Lo scorso 2 ottobre il sottomarino a propulsione nucleare da attacco (Ssn) della classe Seawolf Uss Connecticut è stato protagonista di uno scontro con un ignoto “oggetto sommerso” che lo ha costretto a dover effettuare uno scalo fuori programma presso la base navale di Guam, nelle Isole Marianne, per effettuare gli accertamenti dei danni subiti. Danni che, a una prima e sommaria ricognizione, sembrano talmente consistenti da richiedere il rientro del battello a Puget Sound (Washington) per le riparazioni.
Quanto accaduto all’Uss Connecticut apre una questione molto delicata, che rappresenta un problema per la U.S. Navy e per la nuova postura del Pentagono verso l’Indopacifico: la capacità cantieristica di Guam, uno degli avamposti aeronavali più importanti che gli Stati Uniti hanno in quel settore.
L’isola, a ben vedere, soffre di un male diffuso: i cantieri navali statunitensi faticano a restare al passo delle richieste di nuove unità. Una causa strutturale individuabile nella difficoltà a reperire maestranze specializzate e sebbene siano stati effettuati alcuni investimenti per ristrutturarli, non sono stati in grado di tenere il passo con il carico di lavoro che già hanno. Tre anni fa, il Government Accountability Office (Gao) ha valutato che l’U.S. Navy ha perso più di due decenni nella flotta dei sottomarini d’attacco a causa di ritardi nei lavori di manutenzione.
L’inizio del declino
Una carenza che è rappresentata in modo esemplare proprio dalla base di Guam. Oggi, l’unica cosa che la base offre ai sottomarini è la privacy. I bacini di carenaggio galleggianti utilizzati per i lavori “in secco” non ci sono più: uno, eredità della Seconda Guerra Mondiale, è stato venduto nel 2016 alle Filippine, l’altro, una piattaforma del 1980, dopo essere stato danneggiato da un uragano nel 2011 è finito in Cina per riparazioni e modernizzazione (era il 2016) e a quanto sembra è ancora lì. Sono disponibili solo una manciata di addetti alle riparazioni navali, ma sono certificati solo per eseguire riparazioni di base: la squadra originale di 800 lavoratori addetti al cantiere impiegata nei primi anni ’90 si è ridotta a poche centinaia al massimo.
Nel 2018, con l’attività navale a Guam al massimo dopo la Guerra Fredda, la U.S. Navy ha inspiegabilmente messo fuori servizio l’impianto di riparazione, senza alcun piano apparente per recuperarlo. Questa mancanza di supporto per le riparazioni navali nel Pacifico Centrale è una cosa seria. La postura del Pentagono che vorrebbe “ampliare la presenza avanzata” e “migliorare la prontezza alla guerra” in tutto il Pacifico, deve necessariamente essere sostenuta da un’efficace capacità di riparazione a Guam, in modo che navi e sottomarini, se danneggiati durante le operazioni, possano essere riparati senza dover affrontare il viaggio di circa 6500 miglia per Puget Sound. Un viaggio insostenibile, se le unità fossero danneggiate a tal punto da metterne in crisi la galleggiabilità, e impensabile per una questione di tempistiche in caso di escalation.
Apprendiamo da Forbes che questa situazione arriva da molto lontano. Nel 1995, la Commissione per il Riallineamento e la Chiusura delle basi, dispose la chiusura dell’impianto di riparazione navale di Guam – insieme ai cantieri navali di Long Beach (California) –, mentre il centro di approvvigionamento industriale e della flotta e il Naval Activities sono stati chiusi nel 1997. Se oggi queste infrastrutture esistessero ancora, l’Uss Connecticut potrebbe essere riparato a Guam senza dover attraversare tutto l’Oceano Pacifico per tornare negli Stati Uniti continentali.
La necessità di una nuova strategia
Allo spostamento dell’attenzione del Pentagono verso l’Indopacifico non è seguita la medesima attenzione verso le infrastrutture già esistenti, e ora le Isole Marianne sono sede di un contingente expeditionary navale, di due navi appoggio, di quattro sottomarini nucleari e di una decina di navi del Sealift Command associate al programma di preposizionamento del Corpo dei Marines o dell’esercito Usa nell’area, ma senza la possibilità di effettuare importanti lavori di riparazione. Sebbene la Indopacific Deterrence Initative preveda l’implementazione degli avamposti militari già esistenti e la creazione di nuovi, è alquanto fumosa la questione legata alle attività di appoggio e sostegno della flotta. Lo stesso riassetto dei Marines, tornati al loro tradizionale ruolo anfibio con la dismissione dei reparti più pesanti (ad esempio quelli corazzati), richiederà che la Flotta possa disporre di cantieri navali e maestranze in posizione avanzata, e non è possibile pensare di affidarsi esclusivamente alla base navale di Yokosuka, in Giappone.
Quando accaduto all’Uss Connecticut in un certo senso è una benedizione,avendo palesato l’intrinseca debolezza delle infrastrutture di supporto della costa del Pacifico. Le strutture di riparazione di Guam sono state sottofinanziate per decenni, liquidando troppo frettolosamente una capacità industriale che si credeva fosse un inutile orpello. Del resto, quella decisione, è frutto dei tempi in cui è stata presa: era il decennio in cui gli Stati Uniti rappresentavano l’unica (super)potenza presente al mondo, soprattutto non si erano ancora palesati gli attuali avversari caratterizzati da volontà di predominio globale (la Cina in primis), anche se era intuibile che si sarebbe giunti a questa situazione.
Per fare un esempio calzante, passando dall’ambito navale a quello aeronautico, questa filosofia politica è stata la stessa che ha deciso di decurtare pesantemente il numero di caccia F-22 Raptor per l’U.S. Air Force, ritenuti, ancora nel 2008 “inutili” stante i tempi. Una decisione sciagurata i cui effetti si sentono ancora oggi. Se Guam deve essere un porto sicuro per le navi della U.S. Navy in difficoltà, il Dipartimento della Marina Usa è obbligato a fornire all’isola tutti gli strumenti idonei per gestire questa possibilità, che diventa estremamente reale – e fondamentale – in caso di conflitto o di semplice escalation.