A me mancava il rumore del mare - Andrea Camilleri

lamanna

"La prima volta che da bambino mi spostai dal mio paese con mio padre andai all' interno della Sicilia, a Caltanissetta, la sera arrivati nell' albergo in cui avevamo preso una stanza (ero molto piccolo e dormivo con lui) mio padre si accorse che non riuscivo a prendere sonno: «Perché non dormi?» - mi chiese. «C' è qualche cosa che mi manca...» risposi io. «Vabbè - continuò lui - ti manca la mamma ma già domani torniamo a casa e la troverai». In realtà, ora lo so, a me mancava il rumore del mare. Da casa mia io potevo sentirlo, soprattutto d' inverno, ed era con quel rumore che quasi mi cullava, molto simile alla mia solitudine di figlio unico."

camilleri Andrea Camilleri

Cosa è il Gran Pavese?

colombo e Vespucci a Venezia

Il Gran Pavese, detto anche “Gran Gala di Bandiere“, è una figura realizzata con una serie di bandiere alfanumeriche che le navi innalzano in caso di particolari solennità.Il nome Gran Pavese richiama quello della città di Pavia vicino alla quale si sarebbero svolti i fatti che hanno dato origine a questa tradizione. Non siamo, quindi, propriamente sul mare ma.. sul fiume Po!

la flotta viscontea

La flotta viscontea sul Po … “Veduta di Pavia” di Bernardino Lanzani, 1522. Chiesa di San Teodoro

Il 23 giugno 1431, in piena guerra tra Milano e Venezia per il controllo di alcuni territori, la squadra navaledel duca Filippo Maria Visconti  da Milano sconfisse, sul Po, nei pressi di Cremona, circa 80 galee veneziane dirette ad assediare Pavia. A capo della flotta milanese era Pasino degli Eustachi, che arrivava, da Pavia. Da qui il nome Gran Pavese, in quanto al rientro dopo la vittoria, lo stesso Pasino fece issare sulle navi tutti i vessilli e le bandiere delle barche veneziane sconfitte, assieme alle uniformi degli ufficiali catturati.

Una sconfitta che costò carissima anche al Conte di Carmagnola, al secolo Francesco Bussone, condottiero e capitano di ventura accusato di tradimento e giustiziato il 5 maggio 1432 dai Veneziani. Il fatto è raccontato da Alessandro Manzoni nell’omonima tragedia dedicata a questo personaggio storico.

rn giulio cesare con gran pavese

Una bella foto della regia Nave Giulio Cesare con il gran pavese alzato – photo credit Istituto Luce

Quando lo si alza

Il Gran Pavese sulle navi si alza per la prima volta … al momento del varo; successivamente viene alzato, solamente in porto, in occasione di feste nazionali proprie o del Paese ospitante, o, su richiesta delle autorità marittime, in occasione di feste patronali del porto di ormeggio, inaugurazioni ufficiali, vari di altre unità navali, visite di alte personalità.

gran pavese 40 bandiere

L’ordine delle serie di bandiere utilizzato dipende dalla Marina, dal tipo di nave e dalla dotazione.La distanza delle bandiere deve essere stabilita in maniera uniforme in relazione alla lunghezza dell’unità, nonché al numero e all’altezza dei suoi alberi, in modo che i due guidoni di ciascuna estremità del Gran Pavese assumano la posizione sopra specificata. In testa a ciascun albero deve essere invergata una Bandiera Nazionale, di grandezza inferiore a quella della Bandiera Nazionale issata all’asta di poppa.

gran pavese

Le imbarcazioni che non hanno in dotazione neppure una serie completa di bandiere da segnalazione, in luogo del Gran Pavese, utilizzano il Piccolo Pavese, costituito esclusivamente dalla Bandiera Nazionale alzata in testa d’albero.Il Gran Pavese deve essere alzato da prua a poppa, contemporaneamente alla Bandiera Nazionale, ed ammainato dopo di essa.

gran pavese 1

Oltre al già citato evento del varo, successivamente il Gran Pavese viene alzato, solo durante la permanenza in porto, in occasione di feste nazionali o su specifica richiesta delle autorità marittime locali, in occasione di feste del porto di ormeggio (come feste patronali, inaugurazioni ufficiali, vari di altre unità navali, visite di alte personalità, etc.). Se si festeggia una ricorrenza estera, oltre la propria Bandiera Nazionale, si alza in testa d’albero, o sull’albero di maestra, quella della nazione estera, la Bandiera Nazionale va sempre a sinistra, quella estera a dritta sulla stessa asta.

Per curiosità il termine Pavese trova varie descrizioni in differenti dizionari:
 

Vocabolario Marino – Militare del Padre Guglielmotti (Vogherà, 1889)
Pavese: Arma difensiva che imbraccia come scudo … dipinto con emblemi e colori bizzarri. Il nome a parere del Duncagio e de] Muratori viene da Pavia.

Pavesare:Acconciare il bastimento a difesa con gli ornamenti dei pavesi, cioè degli scudi quadrilunghi e disposti alla maniera di Pavia.

Pavesata: Quel riparo di tavoloni quadrilunghi dipinti come i pavesi. Quella moltitudine di banderuole, messe in filiera sul capo di banda. Si è detto e si dice ancora, quella moltitudine di banderuole … che si mandano per tutta l’attrezzatura del bastimento. Questo è il valore della Pavesata venuta da Pavia e questa la storia della voce che gli stranieri han preso da noi, e non viceversa.

Dizionario della Marina a Vela del Bonnefois edito a Genova nel 1863 in lingua francese Pavoisier: autrefois pavoisier, un batiment C’etait etendre ses pavois en guise d’ornement. Aujourdhui on pavoise un batiment en le decorant les jours da fete avec pavillons et bannieres et meme avec des pavois. Les pavillons et Ies bannieres se hissent aut but des mats, vergues et cordes de la maniere plus symmetrique.
Dizionario di Marina del Parilli (Napoli 1866) Pavese: erano lunghe strisce di panno di lana dai colori vivaci, con le quali adornavansi i vascelli nelle grandi solennità … oggidì sono affatti disusati. Sono definiti pavesi cerati le tele che servono a ricoprire le brande nei tempi umidi e piovosi. Ovviamente sulle navi del tempo nel quale le brande venivano sistemate nei “bastingaggi” sui due lati della coperta.
“Glossaire Nautique” di Ajal (Parigi 1848)
Pavesade – da editti degli anni 1634 – 1670:
Le Roy ayant en advis que non obstant son
reglement du 9 Juillet 1670…… les pavesades seront à l’advenir des couleurs da Sa Majesté.

Pavoisier: Garnir de pavois le bord du navire qui va a combattre.

Dizionario di Marina della Regia Accademia d’Italia di Piquè, Milano
1879 questo dizionario, curiosamente, ignora il termine “Pavese” e la sua origine, e menziona: Pavese: vedasi Gala ed alla voce citata spiega: Gran gala di bandiere… anziché “Gran Pavese” espressione maggiormente usata.
Vocabolario marinaresco edito dalla Lega Navale – Roma 1932
anche questo vocabolario rinvia al Gala di Bandiere, definito come … “quel modo di ornare l’alberatura d’una nave, distendendo tutte le bandiere da segnale tra le estremità degli alberi, l’estrema poppa e l’estrema prua. Per la disposizione delle bandiere si seguono le norme stabilite secondo il numero degli alberi della nave. La gala di bandiere non è obbligatoria per le navi mercantili, ma lo è per le navi da guerra, in Patria ed all’estero, nelle feste nazionali ed in quelle della nazione che le ospita. Vi sono la piccola e la grande gala d bandiere. La piccola gala o piccolo pavese consiste nello spiegamento di una bandiera nazionale all’estremità di ogni albero (non al bompresso). La grande gala o gran pavese si fa aggiungendo alle bandiere nazionali della piccola gala, il numero di bandiere da segnali necessarie per ornare completamente l’alberata nel modo a cui sopra si è accennato. Nella piccola e grande gala, spiegate in occasione di feste di nazione estera, si sostituisce alla bandiera nazionale in testa di albero di maestra (o dell’albero unico) la bandiera della nazione che si festeggia”.

FONTE:Logo ocean4future

Dizionario marinaresco: i “gatti di bordo”

Una curiosità dal sito Ocean4future 

GATTI 640px Sailors surround the ships cat Convoy asleep in a miniature hammock on board HMS HERMIONE Gibraltar 26 November 1941. A6410

Oggi torniamo a guardare attraverso il sapiente oblò di Capitan Bitta, alla scoperta di nuovi termini marinareschi, partendo dai … gatti. Buona lettura.

simon cat on board

Uno dei più celebri gatti di marina, Simon

I gatti, nell’antichità, erano ritenuti animali magici e numerose leggende e superstizioni erano diffuse tra i marinai; considerati animali intelligenti e porta fortuna erano oggetto di cure e attenzioni da parte degli equipaggi (se non altro perché mangiavano i topi). Si riteneva che i gatti avessero poteri miracolosi nel proteggere le navi dalle intemperie per cui le mogli dei pescatori, a volte, tenevano in casa anche dei gatti neri, nella speranza che sarebbero stati in grado di usare la loro influenza per proteggere i loro mariti in mare. A bordo, si credeva che fosse un evento fortunato se un gatto si avvicinava a un marinaio sul ponte, ma un presagio negativo se arrivava solo a metà strada e poi tornava indietro. Un’altra credenza popolare era che i gatti potessero scatenare tempeste attraverso la magia immagazzinata nelle loro code. Se un gatto di una nave cadeva o veniva gettato in mare, si pensava che avrebbe evocato una tempesta tale da fare affondare la nave e, ammesso fosse riuscita a salvarsi, sarebbe stata maledetta con nove anni di sventure. Inoltre, se un gatto si leccava la pelliccia contropelo, significava che stava arrivando una tempesta di grandine, se starnutiva significava pioggia e se era “vivace” significava vento.

GATTO Calico cat 1

Di fatto alcune di queste credenze hanno un fondamento di verità perché i felini sono in grado di percepire lievi cambiamenti meteorologici grazie al loro orecchio interno che è molto sensibile e gli permette di … cadere sempre in piedi. Inoltre, l’abbassamento della pressione atmosferica, che di solito anticipa l’arrivo di un tempo burrascoso, spesso rende i gatti nervosi e irrequieti. Superstizioni e credenze che sono cosmopolite: i marinai giapponesi ritengono che il calico, (vedi foto in alto),  un gatto di una specie particolare di tre colori (みけねこmike-neko), salendo sull’albero maestro della nave, possa tenere lontani gli spettri dei naufraghi.

CURIOSITÀ
Alcuni marinai ritenevano che il gatto polidattile (dotato di un numero di dita superiore al normale a causa di un’anomalia congenita) fosse più adatto per catturare animali nocivi, convinti del fatto che tali gatti, avendo più dita, avessero più equilibrio sulle imbarcazioni e in alcune parti del mondo i gatti polidattili sono anche chiamati “gatti di bordo”.

PERSONAGGI HEMINGWAY 640px Ernest Hemingway with cat 1954

Hemingway, un grande marinaio, nella sua casa di Key West
(Florida) aveva una colonia felina di soli gatti polidattili
che, tra l’altro, gli è sopravvissuta e viene mantenuta con
una rendita a vita. Quando si dice nascere fortunati.

Terminologia marinaresca

Ma, a parte questi simpatici felini, nell’area prodiera del ponte di coperta, troviamo un’altra “gatta”. Di cosa si tratta? È una struttura (una mastra) posta trasversalmente affinché l’acqua, che può penetrare dagli occhi di cubia, non possa scorrere all’interno dell’imbarcazione ma fuoriesca da due ombrinali (fori laterali) posti subito prima di essa. La parola GATTA deriva dal francese gatte e, a sua volta, dal latino gabătascodella. È detto anche LAVARELLO definito dal Guglielmotti (1889) come… “Specie di chiudenda a prua, innanzi agli occhi delle cubìe, perché non si spanda l’acqua degli ormeggi nel salpare, o de’ marosi nel navigare“.

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Esistevano anche le TESTE DI GATTO (o GRU DI CAPONE), delle robuste travi di legno che anticamente erano posizionate sulle due fiancate della prua di una nave. Venivano utilizzate per sostenere l’ancora quando veniva calata o sollevata per riportarla nel suo alloggiamento una volta sospesa al di fuori della nave. Lo scopo era quello di fornire una trave abbastanza pesante per sostenere il peso dell’ancora e, allo stesso tempo, di tenere l’ancora lontana dalle murate di legno per evitare danni.

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Vi domanderete perché questo nome? In passato l’estremità sporgente di questa trave era scolpita per assomigliare al volto di un gatto (o di un leone), da qui il nome inglese cathead.
Buon vento a tutti e arrivederci a presto.

Paolo Giannetti

in anteprima, un gruppo di marinai circonda il gatto di bordo “Convoy” mentre dorme su un’amaca in miniatura a bordo della HMS HERMIONE–  Autore fotografo ufficiale della Royal Navy, Beadell, SJ File:Sailors surround the ship’s cat “Convoy” asleep in a miniature hammock on board HMS HERMIONE, Gibraltar, 26 November 1941. A6410.jpg – Wikimedia Commons

 

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Entrato in Accademia nel 1977 (Corso SAOREN) ha prestato servizio e comandato numerose unità navali, specializzandosi nel tempo in Idrografia (Idrographic Surveyor di categoria “A” ) e Oceanografia con un Master presso la Naval Postgraduate School di Monterey, California. Appassionato divulgatore ha creato Capitan Bitta, detto il “Gianbibbiena, un personaggio immaginario che racconta con brevi scritti curiosità di nautica, meteorologia e astronomia

FONTE: OCEAN4FUTURE

I Fischi Marinari

Parliamo dei Fischi Marinari. Dati raccolti in giro per il web in particolare sul sito Marinai d’Italia

Fischio nostromo

La nave scuola Amerigo Vespucci ha una particolarità... (una delle tante!) che la rende ancora più singolare... tutti i comandi delle manovre da eseguire da parte dell’equipaggio (in particolare dai nocchieri) vengono dati con l’uso di un singolare fischietto. Questo fischietto è chiamato proprio “fischio del nostromo” generalmente è di ottone, o comunque di metallo, ed ha una catenina che consente di tenerlo al collo sempre pronto all’uso. È fatto da un tubicino, detto cannone, da un anello, detto maniglia, attaccato all’estremità dell’impugnatura, chiamata chiglia, e di una pallina forata, detta boa, da cui esce il suono. Si impugna all’altezza della chiglia, tra pollice ed indice; con le altre dita si regolano invece l’intensità e la modulazione del suono (una nota alta e una bassa, tre toni: pieno, modulato e trillo). Emettendo questi suoni modulati, permette di impartire ordini diversi a seconda del suono e dei trilli variamente modulati, e, cosa più importante, consente a tutto l’equipaggio diversamente disposto (anche dal punto più alto degli alberi!) di sentire l’ordine da eseguire. Ma facciamo un passo indietro, una piccola precisazione prima di proseguire;sai la differenza tra nocchiere e nostromo? I nocchieri sono gli uomini dell’equipaggio addetti alle manovre in coperta, cioè sul ponte esterno. Su una nave a vela come il Vespucci costituiscono gran parte dell’equipaggio (considera infatti il numero degli alberi, dei pennoni e di tutte le relative vele!). Il nostromo di bordo è sempre e solo uno, è il capo supremo dei nocchieri. A bordo della nave scuola Vespucci “cambia nome” e... viene chiamato 1° Nocchiere. Impartisce gli ordini dati dal Comandante tramite il fischio da nostromo. È aiutato nel suo lavoro da un gruppo di nocchieri, muniti anche loro di “fischietto” (vedi la foto all’inizio di questa pagina). Ogni albero ha un armo di uomini comandato da un sergente, o da un 2° Capo, che impartisce gli ordini, stando alla base di ogni albero, tramite il fischio. Il fischio da nostromo è di origine britannica, si chiamava boatswain’s pipe. Sembra esistesse già nel Medioevo, ma sicuramente se ne conosce la presenza a bordo delle navi nel tardo Seicento. Viene usato anche per rendere gli onori al Comandante e agli Ufficiali, ed ospiti importanti, che salgono a bordo o che scendono dalla nave.

Posizioni della mano

Posizione manoLe 4 posizioni corrette della mano sono: aperta, incurvata, chiusa e stretta così come mostrate in figura. Lo sforzo dei polmoni o la pressione del soffio varia con ognuna posizione. Di regola la posizione a mano aperta richiede la minima pressione per ottenere un tono chiaro e basso mentre la posizione stretta richiede la maggior pressione e rende il tono acuto, chiaro ed elevato. I toni bassi vengono ottenuti con la posizione a mano aperta. Con i trilli del fischietto il Nostromo rende gli onori a bordo delle unità della Marina Militare. Questi vengono resi al barcarizzo alle autorità che stanno per transitarvi. In antichità il fischio indicava al personale di servizio in coperta il numero di lanterne che dovevano essere utilizzate per illuminare il cammino e l’accesso al barcarizzo stesso. Ovvero al fischio “QUATTRO ALLA BANDA”, il numero corrispettivo di Marinai (4) si preparava per scendere da bordo; quindi al fischio “FUORI”, gli stessi si dislocavano in modo da illuminare la via per l’accesso al vascello, mentre al segnale “RIENTRA”, i Marinai tornavano a posto, in coperta. I fischi eseguiti si contraddistinguono in: DUE ALLA BANDA per gli Ufficiali fino al grado di Tenente di vascello e corrispondenti gradi o livelli sia militari sia civili; QUATTRO ALLA BANDA per gli Ufficiali fino al grado di Capitano di vascello e corrispondenti gradi o livelli sia militari sia civili; SEI ALLA BANDA per gli alti Ufficiali fino al grado di Ammiraglio di Squadra e corrispondenti gradi o livelli sia militari sia civili; OTTO ALLA BANDA che sono i massimi onori, vengono tributati alla Bandiera Nazionale/Navale, ai Capi di Stato, ai Caduti.

L'articolo della rivista Marinai d'Italia

Articolo anmi

 

Qui potete scaricare i file Mp3 dei fischi

Fischi marinari

 

FONTE : Marinai d'Italia, web e personali

Il faro del fantasma burlone

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IL FARO DEL FANTASMA BURLONE
Tratto dal volume
"RACCONTI DI FARI E ALTRE STORIE DI MARE"
Ed. F.lli Frilli 2006- ristampa 2008
Di Annamaria “Lilla” Mariotti

fantasmaburlone 001Le storie di fantasmi sono come i pettegolezzi, qualcuno le ha sentite da qualcuno, che le ha sentite da qualcun altro, che le ha lette non sa più dove, forse su qualche vecchio libro, tanto che le sue origini si perdono nel tempo, ma sono comunque storie che vengono da sempre raccontate e da sempre ascoltate con curiosità mista a paura.   Una volta si usava raccontarle nelle lunghe serate d’inverso, seduti vicino al fuoco, dove le fiamme lanciavano bagliori danzanti sulle pareti che facevano stringere le persone l’una all’altra, come a farsi coraggio.

I fari non fanno eccezione, come i vecchi castelli anche loro hanno le loro brave storie di spettri, vecchi guardiani che non se ne vogliono andare, persone annegate nelle vicinanze che trovano nel faro un rifugio per la loro povera anima vagante e via così.  Se poi un faro si trova in una zona con un’atmosfera  suggestiva e se il faro stesso è decadente o abbandonato, non c’è posto al mondo che più si presti a simili racconti.

Questa che stiamo per raccontare è una storia di questo tipo, arrivata per caso tramite il racconto di una persona che l’ha ascoltata da una persona che ne conosceva un’altra che l’aveva sentita raccontare di qualcuno, ecc …..

fantasmaburlone 002Il faro di cui si parla è quello di Waugoshance, un faro ora in rovina  sul Lago Michigan, dove segnala l’entrata occidentale dello Stretto di Mackinac,  un punto molto pericoloso per la navigazione a causa dei banchi di sabbia,  ma che fino al 1912, anno in cui venne chiuso svolse il suo compito di illuminare la rotta alle navi, e che era stato caldamente voluto da chi percorreva quella acque.

Il faro fu costruito tra il 1850 ed il 1851 con grandi difficoltà su questo piccolo isolotto di sabbia, ma alla fine  su una bassa costruzione svettava una torre di mattoni alta 23 metri, sovrastata da una lanterna chiamata “a gabbia d’uccello” per la tipica lavorazione che ricordava una voliera. La sua luce, emessa dalle lenti di Fresnel, poteva essere vista fino a 16 miglia.   In America i laghi sono molto grandi e i fari non si trovano solo in mare, ma la furia dei Grandi Laghi alla volte può essere superiore a quella dell’oceano, così la torre cominciò presto a deteriorarsi e nel corso degli anni fu più volte ristrutturata.

Ma con la storia delle vicissitudini del faro va di pari passo la storia di uno dei suoi guardiani. La storia che si racconta è semplice : dal 1885 al 1900 era guardiano del faro Waugoshance un certo John Herman che amava due cose nella vita, fare scherzi e bere del buon wiskey.  Nonostante questi suoi “vizietti” rimase a lungo nel faro, dove si avvicendarono anche degli assistenti guardiani, finché una sera dell’autunno del  1900, forse più allegro del solito,  John chiuse a chiave il suo assistente nella stanza della lanterna, scese la scala e si allontanò ridendo a crepapelle per il suo scherzo.  L’uomo lo chiamò a lungo dal terrazzino in cima alla torre, ma il buon John Herman, che sicuramente si era fatto una bella bevuta, si diresse lungo il molo che costeggiava il faro, non ne vide la fine e cadde in mare dove annegò.  

Non si sa quali altri scherzi John abbia fatto durante la sua vita, ma questo gli fu fatale.  E qui la storia sarebbe finita, se non fosse per il  fatto è che proprio da quel periodo in poi cominciarono a verificarsi strani fatti : porte che si aprivano e si chiudevano, passi per le scale, insomma tutto il repertorio solito delle manifestazioni di spettri, tanto è vero che quando, nel 1912, un nuovo faro fu messo in funzione nelle vicinanze e il vecchio fu abbandonato perché obsoleto, si disse in giro che il vero motivo era che nessuno voleva più lavorare lì per via del fantasma del vecchio guardiano che aveva preso possesso del posto. In effetti dai registri del faro risulta che il guardiano John Herman morì il 14 Ottobre del 1900, durante il suo servizio, cosa che rende plausibile il racconto e allora  ci si domanda, dove la realtà e dove la leggenda ?   Comunque il vecchio farò cadde inesorabilmente in rovina, anche a causa di atti di vandalismo, oggi infatti il suo aspetto è desolante, il molo di attracco non esiste più, la base ancora resiste, ma la scala a chiocciola è stata portata via, così come la cupola fatta a gabbia di uccello e la vecchia torre si sta sgretolando.  In più un incendio scoppiato non si sa come, ha distrutto tutto quello che di combustibile si trovava all’interno. completando l’opera.   Vedendolo si capisce come questo particolare faro abbia scatenato la fantasia della gente che ha continuato a parlare  per anni della sua storia. 

fantasmaburlone 004Ai giorni nostri, in un villaggio sul lago, proprio di fronte all'’isola del faro, abitavano due amici, due buontemponi. Uno, Mark, aveva un negozio di ferramenta ed era un tipo atletico, sui 35 anni, con due spalle da giocatore di rugby, la mascella quadrata ed una bella capigliatura bionda.  L’altro, Tom, un agente assicurativo, era un tipo alto, asciutto, più o meno della stessa età dell’amico, con occhi e capelli neri ed un naso leggermente aquilino che faceva pensare ad una lontana discendenza da qualche tribù di pellerossa.  Una sera d’estate i due si trovavano a cena con altri amici e per un po’ parlarono del più e del meno, poi il discorso cadde sul fatto che dei privati cercavano di ristrutturare il faro ed era iniziata una raccolta di fondi per questo scopo.  Da lì a parlare del fantasma il passo fu breve e alla fine Mark  propose a Tom  di andare insieme in barca all’isola e passare una notte al faro perché non sarebbe stata una cattiva idea dare un’occhiata di persona.    Una parola tira l’altra, un bicchiere tira l’altro e alla fine della cena i due amici si erano impegnati a buttarsi in quell’avventura per dare la caccia al fantasma ma, peggio ancora, si erano resi conto che non potevano più tirarsi indietro perché gli altri componenti della compagnia erano stati testimoni di quella decisione e l’avevano appoggiata con entusiasmo.

Il sabato seguente, giorno deciso per la  spedizione  gli amici si trovarono nel pomeriggio su una  spiaggia del lago, davanti al piccolo cottage che Tom usava come base per andare a pescare.    Si trattava più che altro di una piccola capanna di tronchi, con una cucina, una stanza ed una veranda sul davanti, dove, dopo una partita di pesca, gli amici si riunivano per cucinare le loro prede.  Il prato degradava dolcemente verso il lago, dove si allungava un pontile di legno a cui era ormeggiata la barca a motore di Tom.

La loro era una spedizione temeraria, era l'’avventura della loro vita, avrebbero potuto testimoniare se la leggenda era vera o falsa. Avevano deciso di non portare nessun tipo di luce, né pile, né candele, né, tanto meno, macchine fotografiche per non  spaventare il fantasma, se si fosse presentato, con il flash. Il loro equipaggiamento consisteva di un telo impermeabile da usare in caso di pioggia  e dei sacchi a pelo, non perché avessero intenzione di dormire, ma solo per ripararsi dal freddo, oltre ad una provvista di pane e merluzzo affumicato per la cena, di una qualità speciale che si vendeva in un solo posto in città.   Dovevano  però trovare qualcosa che potesse convincere John Herman a farsi vivo (si fa per dire) così, conoscendo la sua predilezione,  decisero di portare una bottiglia di buon wiskey scozzese e tre bicchieri, insieme a dei cubetti di ghiaccio nel caso il fantasma lo preferisse insieme al suo wiskey.  Misero il tutto in un  capace contenitore termico, caricarono la barca  e Mark e Tom partirono per la loro avventura.

I due amici ormeggiarono la barca sotto la scogliera e si arrampicarono per raggiungere la base del faro. La situazione era peggiore di quanto pensassero : la casa del guardiano era bruciata e piena di detriti e la scala a chiocciola che portava alla stanza della lanterna non esisteva più.  Ebbero la tentazione di arrampicarsi fino in cima alla torre usando una corda, ma date le circostanze pensarono che era meglio non rischiare.  Così si organizzarono per la notte e in mezzo ai rottami  trovarono dei pezzi di legno dai quali ricavarono un rozzo tavolino, si sedettero e mangiarono il loro merluzzo affumicato insieme al pane.  L’avventura mette fame.  Intanto si faceva scuro e fino a quel momento Mark e Tom non avevano visto né sentito niente che anche lontanamente somigliasse ad un fantasma così  prepararono da bere, misero i tre bicchieri sull’improvvisato tavolino versando ghiaccio e wiskey in tutti e tre, poi  alzarono i loro  dicendo : “allo spettro di John Herman” e li vuotarono.   Quello di John non era stato toccato e come ulteriore misura precauzionale chiusero bene la bottiglia e controllarono il livello del liquore rimasto.

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Oramai era buio pesto, così i due coraggiosi cacciatori di spettri misero i loro sacchi a pelo contro una parete rimasta in piedi, e si sedettero, posizionandosi in modo da poter vedere qualsiasi movimento potesse venire da quelle che una volta erano state la porta e le finestre, e si prepararono ad una paziente attesa.    L’atmosfera non era delle migliori, la luna che appariva e spariva tra le nuvole creava strane ombre in movimento,  persino un uccello notturno di passaggio fece danzare le ombre sulla parete semidistrutta e i due amici cominciarono a sentire uno strano non so che, erano in due, ma erano davvero soli ?   Sul tavolino si trovavano sempre i due bicchieri vuoti e quello pieno, sembrava che il loro tentativo di attirare John Herman fosse fallito.  Intanto si sentì un tuono in lontananza che faceva presagire un temporale,  così i due uomini sistemarono il telo impermeabile in modo da proteggersi dalla pioggia se fosse arrivata e tanto per farsi coraggio, cominciarono a chiacchierare di come fossero terribili le tempeste che si scatenavano  sul quel lago e quanti naufragi avessero causato.  Puntualmente arrivò la pioggia e arrivò a scrosci, insieme ad un vento gelido che fischiava tra le rovine, così Mark e Tom si infilarono nei sacchi a pelo, sotto la protezione del telo e alla fine, nonostante tutto, si addormentarono.  

Quando si svegliarono il mattino seguente splendeva il sole.   Guardarono subito verso la tavola, due bicchieri erano vuoti, il terzo era sempre pieno, la bottiglia era tappata ed il livello del liquore non era cambiato. Dopotutto John Herman non si era fatto vivo.  I due amici raccolsero le loro cose, recuperarono la barca e tornarono sulla terraferma, non sapendo se sentirsi sollevati o dispiaciuti.   

Una settimana più tardi Mark ricevette una telefonata da Tom che gli chiedeva di raggiungerlo al più presto al cottage sulla spiaggia.  Appena arrivò Mark fu accolto da un tanfo di pesce andato a male.  Al loro ritorno dal faro i due cacciatori di fantasmi avevano lasciato il contenitore termico, senza aprirlo,  nella veranda antistante la  casa e la bottiglia mezza vuota del wishey scozzese sulla tavola della cucina, poi ognuno era tornato a casa sua.  Ora Tom gli fece vedere che dentro alla borsa termica si trovava un  merluzzo,  orami decomposto dopo una settimana di esposizione al sole, e che la bottiglia sul tavolo era esattamente come l’avevano lasciata, ma conteneva acqua e non wiskey !   

Qualche loro amico aveva voluto giocare un tiro mancino?  Non era possibile, il cottage e la veranda erano chiusi a chiave.  Quando avevano lasciato il faro non  si erano preoccupati di aprire la borsa termica, né di annusare il wiskey, non c’era motivo di farlo, era possibile che lo spettro di John Herman si fosse presentato mentre dormivano, in quella terribile notte tempestosa, avesse vuotato la bottiglia di wiskey, riempiendola con l’acqua del lago, e, per prenderli in  giro, avessi infilato un merluzzo nella borsa termica ?  Non è possibile che Mark e Tom siano stati le ultime vittime di quel guardiano burlone ?   I due amici non avranno mai una riposta ad una simile domanda, ma è molto probabile che si guarderanno bene, in futuro, dal passare una notte in un faro abbandonato.

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FONTE: Logo mondodeifari

 

Il mistero del Faro di Eilean Moor-Scozia

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IL MISTERO DEL FARO DI EILEAN MOOR, SCOZIA

di Annamaria "Lilla" Mariotti

Tratto dal volume
"RACCONTI DI FARI E ALTRE STORIE DI MARE"
Ed. Frilli 2006 – ristampa 2008

Ay, though we hunted high and low
And hunted everywhere
Of the three men's fate we found no trace
Of any kind in any place
But a door ajar and an untouched meal
And an overtoppled chair......

Tratto da “ Flannan Isle” di Wilfrid Gibson, 1912


La prima volta che sono venuta a conoscenza per puro caso del fatto che sto per raccontarvi non l'’ho preso per vero. Ho pensato ad una leggenda locale o all'’invenzione di qualche fantasioso scrittore, così ho deciso di documentarmi e, seguendo gli indizi, sono arrivata ai National Archives of Scotland, ed ecco, davanti a me, i documenti originali, i telegrammi, la corrispondenza, i rapporti, tutto quello che concerneva questo giallo, un caso misterioso accaduto centocinque anni fa e mai risolto. Il faro e l’'Oceano Atlantico hanno mantenuto e manterranno per sempre il loro segreto.

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Tutto è accaduto a Eilean Mor, “Grande Isola” in Gaelico, una delle isole Flannan, una manciata di sette scogli buttati quasi per caso nell’' Atlantico del Nord Ovest, chiamate anche “I sette cacciatori”, situate a 33 Km dalle Isole Ebridi, al largo della Scozia.

Queste isole prendono il loro nome da un vescovo, Flannan o Flann, che nel 1600 aveva fatto erigere una cappella proprio su Eilean Mor. Il motivo che può aver spinto quel pio uomo a costruire una cappella in quell'’angolo di mondo sperduto in quell’'epoca e soprattutto le difficoltà che può avere incontrato per portare a termine il suo compito sono del tutto sconosciute, comunque tutto l'’arcipelago è sempre rimasto disabitato.

 In tempi antichi i pastori delle Ebridi solevano portare le loro pecore a pascolare su alcune di quelle isole, ricche di pascoli durante l'’estate, ma mai vi passavano la notte. Quegli scogli avevano la fama di essere abitati da presenze misteriose, inquietanti e nessuno aveva la volontà di fermarsi a controllare se era vero. Meglio tornare con la rassicurante luce del sole.

 treguardiani20003La “Grande Isola” ha una superficie di circa 150 metri quadrati e il suo punto più alto raggiunge appena gli 80 metri. Anche se durante l'’estate l'’isola ha una lussureggiante fioritura e pullula di uccelli marini, non potrebbe esserci posto più desolato in tutto il mondo e mare più pericoloso intorno, infatti durante gli anni, con l'’aumentare della navigazione in quella zona, aumentò il numero dei naufragi. Per questo nel 1895 venne presa la decisione di illuminare quel tratto di costa tra le Flannan e l’'isola di Lewis e la scelta cadde sull'’isola di Eilean Mor. I lavori durarono a lungo, tra mille difficoltà, con il mare sempre in tempesta, come sempre succede per la costruzione di un faro in mezzo al nulla, ed i due anni preventivati diventarono cinque. il 7 Dicembre 1899 fu inaugurato a Eilean Mor un faro costruito da uno dei famosi architetti di fari della dinastia Stevenson, una piccola costruzione affiancata da una torre alta 22 metri, la cui lanterna lanciava due lampi in rapida successione ogni 30 secondi visibili a 24 miglia di distanza. Al di sotto del faro si trovava ancora la piccola, antica cappella in pietra, costruita duecento anni prima.

 Il 7 Dicembre 1900, nel primo anniversario della sua inaugurazione, arrivarono sull'’isola i guardiani in carica per il turno quindicinale : James Ducat, Capo Guardiano, Thomas Marshall secondo assistente e Donald Mc Arthur, definito “guardiano occasionale”. in quanto veniva ingaggiato quando c’'era da sostituire qualcuno, in questo caso era arrivato al posto di William Ross, il primo Assistente, che si era ammalato. Tutto procedette bene fino alla notte del 15 Dicembre 1900, quando il comandante della la nave “Archtor”, passando nelle vicinanze notò che la luce del faro era spenta. Dalle informazioni che si hanno sembra che questa notizia sia stata inviata dal comandante alle autorità competenti, ma che per qualche motivo non venne presa in considerazione o rimase in qualche cassetto. Il 21 Dicembre era previsto l’'arrivo all'’isola della nave “Hesperus”, nave appoggio ai fari, che veniva inviata dal Northern Lighthouse Board per una visita di routine al faro, ma anche per l’'avvicendamento degli uomini e per l’'approvvigionamento. Una terribile tempesta che infuriava nella zona ne dilazionò l’'arrivo fino al 26, il giorno dopo Natale. Il tempo si era schiarito, ma comunque gli uomini dovettero effettuare diversi tentativi per poter attraccare ad uno dei due pontili del faro, situati uno a oriente ed uno ad occidente dell'’isola in modo da offrire possibilità di sbarco in condizioni di mare e di vento diversi, perché il mare era ancora agitato e l'approdo difficile.

 Eilean Moor anticoCon grande sorpresa dell’'equipaggio nessuno dei guardiani del faro era in attesa, come di solito avveniva, per aiutare gli uomini che si sarebbero avvicinati su una piccola barca, così il comandante Harvie fece sparare un razzo e suonare la sirena, senza ottenere alcuna risposta, allora due dei componenti dell’'equipaggio, con molta difficoltà, riuscirono a scendere a terra con una barca, la tirarono in secco ed andarono al faro per vedere cosa fosse successo. Il cancello d’'ingresso e la porta del faro erano entrambi chiusi a chiave, e gli uomini dovettero entrare usando quelle di riserva, ma non c'’era nessuna traccia dei tre guardiani. L’orologio nella stanza principale era fermo, il fuoco nel camino era spento, i letti erano in ordine, sul tavolo della cucina un piatto di stufato era stato lasciato a metà e c’'era una sedia rovesciata sul pavimento, come se qualcuno fosse uscito molto in fretta. Nell’'armadio trovarono una sola cerata ed un solo paio di stivali, segno che due degli uomini dovevano essere usciti durante il maltempo vestiti in modo appropriato, ma il terzo ? Era plausibile che fosse uscito in maniche di camicia mentre infuriava una tempesta ? Il libro di servizio del faro era in ordine fino al 13 Dicembre, e le istruzioni per i giorni 14 e 15 erano state scritte su una lavagna da Ducat, il Capo Guardiano. Un appunto era stato cancellato. Risultava che la lanterna era stata accesa il 14 notte, poi era stata ripulita e messa in ordine per essere riaccesa il 15 sera, era persino stato aggiunto l'olio di balena nella lanterna, ma perché era rimasta spenta ? Tutto faceva pensare che gli uomini fossero scomparsi in qualche momento dopo l’'ora di pranzo e prima che calasse la sera del giorno 15 e che il faro fosse abbandonato da diversi giorni.

Eilean Moor 03 Furono fatte ricerche accurate per tutta l’'isola, in tutti gli anfratti, in tutti gli angoli possibili, ma non portarono ad alcun risultato, nessuna traccia dei guardiani. Una prima impressione faceva pensare che potesse essere scoppiata una lite, forse dovuta al prolungato isolamento, tutti sanno che può anche portare alla pazzia, ma se pure si fossero picchiati a sangue, come era possibile che fossero spariti tutti e tre?

 Alcuni uomini dell'’”Hesperus”, tra i quali un certo J. Moore, si fermarono provvisoriamente sull'isola per riattivare il faro che era stato spento dal 15 al 26 Dicembre, e, prima di poter pensare ad investigare a fondo, la Commissione Scozzese per i fari prese rapide misure per rimetterlo in funzione. Il 27 Dicembre inviò un telegramma al guardiano del faro di Tiumpan Head sull’isola di Lewis : "“Incidente alle Isola Flannan. Recatevi là a prendere servizio per circa due settimane. Incontrerete la nave postale “Stornway” domani notte. Jack, Assistente guardiano, arriverà con la nave. Recatevi insieme a Breascleit a raggiungere l’”'Hesperus”. Ferrie, di Stornway arriverà stanotte per prendere servizio a Tiumpan Head. Risposta per telegramma”". Questa la parte burocratica e la prima, urgente soluzione al problema di poter tenere acceso un faro così importante, ma benché in seguito venissero fatte altre accurate indagini, nessuno riuscì e venire a capo del mistero.

Dove erano finiti i tre uomini ? A tutti sembrava impossibile che tre esperti guardiani di un faro in una zona disagiata come quella fossero usciti insieme all’'aperto durante una tempesta, come risulta dal lungo rapporto scritto dal Sovrintendente Robert Muirhead l’8 Gennaio 1901. Quest'’uomo era andato sull'’isola il 29 Dicembre per investigare, e il suo dettagliato rapporto è conservato negli Archivi Nazionali di Scozia. Da questo risulta che ogni possibile ricerca era stata fatta sia all'’interno del faro che per tutta l’isola e che niente mancava. Tutta via qualche stranezza venne notata : vicino all’imbarcadero occidentale mancava un salvagente che si trovava alloggiato in quel posto per i casi di emergenza ed una gru che sovrastava le rocce era mezzo divelta, con le funi tutte aggrovigliate. La conclusione fu che, anche se il 15 Dicembre era stata una giornata di mare abbastanza calmo, un'’ondata anomala di particolare violenza e dimensioni doveva avere investito all'’improvviso quella zona, strappando il salvagente dalla sua posizione e danneggiando la gru e che gli uomini, forse accorsi per riparare i danni, dovevano essere stati travolti da quell’'ondata improvvisa e miseramente annegati o forse uno era caduto in mare e gli altri, nel tentativo di salvarlo, avevano subito la stessa sorte. Però le imbragature di sicurezza erano al loro posto, come era pensabile che tre uomini con la loro esperienza non avessero usato quegli attrezzi così utili per la salvezza ? Restava comunque il mistero della cerata non indossata.

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treguardiani2004Al Sovrintendente toccò anche il triste compito di avvisare personalmente le tre vedove. Nel frattempo era giunta voce che il faro era rimasto non visibile dalla terraferma, se non spento, per alcune notti, tra il 7 ed il 26 Dicembre, notte in cui fu riacceso dai marinai dell’”Hesperus” e questo creò un altro mistero. Il Sovrintendente aveva avuto una conversazione con il Capo Guardiano Ducat proprio il 7 Dicembre quando lo aveva accompagnato sull’isola e, in quell’occasione, era stato presa in considerazione l’'opportunità che i guardiani esponessero un segnale anche di giorno per comunicare che tutto andava bene. Tutto questo era comunque di poca utilità, perché le condizioni atmosferiche della zona non consentivano mai una buona visibilità del faro da terra. La relazione si conclude con parole di rincrescimento per la perdita di tre uomini così validi, selezionati personalmente dal Sovrintendente stesso per lavorare in un faro dell'’importanza di quello delle Isole Flannan e con la consapevolezza che con la sua visita a Eilean Mor, il 7 Dicembre, lui era stato l’ultima persona a stringere la mano a quegli uomini.

Queste le conclusioni ufficiali, anche se il caso non venne mai ufficialmente chiuso, seguite da anni di ulteriori indagini, che però non hanno mai portato a niente. Nel 1947 un giornalista, Valentine Dyal, si era recato sull'’isola per scrivere un ulteriore resoconto degli avvenimenti, e pensò di avere messo la parola fine ad anni di speculazioni. Si riferiva all’esperienza vissuta da uno scrittore scozzese, Ian Campbell, che aveva visitato Eilean Mor un po'’ di tempo prima e che aveva raccontato che mentre si trovava all'’imbarcadero occidentale in una giornata di mare assolutamente calmo e senza vento un’ondata improvvisa di oltre 20 metri si era improvvisamente alzata dal nulla, si era rovesciata sul molo, dopodichè tutto era tornato calmo e tranquillo Campbell si informò dai pescatori delle isole vicine e sentì raccontare storie di onde anomale che avevano inghiottito interi pescherecci, e che spesso di riversavano su quell’isola maledetta, ma di più non riuscì a sapere.

 Ma ci sono state altre ipotesi, mai suffragate da fatti. Voci cominciarono a correre, si diceva che la cucina era in realtà tutta in disordine, che il dramma doveva essersi svolto all’'interno del faro e non all’'esterno e che i tre uomini dovevano essersi uccisi a vicenda, finendo poi in mare in qualche modo. Poi si accesa anche la fantasia, qualcuno raccontò che un enorme serpente marino, chiamato “krake” avesse la sua dimora al di sotto di Eilean Mor e che fosse uscito dal mare per divorare i tre guardiani e che avesse distrutto la gru con un colpo di coda mentre tornava nella sua tana. Un’'altra storia raccontava che tre bellissime sirene si erano affacciate all’imbarcadero mentre gli uomini erano intenti al loro lavoro e che li avevano portati in fondo al mare con le loro lusinghe. Non è mancato anche chi ha vagliato la possibilità che fossero stati rapiti dagli alieni. Nel 1912 Wilfrid Gibson scrisse anche una poesia dedicata al fatto.

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 Nel 1971 il faro è stato automatizzato e ora è stato anche elettrificato per mezzo di cellule solari poste sul lato sud della torre, la modernità è arrivata anche in quello sperduto angolo di mare, così non c’è più nessun guardiano a prendersi cura della lanterna, ad accenderla ogni sera. Ed il mistero ? Non è mai stato risolto e qualunque sia stata la sorte di quei tre uomini ormai sono entrati nella storia e nella leggenda e nessuno li scorderà mai.

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FONTE: Logo mondodeifari

 

 

 

 

 

Il sommergibile Dandolo all'interno dell'Arsenale di Venezia

Lo sapevate che...

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All'interno dell'Arsenale di Venezia, nell'area di competenza della Marina Militare, si trova il sommergibile Enrico Dandolo.... Il Dandolo fu varato il 16 dicembre 1967, entrò in servizio il 22 giugno 1969 e fu dimesso dal servizio il 1° ottobre 1996.

Grazie all'amico Giovanni Angeloneper avercelo ricordato

 

Le gigantesche navi di Caligola. Distrutte dall'orrore della Seconda Guerra Mondiale

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Nelle tranquille acque del Lago di Nemi, vicino alla storica città di Roma,un tempo galleggiavano due straordinarie navi, simboli della grandiosità e dell'eccentricità dell'Imperatore Caligola.
Queste imponenti navi non erano semplici imbarcazioni, ma veri e propri palazzi galleggianti, adornate con templi, lussuosi appartamenti imperiali e ricchezze di ogni genere, come se volessero sfidare la stessa natura con la loro magnificenza.
Dopo l'assassinio di Caligola, avvenuto nel 41 d.C., queste mastodontiche navi, che avevano solcato le acque del Nemi come testimoni silenziosi del potere e della follia, scomparvero nelle profondità del lago, diventando più leggenda che realtà.
Le acque scure del lago custodivano il segreto di queste navi per secoli, fino al 1446, quando il Cardinale Prospero Colonna, mosso da un misto di curiosità e ambizione, intraprese i primi tentativi per svelarne i misteri.
Ma fu solo nel 1932, in un'epoca di grande fervore tecnologico e storico, che queste navi rivelarono finalmente i loro segreti. In un'impresa che sembrava sfidare le stesse leggi della natura, il lago fu prosciugato con l'uso di enormi pompe, rivelando non solo i resti delle navi, ma anche le loro ancore, testimoni silenziosi di un'epoca passata.
Le navi, lunghe diverse decine di metri - una di 71 metri per 20, l'altra di 75 per 29 - furono estratte dalle loro tombe acquatiche e trasferite in un museo costruito appositamente per ospitarle, come se fossero tornate in vita dopo secoli di oblio.
Ma il destino aveva in serbo un altro capitolo tragico per queste magnifiche navi.
Nel 1944, durante gli ultimi sussulti della Seconda Guerra Mondiale, le navi furono distrutte. Le fiamme divorarono ciò che era sopravvissuto per quasi duemila anni, lasciando dietro solo interrogativi e speculazioni.
Non si sa se fu un atto dei tedeschi in ritirata, un colpo dei bombardamenti alleati o un evento accidentale. Ma così, in un ironico gioco del destino, queste navi, simboli di potenza e follia, tornarono ad essere ciò che erano state per secoli: un ricordo, una leggenda, un mistero mai completamente svelato.
 
Trovate un dettagliato approfondimento nel numero 222 di Archeologia Viva
 
FONTE: WEB

Palazzo Marina

L'Opera è tra le più significative dell'architetto Giulio Magni (Velletri 1859 - Roma 1930), nipote del Valadier, collaboratore di Giuseppe Sacconi alla realizzazione del Vittoriano.

header palazzo marina

 

   

Palazzo marina Scala ingressoIl progetto, iniziato nel 1912 e inaugurato il 26 ottobre 1928, attinge al repertorio Liberty romano, con decisa impronta di "michelangiolismo eclettico" con assonanze proprie del "barocchetto".

Diceva Michele Vocino nel giorno dell'Inaugurazione: "La Marina, bisogna pur dirlo a suo vanto, dovunque pone piede, a bordo o a terra, sa subito lasciare, come può, una certa impronta di signorilità e di eleganza…". 

 
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FONTE: Logo Notiziario online Abb

Ponte girevole simbolo di Taranto: ecco la storia che pochi conoscono

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Costruito nel 1887, fu una delle opere ingegneristiche più avveniristiche della Città dei Due Mari, declamata dal celebre Gabriele D’Annunzio.

Il Ponte Girevole di Taranto unisce la zona nuova della città (borgo umbertino) a quello che oggi chiamiamo Isola (o Isola Madre).

Pochi sanno però che un tempo l’Isola non esisteva e che è stata realizzata artificialmente dall’uomo all’epoca delle invasioni saracene.
Infatti, a quel tempo, i tarantini scavarono un doppio canale nel fossato del Castello Aragonese che disgiunse l’estremità della penisola dalla terraferma proprio per difendersi dai nemici.

Quello stesso fossato fu poi ampliato nel 1481 sotto Federico I D’Aragona ai fini di una strategica difesa nei confronti dei Turchi che, assediata Otranto, minacciavano di assalire anche Taranto, nonostante le possenti fortificazioni costituite da torri e cinta di mura strapiombanti sul mare.

Solo nel 1882 iniziarono gli studi per rendere navigabile quel canale fra le rade di Mar Grande e Mar Piccolo al fine di permettere l’accesso alle navi da e per l’Arsenale Militare Marittimo in Mar Piccolo.

Il vecchio ponte in legno fu demolito nel 1885.
La costruzione del primo Ponte Girevole in ferro fu inaugurata il 23 maggio 1887.

Si può dire che la storia del Ponte Girevole cominci nel 1900, allorquando l’Impresa Industriale Italiana di Napoli, per conto del Ministero Marina e su progetto dell’Ing. Giuseppe Messina che ne diresse i lavori, fu originariamente costituito sulla base di un grande arco a sesto ribassato in legno e metallo, diviso in due braccia che si riunivano nella sezione mediana (chiave dell’arco) e giravano indipendentemente l’una dall’altra attorno ad un perno verticale posto su uno spallone corrispondente.

Il funzionamento avveniva grazie a turbine idrauliche alimentate da un grande serbatoio posto sul castello aragonese attiguo, capace di 600 metri cubici di acqua che in caduta avviavano le due braccia del ponte.

Il suo colore era azzurro.

Durante i due conflitti mondiali la struttura rimase sempre e costantemente aperta per facilitare le operazioni militari e per salvaguardarla da eventuali bombardamenti aerei, creando però non pochi disagi alla popolazione civile.

Scartata per ragioni economiche l’ ideazione di un tunnel sotto il canale, nel 18 agosto 1957 iniziò la sua demolizione e la ricostruzione sulla base di un progetto realizzato dalla Società Nazionale Officine di Savigliano, che riguardava gli organi meccanici ed i comandi elettrici.

Fu introdotto un funzionamento di tipo elettrico, ma rimasero inalterati i principi ingegneristici della Direzione del Genio Militare per la Marina.

Il nuovo Ponte Girevole fu inaugurato dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi il 9 marzo 1958.

La struttura architettonica del nuovo Ponte Girevole ricalca perfettamente quella del vecchio, misurando attualmente 90 metri di lunghezza, 9 metri di larghezza e pesando circa 1600 tonnellate.

Le manovre per l’apertura e chiusura sono condotte dalla Marina Militare (a cui spetta anche la manutenzione dello stesso) da due cabine di pilotaggio situate nei pressi di ciascun semiponte, mentre quattro operai controllano il corretto funzionamento dei dispositivi automatici, pronti ad intervenire in caso di avaria degli stessi.

Il Ponte Girevole è stato anche declamato nei versi del poeta Gabriele D’Annunzio nelle sue Laudi:

“Taranto, sol per àncore ed ormeggi

Assicurar nel ben difeso specchio,

di tanta fresca porpora rosseggi?

A che, fra San Cataldo e il tuo vecchio

Muro che sa Bisanzio ed Aragona,

che sa Svezia ed Angiò, tendi l’orecchio?

Non balena sul Mar Grande né tuona.

Ma sul ferrato cardine il tuo Ponte

Gira e del ferro il tuo Canal rintrona.

Passan così le tue belle navi pronte

Per entrar nella darsena sicura,

volta la poppa al jonico orizzonte”.

( Gabriele D’Annunzio, Laudi del Cielo, del Mare della Terra e degli Eroi, Libro IV)

Mar Piccolo Castello Aragonese con Ponte Girevole

Mar Piccolo – Castello Aragonese con Ponte Girevole

FONTE: logo Made in Taranto

Taranto: Il ponte girevole: storia e curiosità

ponte girevole

Il Ponte Girevole rappresenta sicuramente il simbolo più conosciuto della città di Taranto. L’associazione Taranto-Ponte Girevole è praticamente automatica, un po’ come Roma-Colosseo, Parigi-Torre Eiffel, Londra-Big Ben, Amsterdam… vabbè, avete capito.

Vediamo come funziona il Ponte Girevole e ripercorriamo brevemente (sì, brevemente) le tappe della sua costruzione.

Innanzitutto, è costituito da un’imponente struttura in metallo che scavalca il canale navigabile collegando l’Isola della Città Vecchia con il Borgo Nuovo.
Le acque che il ponte sovrasta vengono solcate quotidianamente dalle piccole imbarcazioni dei pescatori tarantini, i cui volti sono abbronzati tutti giorni dell’anno.

il ponte girevole

Anticamente esisteva un vero e proprio istmo a unire le due sponde. Questo tratto di terra congiungeva l’acropoli della città (oggi “Città Vecchia”) con il resto dell’abitato, situato nell’attuale Borgo Nuovo, ma fu poi rimosso alla fine del ‘400 per proteggere il Castello Aragonese dall’attacco dei nemici. Più precisamente si trattava dei Turchi, i quali (dicono gli storici più rigorosi e preparati) erano tipi piuttosto vivaci…

L’apertura del Ponte Girevole

Assistere all’apertura del Ponte Girevole è davvero uno spettacolo singolare, tanto più considerando che avviene solo per consentire il passaggio di navi di grandi dimensioni nel Mar Piccoloo da questo verso il Mar Grande.

E’ prevista un’apertura straordinaria anche nel mese di maggio per il transito della suggestiva processione marittima dedicata al Santo Patrono di Taranto, San Cataldo.

Nell’ottobre 1989 i suoi bracci si sono invece schiusi al cospetto di Papa Giovanni Paolo II, che lasciò una traccia del suo passaggio in barca nei cuori di tutti i cittadini presenti all’evento.

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Sì, ok, ma come funziona l’apertura del ponte? Provo a spiegarla come se non capissi nulla di ingegneria. Il che corrisponde al vero.

Il Ponte Girevole è diviso in due metà. L’azione degli ingranaggi le separa l’una dall’altra e le fa ruotare su un lato in modo alternato: dapprima si sposta quella più vicina all’Isola, poi quella collegata al borgo nuovo.

A conclusione della manovra, che dura circa tre minuti, le due metà del Ponte Girevole volgono verso il Mar Piccolo e sono spalancate come le braccia di un parente che ti dà il benvenuto in casa. Il borgo nuovo viene temporaneamente separato dal borgo antico e la città si spezza come un biscotto.

ponte girevole taranto

La nave può finalmente passare e l’equipaggio si raduna in coperta per ricambiare con enfasi il saluto della gente affacciata sul Lungomare.

Questo spettacolo non ha lasciato indifferente nemmeno Gabriele D’annunzio, che nelle sue “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi” dedica alcuni versi al capolavoro di ingegneria di Taranto:

Passano così le belle navi pronte per entrare nella darsena sicura, volta la poppa al jonico orizzonte.
Gabriele d’Annunzio

Il primo Ponte Girevole: come era fatto?

Qualche dato serioso. Pare che il primo Ponte Girevole di Taranto risalga alla fine del 1800 e che sia stato realizzato in legno da una ditta di ingegneri di Napoli. Le turbine che ne garantivano il funzionamento erano azionate dalla caduta dell’acqua in una cisterna situata nel Castello Aragonese.

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Tra il 1956 e il 1958 il ponte in legno venne sostituito con quello attuale in metallo, sostanzialmente analogo al precedente ma con funzionamento elettrico. E’ inoltre più largo di alcuni metri.

In passato, il Ponte Girevole rappresentava l’unica via di comunicazione fra l’Isola della Città Vecchia e la terraferma, ma dal 1977 è affiancato in questo compito dal Ponte Punta Penna, detto anche Ponte Pizzone, che venne costruito a cavallo del restringimento naturale che crea i due seni del Mar Piccolo.

Curiosità (= frivolezze) sul Ponte Girevole

Avete mai letto il libro o visto il film “Ho voglia di te” di Federico Moccia? No? Questo depone a vostro favore.
Stando a quello che mi ha detto un amico di un amico (ok, ho letto il libro), è la storia di due ragazzi romani che si promettono eterno amore sul Ponte Milvio legando simbolicamente un lucchetto alla catena di un lampione e gettandone via la chiave nelle acque del Tevere.

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Perché vi racconto questo? Perché gli innamorati della città bimare hanno trovato nel Ponte Girevole un analogo del Ponte Milvio e hanno attaccato alla sua ringhiera i famosi lucchetti dell’amore, lanciandone la chiave nel canale navigabile.
La maggior parte di essi sono stati rimossi, altri restano coraggiosamente aggrappati alla ringhiera a suggellare qualche ardore giovanile. Nonostante le numerose immersioni nel canale, le chiavi non sono mai state recuperate (battuta!).

FONTE: logo TM1


"Compie 60 anni il ponte girevole di Taranto, uno dei simboli della città. Si tratta di una struttura metallica lunga quasi 90 metri e larga più di 9, con due corsie stradali, che collega l'isola della Città vecchia al Borgo Umbertino. Per festeggiare la ricorrenza, la Marina Militare ha organizzato una mostra fotografica e l’apertura straordinaria del Ponte Girevole col transito della nave Andrea Doria in ingresso e in uscita dal bacino di Mar Piccolo. Al passaggio della nave da guerra, salutato dallo sparo di alcune salve dal Castello Aragonese, addobbato con bandiere e striscioni tricolori, hanno assistito migliaia di persone. L’evento è stato accompagnato dalla Fanfara della Marina militare. Il ponte esiste in realtà fin dal maggio del 1887, voluto all’epoca dall’ammiraglio Ferdinando Acton. L’attuale struttura, invece, fu inaugurata nel 1958, Anche Gabriele D’Annunzio dedicò alcuni versi al ponte girevole di Taranto: “Non balena sul Mar Grande né tuona. Ma sul ferrato cardine il tuo Ponte gira e del ferro il tuo Canal rintrona" (Vittorio Ricapito)"

Vai al video della cerimonia

Alcune foto dell'amico Luigi Cotrufo

The Italian Chapel - La vera storia della chiesetta italiana alle Orcadi

L'altro giorno ho ricevuto una mail da un caro amico, che mi parlava della sua intenzione di creare un modello della "Chiesetta Italiana delle Orcadi". Sapendo della sua bravura, nel creare modellini in scala di chiese e monumenti, oltre che bravissimo fotografo di relitti spiaggiati, mi ha incuriosito ed ho effettuato delle ricerche sull'argomento.

Ecco in sintesi cosa ho "scoperto" ( ringrazio Ilaria Battaini che con il suo sito mi ha aperto gli occhi su un fatto ai più sconosciuto, e vi invito a fargli una visitina)

Intanto la mail introduttiva:

"Alcuni di voi sanno che, date le dimissioni dalla Carriera diplomatica a fine 2012, ho ripreso un’antica passione: la fotografia di relitti spiaggiati sulle coste del mondo. A causa del Covid, non potendo viaggiare, costruisco modelli architettonici di chiese antiche (quattro modelli nel 2020). Non ho smesso, peraltro, di fare mostre personali in Italia e all’estero, esponendo foto e modelli architettonici. Altre sono in programma (Vancouver, Leeds, San Benedetto del Tronto, Bologna, ecc.). Costruisco attualmente il modello in scala 1:50 di San Miniato al Monte (Firenze, 1013): è lungo 110 cm. Ci lavoro da sette settimane, ne mancano tre.

Appena avrò finito il modello di San Miniato, intendo costruire il modello della cosiddetta Cappella Italiana delle Isole Orcadi (Scozia). La mia intenzione ha una valenza particolare, in tempo di pandemia.

Mi spiego: nel 1943, circa 500 prigionieri di guerra italiani (fatti prigionieri in Nord Africa dagli inglesi), furono internati nelle Isole Orcadi. Grazie alla benevolenza dei guardiani del campo, costruirono una chiesa (lunga 23 metri), con la facciata in muratura e la navata costituita da due baracche Nissen (metalliche, a forma di semi cerchio). Essa è ben conservata, viene utilizzata, il parroco locale vi officia, matrimoni vi vengono celebrati, ed è stata dichiarata monumento nazionale in Scozia. Non è l’unico esempio di italiani all’estero (ad esempio, durante la costruzione di Grandi Opere, soprattutto in Africa) che lasciarono chiese e cappelle. Ma la Cappella delle Orcadi è particolare: è stata costruita in prigionia, come del resto alcune altre in Gran Bretagna, in Africa e in USA.

Il principale attore di questa straordinaria vicenda è uno dei reclusi, un cittadino di Moena, che nella vita civile dipingeva immagini religiose, e che convinse gli inglesi ad aiutarlo. Si chiamava Domenico Chiocchetti. Numerosi altri suoi commilitoni parteciparono all’impresa. E’ morto nel 1999. Sono in contatto con i suoi figli.

Dal punto di vista architettonico la chiesa non ha particolare interesse. Dal punto di vista emozionale la chiesa ha secondo me un valore immenso, soprattutto in tempi di Covid. Quegli uomini trovarono la forza di reagire attivamente, senza parole o promesse vane: portarono a termine la loro iniziativa, simbolo di speranza, ignari di ciò che il futuro avrebbe riservato al mondo, senza contatti con le rispettive famiglie. Essi (i loro discendenti, ormai, essendo trascorso tanto tempo) sono rimasti amici della popolazione locale, e persino dei guardiani del Campo 60. L’Inghilterra ha dato in quell’occasione un magnifico esempio di civiltà, umanità e tolleranza. La Cappella delle Orcadi lo dimostra. (E’ uno dei motivi per cui sono contento di avere un nipotino cittadino inglese). La Cappella ha fatto diventare amici dei nemici.

Questo è il link https://www.youtube.com/watch?v=MutoGduwmh8) ad una recente intervista via Zoom del Circolo italiano di Aberdeen all’autore di un libro sull’edificio, Philip Paris; il libro è stato tradotto in italiano (La chiesetta della pace, Curcu & Genovese, 2016). Il locale Comitato per la Preservazione della Cappella italiana è attivo. Wikipedia contiene un lungo articolo sulla Cappella. I media italiani non hanno dedicato molto interesse alla questione.

Il modello della Cappella delle Orcadi - anche se l’originale non è opera di Federico II, Alberti, Bramante, Bernini, e/o di altri grandi architetti, artigiani, maestri d’ascia - è degno di figurare accanto ad altri miei modelli: San Miniato al Monte, Cappella Rucellai, Divina Sapienza, Santa Maria della Consolazione, Castel del Monte, San Pietro, Notre Dame, tre chiese russe di 300 anni fa, una chiesa norvegese di 800 anni fa, una chiesa rumena di 300 anni fa, San Basilio, una sinagoga, una moschea, la chiesa memoriale di Sant’Alessandro. La Cappella mette a contatto con una testimonianza moderna di fede, speranza e fiducia, non diversamente da ciò che si prova di fronte ad una cattedrale o a una basilica.

L’Italia ha scoperto alcuni mesi fa il senso della parola “resilienza”. L’Uomo la conosce da millenni. I militari italiani prigionieri alle Orcadi forse non la conoscevano, ma hanno dimostrato di possedere questa caratteristica in modo eccelso; come molti, oggi, d’altronde. Il mio modello rende loro omaggio, come gli altri miei modelli di edifici di culto rendono omaggio ai loro costruttori ed ai fedeli che vi si sono raccolti nei secoli.

Il rapporto fra la fotografia di relitti spiaggiati (che mi appassiona da 52 anni) e la costruzione di modelli architettonici di edifici di culto (che pratico da 25 anni), è semplice: gli uomini affidano i loro corpi alle navi e le loro anime alle chiese. La centralità dell’Uomo è ovvia in entrambi i casi. Non so se ciò sia Arte ma è un modo di omaggiare i nostri antenati. Nel caso dei relitti: architetti, costruttori, manutentori, marinai ignoti, ma anche emigranti, soccorritori in mare, sommozzatori, migranti. Quanto ai modelli: architetti, capomastri, manovali, maestri d’ascia, scultori, pittori…

Sono stato invitato dall’antichissima Accademia delle Arti del Disegno ad esporre i miei diciotto modelli architettonici a Firenze. E’ per me un grande onore. La mostra dovrebbe svolgersi nel corso del 2021. Questa è la didascalia che apporrò sotto il modello della Cappella Italiana delle Orcadi, “Prigionieri di guerra, prigionieri del Covid."

www.stefanobenazzo.it

Ed ecco quello che potete trovare sul sito di Ilaria:

“THE ITALIAN CHAPEL”

LA VERA STORIA DELLA CHIESETTA ITALIANA ALLE ORCADI

Chiesetta

Un miracolo italiano. È raro, ma succede. E se capita a chilometri e chilometri di distanza dalla madrepatria, in un periodo buio e maledetto come quello del secondo conflitto mondiale, sul suolo spoglio di un’isoletta remota dove tempeste atlantiche e inquietudini del Mare del Nord si incontrano e si scontrano ogni giorno, allora sì che si tratta di una storia straordinaria, di quelle che più ci pensi e più hanno dell’incredibile; di quelle che toccano il cuore e accendono speranze per questa Italia così malmessa e per un’intera umanità disgraziata.
Nella mia vita – fatta, come quella dei più, di una routine che calza stretta, ma tutto sommato tranquilla ed “agiata” – cosa sia l’inferno di una guerra è difficile capirlo fino in fondo, ma posso riuscire a immaginarlo.

Partenze a tempo indeterminato; viaggi di sola andata verso un fronte sconosciuto, dove combattere uomini mai visti prima, con indosso una divisa diversa dalla tua. Separazione, paura, incertezza, solitudine, impossibilità di comunicare con la famiglia. Una quotidianità in cui il libero arbitrio non trova spazio; scandita da ordini superiori, scoppi, agguati, imboscate, lotta per la sopravvivenza, sangue, morte, uomini a terra feriti oppure fatti prigionieri. Come le migliaia di soldati italiani catturati a più riprese fra il 1940 e il 1941 dagli inglesi in Libia. Sognavano di tornare nelle proprie case, dalle loro mogli e fidanzate, dai figli lasciati ancora in fasce o prima ancora che venissero alla luce. E invece CHURCHILL pensò bene di spedirli in capo al mondo, su un’isoletta minuscola e disabitata, persa ai confini d’Europa, fra nuvole basse e gelide nebbie nordiche; niente più che un francobollo di terra, pianeggiante e spoglia, senza riparo dal vento, senza alberi, né acqua potabile, né uomini; lontanissima – e non solo geograficamente – dalle miti brezze mediterranee e dall’Italia. Nessuno di loro, prima di allora, si era mai sognato che un giorno la vita lo avrebbe portato in un campo di prigionia tanto sperduto, circondato da un freddo e ostile nulla.

Prigionieri italiani

I prigionieri italiani del CAMPO 60, a LAMB HOLM

Ma perché un capo di stato dotato di grande senso pratico come CHURCHILL si sobbarcò l’onere di trasportare quei soldati a una distanza così grande dal luogo della loro cattura? Perché mai darsi la pena di portarli lassù, praticamente ai margini del Regno Unito?
Per trovare la risposta occorre fare un passo indietro e tornare all’una e venti del mattino del 14 ottobre 1939 quando, a sole sei settimane dall’inizio della guerra, il sottomarino tedesco U47, guidato dall’ammiraglio DÖNITZ, dopo essersi infiltrato chissà come nella grande baia di SCAPA FLOW, sfidando le maree, le doppie correnti marine e le misure difensive a protezione di quell’immensa distesa d’acqua salata, aveva osato silurare la mole colossale della nave ammiraglia HMS ROYAL OAK provocandone l’affondamento in 13 minuti netti e la perdita di gran parte dell’equipaggio.
SCAPA FLOW, ovvero la più importante base navale britannica già durante la Prima Guerra Mondiale e poi di nuovo nella Seconda; un vasto porto naturale circondato e riparato da tutta una corona di isole, separate fra loro da corridoi d’acqua da cui accedere rapidamente tanto all’Atlantico quanto al Mare del Nord.
Ora, però quel porto non sembrava più così sicuro; le sue acque parevano improvvisamente vulnerabili. In qualche modo bisognava impedire che un simile affronto si ripetesse, bloccando in modo totale e definitivo l’accesso a SCAPA FLOW.

Dinamica Sottomarino tedesco

La dinamica del raid del sottomarino tedesco U47 a SCAPA FLOW

Baia Scapaflow

Un nebbioso scorcio della baia di SCAPA FLOW vista dalla Mainland (isola principale)

CHURCHILL in persona arrivò sul posto per valutare se gli ingressi a est della baia – i cosiddetti “SOUNDS” (stretti) che separavano le varie isole – potessero essere chiusi una volta per tutte… proprio da lì si sospettava fosse entrato quel dannato sottomarino tedesco! E così quella sua idea, apparentemente folle e difficile da realizzare, diede il via all’opera ingegneristica più ambiziosa della Seconda Guerra Mondiale. Le BARRIERE da costruire erano ben quattro e ciò comportava un immane dispiegamento di mezzi e di uomini. Ecco perché c’era urgente bisogno di manodopera a basso costo alle Orcadi… preziosa “forza lavoro”, ecco cos’erano, agli occhi di CHURCHILL, quei prigionieri italiani; braccia da affiancare a quelle degli operai della ditta appaltatrice specializzata, la BALFOUR-BEATTY, già presente in loco.

Stipati come sardine nella stiva di una nave per il trasporto merci, dal Nordafrica gli italiani giunsero a Liverpool dopo un viaggio estenuante durato 3 mesi; poi, con il treno, su fino a Edimburgo, dove restarono “parcheggiati” per diverse settimane in un edificio abbandonato, prima di essere trasferiti ad Aberdeen e da lì finalmente imbarcati per le ORCADI.
Due erano i campi di prigionia nel frattempo allestiti lassù per accoglierli: il CAMPO 34 sull’isola di BURRAY e il CAMPO 60 sulla minuscola LAMB HOLM. È proprio qui, fra le 13 BARACCHE NISSEN di grigia lamiera ondulata dalla tipica forma a botte, sostenute da puntelli d’acciaio sul suolo fangoso di quell’isoletta disabitata, che negli anni successivi sarebbe sorta “la chiesetta degli italiani”, quella che oggi viene preservata come “monumento nazionale di grado A”… di gran lunga il più amato dagli stessi orcadiani!

La vita al campo era assai dura e il clima crudele di quei primi mesi invernali rendeva il lavoro, di per sé pesante e pericoloso, ancora più difficile. La giornata iniziava presto, nel buio profondo delle gelide mattine nordiche e vedeva la maggior parte degli uomini assegnati alla cava di LAMB HOLM, con il compito di sottrarre materiale roccioso a pareti ostili che, come per dispetto, opponevano agli sforzi di quegli uomini la massima resistenza. Ma non era finita lì. C’era poi da spezzarsi la schiena e da scorticarsi le mani per caricare quei grossi frammenti di roccia sui camion che li avrebbero trasportati laddove si provvedeva a frantumarli, e poi, a farne blocchi di cemento da gettare, mediante manovre azzardate e rischiose, su un fondo marino che pareva non saziarsi mai. Al campo il cibo era sì povero, ma ce n’era ogni giorno per tutti. Quello che mancava era piuttosto un angolo dove elevarsi dalle miserie della guerra; dimenticare la fatica e quell’odioso senso di solitudine; uno spazio dove ritrovare finalmente un attimo di pace, una parentesi di bellezza, un alito di calore, il contatto rincuorante con il cielo.

D’altronde comunicare con la controparte non era cosa semplice… nessuna delle guardie parlava italiano ed era un attimo che l’inglese maccheronico dei prigionieri creasse un muro d’incomprensione e fraintendimenti! Trovare un punto d’incontro sembrava impossibile e così, in quelle giornate sfiancanti, fredde e interminabili, lo spirito di ribellione cresceva.
Il risultato? Uno sciopero italiano alle Orcadi! Accadde ad un mese circa dall’arrivo a LAMB HOLM, con tanto di esposto formale al MAGGIORE YATES, l’ufficiale assegnato alla direzione dei campi di prigionia 60 e 34. L’argomentazione addotta? Costruire barriere di cemento a protezione delle flotta britannica era un “lavoro di natura bellica” e pertanto andava contro ai dettami della convenzione di Ginevra. Il polverone sollevato arrivò lontano, ma CHURCHILL se la cavò alla grande replicando che in realtà non si trattava di “BARRIERE”, bensì di “STRADE RIALZATE” già progettate prima della guerra per collegare le isolette del sud con la MAINLAND (l’isola principale) a beneficio degli abitanti. Il malcontento e i tentativi di sciopero continuarono tuttavia anche nei mesi successivi, ma poi finalmente la primavera arrivò e le condizioni di vita e gli umori migliorarono notevolmente. La bella stagione di per sé aiuta assai… il clima più dolce, le giornate più lunghe e più miti, il meraviglioso risveglio della splendida natura di quelle isole… cui si aggiunsero alcune concessioni fatte ai prigionieri, come turni di lavoro relativamente più leggeri e tempo libero in più da dedicare a varie attività e interessi personali. Fu permesso loro di costruire passerelle di cemento per collegare le baracche e di creare aiuole e piccoli giardini. Un tacito accordo consentiva inoltre di prelevare “prezioso” materiale, come assi di legno e pezzi di ferro, dalle navi-blocco che stazionavano presso gli ingressi a SCAPA FLOW; materiale che, fra i vari utilizzi, sarebbe servito più in là nel tempo per la costruzione della cappella.

Strada collegamento

Ecco la strada rialzata che corre sulla CHURCHILL BARRIER n.3, che collega l’isoletta di GLIMS HOLM a BURRAY

Barriera

Ecco come appare dalla ITALIAN CHAPEL la BARRIERA n.1, che corre fra la
MAINLAND (isola principale) e l’isolette di LAMB HOLM

Fra i prigionieri del CAMPO 60 c’era anche lui, DOMENICO CHIOCCHETTI, arrivato alle ORCADI poco più che trentenne; un uomo smilzo e tranquillo che, nonostante la guerra e i suoi orrori, nonostante la prigionia e le difficoltà quotidiane, mai rinunciò alla luce della propria passione: quella per l’arte. Ultimo di dodici figli, veniva da Moena – oggi rinomata località turistica della Val di Fassa – e aveva sempre voluto fare l’artista. Soldi per frequentare la scuola d’arte non ce n’erano, ma lui non smise mai di osservarne ogni forma e scintilla intorno a sé – che fossero decori, dipinti o sculture – e di esercitare il suo talento naturale, dipingendo statue sacre ed affreschi nelle chiese locali. A 15 anni ebbe l’occasione di partire per il mondo… così pareva all’epoca spostarsi da Moena a Ortisei, località della Val Gardena rinomata per la lavorazione artistica del legno. E fu proprio grazie alla sua arte che al CAMPO 60 non dovette mai patire il freddo né piegare la schiena lavorando alle barriere; operò invece al coperto, realizzando ritratti, manifesti e decori vari per il campo, incluse le scenografie per il teatrino dei prigionieri, allestito nella sala mensa. Finché nell’estate del ’42, utilizzando filo spinato e cemento, creò la sua prima opera d’arte “ufficiale”, la statua di SAN GIORGIO E IL DRAGO, a simboleggiare il trionfo della pace e la sconfitta di tutte le guerre; ancora oggi collocata a pochi metri di distanza dalla chiesetta.

Domenoco Chiocchetti

Domenico Chiocchetti durante la prigionia a LAMB HOLM

Statua Sangiorgio

La statua di SAN GIORGIO e IL DRAGO

Fu poi all’inizio del 1943, con l’arrivo a LAMB HOLM di Padre Gioacchino Giacobazzi, cappellano militare a sua volta catturato in Nordafrica nel ’41 e “rimbalzato” fra più campi di prigionia prima del suo approdo alle Orcadi, che il bisogno sempre più forte di creare un luogo dove pregare e nutrire lo spirito, si trasformò in progetto vero e proprio. Padre Giacomo, così da tutti veniva chiamato, ne parlò ai “suoi uomini” che accolsero l’idea con entusiasmo, al punto che presero subito a trasformare i materiali di fortuna in loro possesso in oggetti per l’allestimento della cappella… chi, fra loro, era artigiano esperto non tardò a forgiare tanto di croce, candelieri, lampade e lucernari in ferro battuto (anche a partire da semplici scatolette di carne!) ancora oggi visibili all’interno della chiesetta. Il MAGGIORE BUCKLAND in persona, nuovo comandante in carica e uomo di gran cuore, appoggiò di buon grado l’iniziativa, aiutò i prigionieri a reperire i materiali necessari e acconsentì all’utilizzo di due baracche NISSEN già presenti sul campo, che vennero svuotate e trasferite nel punto prescelto per la creazione della chiesa. Il cemento, gentilmente fornito dalla BALFOUR BEATTY, non mancava davvero e squadre di italiani lavorarono sodo per unire le baracche in un unico edificio. Per ancorarlo saldamente al terreno, vennero gettate vere e proprie fondamenta; poi si procedette a rivestire internamente le pareti di lamiera con del legno, per evitare che l’umidità potesse arrugginirle. Per ricoprire il legno, al posto dell’intonaco vennero utilizzati pannelli di gesso che lo stesso Domenico – con l’aiuto  dell’amico GIOVANNI PENNISI, “l’artista” del campo 34, venuto appositamente in trasferta – decorò mirabilmente, in modo da creare l’effetto di una vera navata di mattoni.

Visitatori

Visitatori nella navata

Mentre in Italia – dopo la deposizione di Mussolini e la dichiarazione di guerra alla Germania da parte del governo Badoglio – il caos regnava sovrano, in Europa gli alleati si interrogavano sul nuovo ruolo degli italiani, combattuti come avversari fino al giorno prima. Nel frattempo, al CAMPO 60 la vita continuava più o meno come sempre, con la differenza che i prigionieri godevano ora di maggior libertà di movimento – stringevano amicizie con la gente del posto; qualche volta nascevano amori – mentre la chiesetta prendeva forma, arricchendosi ogni giorno di quel particolare in più. È nel presbiterio che Domenico diede il meglio di sé. Con dell’argilla, un calco in gesso e del cemento produsse un altare, che venne dipinto di bianco e collocato su un piano rialzato. Ma il vero capolavoro, quello che tuttora cattura lo sguardo di chiunque metta piede in quella cappella, è l’affresco realizzato sopra l’altare – la Madonna con il Bambino – ispirato al dipinto del pittore italiano Nicolò Barabino, di cui Domenico conservava gelosamente una copia, sotto forma di immaginetta sacra ricevuta dalla madre prima di partire da Moena. Il suo spirito artistico gli impose però di aggiungere molti elementi originali, fra cui sei angeli uniti fra loro da una pergamena con la scritta “Regina pacis ora pro nobis” (Regina della pace prega per noi) di cui due a figura intera: quello a sinistra che regge lo stemma araldico di Moena (un uomo che spinge la sua barca dalla tempesta verso il mare calmo) e l’altro che ripone la spada nel fodero. Sulle finestre ai lati dell’altare ritrasse invece le figure di San Francesco d’Assisi e di Caterina da Siena, entrambi rivolti verso la Madonna e il bambino e “incorniciati” da decori ad effetto “trompe l’oeil” che danno l’impressione di vere e proprie nicchie scavate nella parete, di fatto assolutamente piana. Aggiunse inoltre angeli musicanti ai lati del presbiterio e altri decori per creare il senso della profondità e l’illusione del vetro piombato; mentre al centro del soffitto dipinse una colomba bianca circondata da un bel cielo stellato e, più ai lati, i simboli dei quattro evangelisti (un giovane alato, un toro, un leone e un’aquila).

Altare

Punto focale

Il punto focale della cappella, il bellissimo affresco
della MADONNA CON IL BAMBINO

Un ulteriore tocco artistico – e che tocco!!! – venne dato da GIUSEPPE PALUMBI, originario di Teramo e mago del ferro battuto, un’arte che aveva appreso (insieme alla lingua inglese) negli anni trascorsi in qualità di migrante a Philadelphia, a quell’epoca centro di primaria importanza per la produzione del ferro. L’idea era quella di creare un divisorio fra il presbiterio, così riccamente decorato e la più spoglia navata; quindi, su disegno di Domenico Chiocchetti, Giuseppe forgiò volute, foglie e motivi floreali – lavorando duramente per ore, giorni, mesi – fino a formare una grande cancellata di straordinaria fattura. A cercare bene bene (e solo a porte aperte), ancora oggi, si può scorgere sul pavimento un fermaporta di ferro battuto a forma di cuore; il simbolo d’amore che Giuseppe dedicò alla misteriosa donna orcadiana di cui si era innamorato. Dopo la fine della guerra egli tornò dalla moglie, in Italia, ma continuò a pensare a quelle isole ventose e semi deserte dove aveva lasciato il suo cuore e quel suo capolavoro… isole lontane dove non sarebbe mai più ritornato.

Cancellata ferro

La splendida cancellata in ferro battuto realizzata da GIUSEPPE PALUMBI

A questo punto la chiesetta era praticamente completa… ma tanto bello e prezioso era l’interno, quanto l’esterno restava solo una grigia e tristissima baracca Nissen! La nuova sfida era creare una facciata degna di tale nome e che fosse all’altezza di tutto ciò che stava dentro. Il compito fu affidato al tagliapietre BUTTAPASTA, stavolta su disegno di GIOVANNI PENNISI. Vennero aperte due finestre ai lati dell’ingresso e aggiunti due contrafforti per irrobustire la struttura; alcune finiture decorative, come “merlature” ed elementi floreali, contribuirono a creare un effetto d’insieme davvero niente male. Sopra la porta venne collocato un timpano con un bassorilievo della testa di Cristo, che lo stesso Pennisi creò utilizzando del semplice cemento. Molte parti vennero dipinte di rosso, perché risaltassero sul bianco del resto della facciata e fu anche aggiunto un piccolo campanile, sebbene la campana arrivò soltanto poco prima che gli italiani lasciassero per sempre il campo.

Cappella1

Cappella2

Cappella3

IL MIRACOLO ERA DUNQUE COMPIUTO. Ed ora che la guerra volgeva al termine, ora che quel campo di prigionia aveva i giorni contati e già si pensava a smantellarlo, quella chiesetta restava lì a dimostrare di cosa sia capace la volontà umana e di quanto vitale sia il suo spirito creativo.
Gli italiani lasciarono le Orcadi nel settembre del 1944 e lo fecero con la tristezza di chi quella terra, giorno dopo giorno, aveva imparato ad amarla; con l’amaro in bocca di chi, pur tornando ad essere libero, saluta per sempre i compagni e gli amici incontrati sul posto; ma anche con l’orgoglio di chi poteva dire “io c’ero; ero lì” a trasformare tonnellate di cemento e di roccia in quell’opera grandiosa che sono le “CHURCHILL BARRIERS”.
Chiocchetti fu l’unico a fermarsi: incredibile… voleva finire l’acquasantiera e ottenne il permesso di restare per altri dieci giorni! Circondato da soldati britannici intenti a rimuovere oggetti e a stiparli sui camion che li avrebbero portati via, Domenico continuò a lavorare con immutata passione, chiedendosi forse in cuor suo che cosa sarebbe stato della sua creatura. Allora non sapeva che quelle due baracche Nissen trasformate, con tanto entusiasmo e fatica, in quel piccolo capolavoro, sarebbero sopravvissute ancora a lungo

Foto prigionieri

I LAVORI DI RESTAURO

Dopo la fine della guerra ogni traccia del CAMPO 60 ben presto sparì. Solo la “chiesetta degli italiani” restò lì, sola soletta, a resistere agli inverni orcadiani; fragile e indifesa contro il vento e la pioggia, contro l’oblio del tempo che, così spesso e più del vento, travolge tutto e tutto spazza via. Finché nel 1958, vedendola andare in rovina, la gente del posto sollevò la questione… quella piccola gemma era in serio pericolo e qualcosa andava fatto al più presto per salvarla! A farsene carico fu Padre Whitaker, prete cattolico di Orcadi e Shetland, grazie al quale venne creato un Comitato, ancora oggi attivo, per la Preservazione della Cappella Italiana. Tutti concordarono che bisognava rintracciare l’autore degli affreschi, ormai tristemente segnati dall’incuria e dal tempo, nessuno però sapeva granché di quell’artista tornato in Italia la bellezza di 15 anni prima! Un appello radiofonico della BBC, e poi una telefonata che dalla Scozia raggiunse il municipio di Moena, permisero di contattare Domenico, che stupito e onorato della richiesta, accettò di tornare a LAMB HOLM per il restauro.
Arrivò la prima volta nel 1960 e fu accolto con tutti gli onori. Non so immaginare cosa avesse nel cuore. Respirare di nuovo l’aria pura delle Orcadi; rivedere dopo anni quella chiesetta; rivivere i ricordi tragici della guerra, senza però trovare più le baracche del campo, né i compagni di un tempo; ma, anche e soprattutto, ritrovare la magia di quel piccolo miracolo mai dimenticato. Nel 1964 tornò di nuovo, stavolta con la moglie, e portò in dono le 14 stazioni della VIA CRUCIS, intagliate nel legno a Moena e ancora oggi appese ai lati della navata. Poi, un’ultima volta nel 1970, con i due figli maggiori, che sognavano da tempo di vedere con i loro occhi quell’isoletta e di toccare con mano quella piccola chiesa, di cui il padre aveva loro sempre parlato.

Che siate credenti o no, che già ci siate stati o se mai ci andrete, lo avrete sentito… lo sentirete anche voi! C’è qualcosa di forte lì dentro; qualcosa che ci tocca da vicino, che ci scuote e ci commuove; e non solo in quanto italiani, ma come semplici esseri umani… QUEL DESIDERIO DI PACE, BELLEZZA, ARMONIA e LIBERTÀ che smuove le montagne, supera ogni limite e arriva dritto al cuore.

Panchine

Ma il filo che lega l’Italia alle Orcadi non finisce qui…

Si sa, il clima delle isole è quello che è, e di prendersi cura della “ITALIAN CHAPEL” ci sarà sempre bisogno!!! Purtroppo Domenico Chiocchetti non è più fra noi, ma sarebbe felice di sapere che in tempi recenti, il restauro della sua chiesetta è stato affidato alle mani esperte e piene d’amore di una bravissima restauratrice romana – 30 anni di carriera e una miriade di lavori importanti (Cappella Sistina e Musei Vaticani… vi dicono qualcosa?)

Dal 2009 ANTONELLA PAPA è legata a doppio filo alle Orcadi, dal momento esatto in cui, ammirandone per la prima volta in foto gli splendidi paesaggi, sentì il desiderio fortissimo di mollare tutto per raggiungerle, ancor prima di sapere dove fossero. Da allora, visita quelle isole praticamente ogni anno e ne cattura ogni volta la magia in fotografie naturalistiche così belle e magicamente “vive” da mettere i brividi alla schiena (date un’occhiata alla sua pagina Instagram @thepuffinwhisperer)

Rapita dalla generosa natura orcadiana, solo dopo anni dal suo primo viaggio sentì il desiderio di visitare la “chiesetta degli italiani”; ma quell’incontro, da sempre rimandato, fu di quelli che lasciano il segno. Il suo occhio esperto non poté non vedere che quel luogo così speciale era di nuovo bisognoso di cure e, d’impulso, scrisse una mail al Comitato per la preservazione della cappella, presieduto da JOHN MUIR, offrendosi per i necessari lavori di restauro.

Per la prima volta nel 2015, e poi di nuovo nel 2017, Antonella ha così messo mano agli affreschi e lo ha fatto a titolo gratuito; non solo con grandissima professionalità, ma con tutta la sensibilità e la cura di chi ama visceralmente quel posto; utilizzando gli stessi materiali di allora e rendendo la sua mano invisibile, senza coprire né aggiungere nulla, ma cercando semplicemente  di restituire ai dipinti il loro originario splendore. E si capisce perché, mentre lavorava, una processione continua di gente del posto veniva a renderle omaggio, portando un “grazie”, un sorriso, una stretta di mano e vasetti di marmellata fatta in casa. Questo è il calore genuino delle ORCADI, e non stupisce affatto che in isole così i miracoli si possano compiere 

Antonella Papa

Antonella Papa al lavoro nella Italian Chapel (foto tratta dal sito ORKNEY.COM)

RINGRAZIAMENTI:

Un sentito ringraziamento da parte mia ad ANTONELLA, per avermi dedicato un po’ del suo tempo prezioso, accettando di raccontarmi di questa sua bellissima esperienza. A lei un GRAZIE per l’importante lavoro svolto  a beneficio di tutti noi, che potremo continuare ad emozionarci ammirando quel piccolo prodigio di creatività e perseveranza; un GRAZIE di cuore anche allo scrittore e giornalista PHILIP PARIS, autore del bellissimo libro “LA CHIESETTA DELLA PACE – Storia dei prigionieri italiani nelle Orcadi”, scritto dopo quattro anni di puntigliosa ricerca che gli hanno permesso di rintracciare molti documenti originali e di parlare con gli ex-prigionieri superstiti e/o con i loro discendenti. Dalle sue pagine appassionate e appassionanti ho tratto le numerose informazioni necessarie alla stesura del mio articolo e l’ispirazione per trovare la mia “chiave di lettura” dei fatti. Consiglio davvero a tutti di leggerlo!

 Libro

L’edizione italiana del libro, uscita nel 2016

MA DOVE SI TROVA ESATTAMENTE L’ISOLETTA DI LAMB HOLM?

Posizione isola

Ecco evidenziata la posizione della minuscola LAMB HOLM all’interno
dell’arcipelago delle ORCADI, al largo della costa settentrionale della SCOZIA

Ringrazio di nuovo l'autore dell'articolo Ilaria Battainiche mi ha aperto un mondo che non conoscevo e naturalmente Stefano Benazzo che mi ha dato lo spunto. Vi invito a visionare il suo sito ricco di splendide foto.

FONTE: Logo Battaini

Tra storia e leggenda… Le Isole Cheradi

Dal sito IAM Taranto una curiosità sulle Isole Cheradi

san paolo di lato

Redazione IAMTaranto 

Le isole Cheradianticamente erano chiamate dai Greci Elettridi in onore di Elettra, figlia di Poseidone. Fu lo storico Tucidide a dare il nome di Cheradi nel 391 avanti Cristo. Altri studiosi invece attribuirono il nome Cheradi agli alberi che producevano ambra, infatti, durante degli scavi archeologici furono trovate collane con questa resina. Si racconta anche che Dedalo, fuggito Creta, si sia rifugiato su queste isole lasciandovi due statue: Fetonte e la caduta di Icaro.

Con l’avvento del Cristianesimo, nel Medioevo, le due isole maggiori furono denominate Santa Pelagia e Sant’Andrea, rispettivamente per San Pietro e San Paolo, per via di monasteri edificati in onore dei Santi. Affianco a queste due isole, vi era l’isolotto di San Nicolicchio, oggi scomparso, dove fu costruita una chiesetta dedicata a San Nicola, vescovo di Mira.

Laclos by Quentin de La TourVerso la fine del XVIII secolo, Napoleone riuscì ad impossessarsi delle Cheradi e affidò al generale Pierre Ambroise François Choderlos de Laclos il compito di fortificare le isole e completare la costruzione del forte sull’isola di San Paolo. La sua permanenza sull’isola fu molto breve a causa della salute cagionevole, era malato di malaria. Morì di dissenteria nel Convento di San Francesco d’Assisi nel borgo antico. Da ateo e grande rivoluzionario rifiutò i conforti religiosi e fu seppellito per sua volontà nel piazza d’armi del Forte che prese il suo nome.

Dopo svariate occupazioni di Taranto e del forte da parte dei francesi si pensò ad un ristrutturazione dello stesso e il preventivo dei lavori fu richiesto al Sottintendente del distretto di Taranto Cataldo Galeota. Purtroppo la caduta di Napoleone non portò a buon fine i lavori e gli abitanti distrussero la tomba del generale e i suoi resti furono dispersi in mare. Dalla storia alla leggenda il passo è breve, infatti i pescatori giurano di vedere un fantasma nelle notti di tempesta che si aggira per l’isola e si rifiutano di passare da quelle parti benché sia una zona molto pescosa, ritengono che il generale sia il responsabile di naufragi e disgrazie che accadono nel golfo di Taranto.

Anche San Pietro sembra sia sbarcato sull’isola di Santa Pelagia e si dice che mentre era inginocchiato a pregare lasciò un’impronta scolpita sulla pietra su cui era poggiato. La pietra fu chiamata “Apodonia” e poi trasportata a Venezia da alcuni marinai veneti.

Isole cheradi

 

FONTE: IAM Taranto

 

 

Una visita al Museo Civico Navale di Carmagnola (TO)

Saper raccontare rientra nella funzione educativa di ogni Museo, destinato per sua stessa mission ad acquisire, conservare, studiare e comunicare “le testimonianze materiali e immateriali dell’uomo e del suo ambiente” (definizione ICOM)

E il Museo Civico Navale di Carmagnola lo fa egregiamente! Chi, come me, ha avuto la possibilità e l’opportunità di poterlo visitare, sicuramente sarà d’accordo con me. Al suo interno si respira “aria di mare e di marinai” , si percepiscono, la storia, i valori, le vicissitudini di tutti coloro che sono andati per mare o che, in qualsiasi modo, lo hanno vissuto. Suddiviso in due piani, il Museo raggruppa per settori, o per argomenti, una miriade di materiale, che negli anni dalla sua nascita fino ad oggi sono stati raccolti, catalogati e/o restaurati per poterli rendere fruibili al pubblico che lo visita. Alcuni “reperti” sono stati costruiti ex novo basandosi su cartografie o planimetrie dell’epoca, rispettandone le misure ed i più minimi particolari, mettendo cosi a disposizione dei visitatori creazioni tali e quali agli originali. Ne è un esempio il “solcometro” strumento manuale atto a misurare la velocità della nave espressa in “nodi”. solcometro
Un particolare settore è dedicato alla modellistica, che negli anni ha acquisito modelli unici ed inimitabili sia di navi ed imbarcazioni d’epoca che di moderne navi militari. Tra i vari modelli meritano una particolare citazione il modello dell’Illiria Illiria una nave donata a Re Zog con equipaggio italiano, in divisa albanese pagati dall'Italia, come pure della corazzata tedesca Scharnhorst, perfettamente galleggiante e navigante, con i brandeggi dei cannoni e dei telemetri.  Oppure lo splendido modello dellaPortaeromobili “G. Garibaldi” della Marina Militare Italiana,  e del Cacciatorpediniere lanciamissili “A. Doria”. Garibaldi ScharnhorstNaturalmente non mancano modellini di sommergibili sia attuali che della seconda guerra mondiale. E il tutto continua ad arricchirsi nel tempo, anche con il contributo del Comac, centro di modellismo di Carmagnola, che è una "fucina di modellisti”, fondato e voluto dai marinai di Carmagnola tra i quali Dario Bilotti attuale Direttore del Museo  nonchè uno dei soci fondatori dello stesso Comac.
E che dire dei giganteschi bossoli da 352 della Viribus UnitisBossoliO delle luci particolari interni dei segnalatori luminosi che indicano l'ingresso nei porti. Uno elettrico l'altro a gas.
O della Caviglia simulacro della Pazienza (la Pazienza è il punto, posizionato sotto ogni albero, dove vengono rizzate le vele legando con il " nodo di caviglia" tutto il sartiame) caviglia manovre

 

 

 

 

 

 

 

 

matrioscaUna nota particolarmente toccante: i “ricordi” della terribile tragedia che colpì il sommergibile sovietico Kursk. Il museo ha ottenuto il gemellaggio con parenti dei marinai periti nella tragedia, con scambi di doni. Tra questi una bellissima matriosca e i nastrini dei berretti da marinaio delle varie flotte russe.
Altro particolare veramente interessante è quello delle divise, sia storiche che attuali.
Vi trovate l’uniforme originale dell’Ammiraglio Vandini che avendo sposato la contessa Gabriella è il nipote acquisito di Thaon de Ravel.
Oppure una uniforme storica: è l'uniforme originale del C.TE Giovanni Gropello. Fu al comando della R.N. Albanese “Illiria”.
Oppure il settore palombari, e perché no, anche la nutrita collezione di crest. Da non dimenticare un’occhiata al periscopio di rispetto proveniente dal Sommergibile "E. Toti "

Cannone comacInsomma diciamo che la visita al Museo Civico Navale di Carmagnola, sarà assolutamente appagante per chiunque la vorrà fare. Il personale che accompagna i visitatori è altamente preparato e sa dare tutte le spiegazioni al pubblico, che come sempre è, e deve essere esigente. Altri particolari affascinanti li lascio scoprire ai futuri visitatori del museo.

Un giusto riconoscimento va all'amico Dario Bilotti, Direttore del Museo che nel salutarmi mi ha detto: "Sono fortemente impegnato in una attività senza scopo di lucro ma con infinite soddisfazioni"

 

 

 

 Ecco alcune immagini del Museo

Scarica la brocure del museo

Brocure Museo copertina

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