificamente come fondamentali per la salute dell’oceano, gestiti da localmente e supportati, si spera, economicamente e scientificamente dall’ONU.

– Adozione di standard comuni per la valutazione dell’impatto ambientale con linee guida delle migliori pratiche (best practices) per una maggiore coerenza, certezza del diritto e l’attuazione di misure per proteggere l’ambiente marino.

–  L’equa condivisione dei benefici delle risorse genetiche marine, facilitando collaborazioni di ricerca tra scienziati, industria e Stati e fornendo procedure per l’accesso e la condivisione dei benefici di queste risorse.

– Non ultimo, favorire lo sviluppo ed il trasferimento delle capacità tecnologiche per una conservazione efficace della biodiversità. 

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Naturalmente l’attuazione dell’accordo richiederà accordi istituzionali adeguati, necessari per guidare, consigliare e valutare in modo indipendente i processi di VIA e AMP, supportati da un fondo globale per sostenere l’attuazione delle misure incluse nell’accordo.

Il lavoro non è quindi finito, anzi possiamo dire che è appena iniziato. In un mondo in cui i fantasmi del secolo scorso sono riapparsi minacciosi, il timore che questi bei propositi siano facilmente dimenticati purtroppo esiste  e gli oceani non possono più aspettare.

 

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Dalla Terra d’Otranto al Grande Salento federato

Mappa Salento Citta intelligenti

di Lino DE MATTEIS

Da più parti, analisti e opinionisti concordano sui rischi che il Salento imbocchi irreversibilmente la strada del degrado e dell’abbandono, invocando un sussulto d’iniziativa per sensibilizzare le Istituzioni a dare una prospettiva di crescita secondo un progetto organico. Lo hanno fatto di recente con interventi sul “Quotidiano” Adelmo Gaetani, che ha messo in guardia come il Salento stia per precipitare dalla “grande bellezza alla grande bruttezza”; Francesco Fistetti, che chiede quel “cambio di passo e di visione necessario”, sollecitando una svolta dal basso, che dovrebbe partire dai sindaci, dagli amministratori locali, dai parlamentari, dai consiglieri regionali, dai dirigenti di partiti, dalle forze economiche e sociali organizzate sul territorio; Angelo Salento e Daniele Morciano, che sollecitano “misure urgenti per rigenerare il territorio”. Per non citare l’impegno costante profuso nel tempo dall’on. Giacinto Urso, per il quale “il Salento è Grande ma non sa esserlo” per incapacità o mancanza di visione della classe dirigente. Ma è un sentire comune che circola anche sul web, sulle riviste online come questa e sui profili social di chi ha sempre avuto a cuore le sorti di questa penisola, come il notaio Enrico Astuto, l’avvocato Giorgio Aguglia, l’ammiraglio Fabio Caffio, ecc.

Tutte analisi ed opinioni pertinenti e condivisibili, ma ogni volta si ha, tuttavia, la sensazione di un anelito culturale fluttuante nel vuoto, di un dibattito staccato dal reale che, per quanto giusto e opportuno, non riesce ad incidere nelle prassi istituzionali. Quasi tutti i commentatori, però, distrattamente o perché ignari, tralasciano di ricordare e valorizzare, come invece meriterebbe, la più importante iniziativa politica presa, lo scorso anno, dalle massime Istituzioni salentine: il protocollo d’intesa “Terra d’Otranto: dalle radici il futuro”, ufficialmente approvato e controfirmato dai sindaci di Lecce, Carlo Salvemini, di Brindisi, Riccardo Rossi, e di Taranto, Rinaldo Melucci, dai rispettivi presidenti di Provincia, Stefano Minerva, lo stesso Riccardo Rossi, e Giovanni Gugliotti, oltre che dal rettore dell’Università del Salento, Fabio Pollice.Dopo vari tentativi profusi nei decenni passati, non era mai successo che la pulsione unitaria tra le tre province salentine trovasse concretezza in un protocollo d’intesa ufficiale, che non poteva meglio sintetizzare nel suo titolo l’unità storica del territorio e la voglia di guardare al futuro, di prendersi per mano e camminare insieme per affrontare le sfide della crescita e della modernità.

Quel protocollo d’intesa rappresenta, al momento, l’unico strumento istituzionale che può fungere da collettore per una cabina di regia che dia forza al territorio sui tavoli regionali e nazionali. A guardar bene, quel protocollo porta in sé lo spirito di un progetto federativo del Grande Salento, ponendone le basi programmatiche. Basterebbe leggerlo per percepirne le potenzialità federative, poiché tutti i suoi passaggi sono impregnati di questo spirito unitario, a partire dal primo capoverso: «Oggetto del presente protocollo di intesa è stabilire modalità di collaborazione coordinata e continuata fra gli Enti sottoscrittori …». E poi ancora, nel definirne finalità e obiettivi, si precisa che: «Il presente protocollo nasce al fine di rafforzare i legami tra le tre città capoluogo anche sviluppando un’appartenenza alle tradizioni identitarie dell’intero territorio; … rafforzare l’attrattività di questa grande area metropolitana al centro del Mediterraneo, …, valorizzando la comune ricchezza di beni appartenenti al patrimonio diffuso di risorse territoriali paesaggistiche, storiche e archeologiche; sviluppare una visione condivisa … della crescita che punti a definire sistemi a rete tra i tre centri e i loro territori, con itinerari turistici e culturali … che mettano insieme i tre centri storici, i paesaggi costieri e rurali, i poli museali e della ricerca universitaria e le eccellenze, le tradizioni culturali ed enogastronomiche, le produzioni agricole di pregio, ecc.; favorire la ricerca, l’innovazione, la semplificazione amministrativa anche al fine di creare economie di scala nel percorso comune e obbligatorio di transizione digitale delle Pubbliche amministrazioni…».

Gli Enti sottoscrittori, dunque, pur senza esplicitarlo, hanno delineato di fatto un progetto federalista del territorio e si auto-definiscono già una “grande area metropolitana al centro del Mediterraneo”, assecondando la moderna visione che individua nella “rete delle città intelligenti” la dimensione ottimale e necessaria per affrontare le sfide della modernità e della globalizzazione. Nel protocollo si dà veste istituzionale a quanto, nel 1983, scriveva l’urbanista di fama internazionale Giulio Radaelli, analizzando le caratteristiche di questa area: «La regione urbana jonico-salentina possiede da sempre, potenzialmente, la morfologia di una città policentrica, perfezionabile e ristrutturabile in un’unica grande Città jonico-salentina. Questa struttura policentrica è determinata dall’insieme costituito dalle maggiori città – Brindisi, Lecce, Taranto – e dagli insediamenti minori sparsi nelle pianure salentine, sulle colline (le Murge) e lungo le coste adriatiche e joniche; ed è dimostrata dalle interconnessioni da tempo antico e dalle nuove intrecciabili relazioni». Fu quello uno dei fondamenti teorici alla base dei precedenti tentativi di sottoscrivere un’intesa sul Grande Salento tra le tre Province di Lecce, Brindisi e Taranto, prima, nel 1999, con i rispettivi presidenti Lorenzo Ria, Nicola Frugis e Domenico Rana e, poi, nel 2006, con Giovanni Pellegrino, Michele Errico e Gianni Florido.

Ora, con il protocollo “Terra d’Otranto: dalle radici il futuro”, una strada programmatica concreta è stata tracciata. Una strada che ha bisogno, però, di essere riempita di contenuti attraverso l’elaborazione del masterplan affidato dallo stesso protocollo alle competenze dell’Università del Salento, dove è stato istituito e opera una “tavolo interistituzionale”, sotto la diretta supervisione del rettore Fabio Pollice. È necessario, allora, che di questo protocollo e di questo masterplan si parli più insistentemente per sensibilizzare l’opinione pubblica e per renderli prioritari nell’agenda della politica salentina e pugliese. La svolta, il momento magico da non perdere per il Salento è questo, ed è ora. Più che invocare iniziative e cambi di passo, come se nulla esistesse o fosse stato fatto, è necessario, invece, che si valorizzi di più questo protocollo, lo si faccia conoscere, si indichino contenuti e si suggeriscano priorità che dovrebbero trovare posto nel masterplan, dal dopo xylella alla rigenerazione del territorio, dalle infrastrutture a come spendere le risorse che il Pnrr destinerà alla Puglia, ecc. Per una volta non si tratta di continuare a gridare al disinteresse generale, ma di spendersi affinché non si perda altro tempo e si concretizzi presto questo percorso già avviato dalle Istituzioni per dare corpo ad un Salento più unito e forte.

(Pubblicato anche sul “Nuovo Quotidiano di Puglia” del 27 luglio 2021)

FONTE:Logo Grandesalento

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