Evoluzione delle caldaie nella Regia Marina a partire dagli anni ’30 ed in servizio nella Marina militare italiana sino agli anni ’60.
Bellissimo e completo articolo da Ocean4future a cura di Giancarlo Poddighe
Se esaminiamo gli ultimi cinquant’anni di vita della propulsione a vapore nella Marina militare italiana, 1930 – 1980, limitandoci alle sole navi di linea e maggiori, si possono identificare due “famiglie” di apparati, quelle di concezione e matrice inglese (caldaie Ammiragliato) adottate dalla Regia Marina italiana (RI), e quelle di matrice e concezione statunitensi, adottate dopo la guerra dalla Marina militare italiana (MMI), sia per le navi cedute dalla US Navy sia per le nuove costruzioni.
La prima “famiglia si riferisce alle caldaie triangolari (definite Regia Marina) a due o tre collettori, con surriscaldatore (per la definizione si consideravano solo i collettori collegati con il collettore superiore).
Gli schemi seguenti riguardano l’apice dello sviluppo prebellico della produzione italiana (30 anni di evoluzione che alla fine segnava già un distacco dalle altre Marine): una produzione segnata da una certa miopia dell’industria, ma anche condizionata dalla scarsità nel Paese di acciai di elevata qualità, scarsità ancora più acuta per manufatti quali tubi e collettori (con il difficile passaggio per questi dalla chiodatura alla saldatura, che avrebbe permesso pressioni di esercizio più elevate e macchine piu leggere). Per inciso la sezione triangolare delle caldaie di concezione e matrice inglese derivava dalla più antica combustione a carbone, con la possibilità di alimentare la fornace in contemporanea da due fronti).
Nella Regia Marina, per ragioni di peso e spazio, le caldaie a due collettori erano prevalentemente destinate alle unità di più piccolo dislocamento, come torpediniere e caccia, e quelle a tre collettori – comunque più evolute – alle unità maggiori. Le grandi dimensioni di queste caldaie impedivano spesso – nelle unità minori, l’ installazione affiancata, e lo sviluppo in verticale, con le caldaie appoggiate praticamente in chiglia, impediva l’uso di doppi fondi, importanti per la protezione subacquea ma anche per l’eventuale uso come serbatoi nafta, con pesanti ripercussioni sull’autonomia, fattore critico delle unità italiane.
Schematicamente la caldaia è costituita da collettori di acciaio, collegati tra loro da fasci di tubi di acciaio (per quanto possibile ad elevata resistenza); tra i fasci tubieri è ricavata la camera di combustione rivestita internamente, soprattutto nelle zone non interessate da tubi, da uno o più strati di mattoni refrattari, sigillati con pasta refrattaria.
L’acqua di alimento era mantenuta ad elevata pressione, ovviamente superiore alla pressione di esercizio della caldaia, tramite una apposita pompa di elevate caratteristiche ed affidabilità, ed arrivava al collettore superiore tramite uno o più tubi, collegati e terminati in modo da poter distribuire uniformemente l’acqua di alimento, relativamente più fredda di quella già in ciclo nella caldaia. L’esigenza fondamentale era quella di mantenere l’acqua in caldaia a livello il più possibile costante, agendo sulla mandata delle(e) pompa(e) di alimento: l’operazione, controllata attraverso i livelli, fu via via oggetto di automazione.
Risultavano pieni di acqua (liquido) sia i fasci tubieri che i collettori inferiori. Il calore trasmesso dalla camera di combustione ai fasci tubieri, nell’operare la vaporizzazione dell’acqua la metteva in movimento (effetto termosifone), obbligandola a salire nei tubi più esposti alla fiamma ed a scendere in quelli più lontani, relativamente più freddi. Al variare dell’attività di combustione e della produzione di vapore, il numero di tubi (o meglio file di tubi) in cui si verificava il moto ascensionale poteva variare, in aumento o diminuzione. Per assicurare in qualsiasi modo la discesa verso i collettori inferiori, anche con forte attività di combustione, e quindi con una numero maggiore di file di tubi impegnate nel moto ascensionale, le caldaie erano dotate di una serie di tubi di maggior diametro sistemati esternamente alla camera di combustione, se non addirittura all’ esterno dell’ involucro.
Questa sistemazione tipica era molto seguita nelle caldaie di matrice statunitense, ma molto più limitata nelle caldaie di matrice inglese, tipo ammiragliato (le caldaie definite “tipo Ammiragliato” devono il loro nome ad un centro della Royal Navy dedicato al loro studio e soprattutto alle loro prove.
La Marina tedesca, al momento della sua ricostituzione come Reichsmarine tentò di replicare questo centro, sviluppando progetti e conducendo prove preliminari molto avanzate per le caldaie ad altissima pressione; il troppo precipitoso passaggio alla fase di produzione e l’installazione a bordo di tali apparati, con la chiusura prematura di tale centro e la mancata funzione di centro di formazione, condussero a risultati disastrosi, come gli apparati montati sui caccia delle classi Z.
Lo schema 1-3 permette di valutare le grandi dimensioni e la complessità della fornace, con relativi refrattari: corrispondeva anche alle caldaie installate sui transatlantici veloci costruiti in Italia nella stessa epoca.
Il vapore prodotto si raccoglieva nella sommità del collettore superiore dal quale veniva prelevato tramite un sistema in grado di separare nel possibile, attraverso un percorso di centrifugazione, liquido da vapore. Il vapore cosi prelevato, vapore saturo, passava quindi al surriscaldatore che lo trasformava in gas perfetto; il surriscaldatore era diaframmato in modo da formare in pratica due camere separate, unite da un fascio ad U; il vapore saturo entrava dalla parte a temperatura inferiore, perché più lontana dalla camera di combustione e veniva poi convogliato alla parte a temperatura maggiore per essere poi inviato agli utenti.
E’ importante sottolineare che l’aria comburente, in questo tipo di caldaie, veniva inviata alla camera di combustione tramite le stesse aperture dei polverizzatori, diaframmate in modo da creare turbolenza, attraverso lo stesso locale caldaie che veniva mantenuto. per mezzo di potenti ventilatori (elettrici in avviamento e turboventilatori a regime) in leggera sovrappressione. La sovrappressione del locale serviva anche a limitare la possibilità dei ritorni di fiamma. Il combustibile veniva introdotto in camera di combustione attraverso polverizzatori meccanici, il più largamente usato era il tipo Mejani, sistemati nella parte frontale delle caldaie e spruzzanti per opportuna miscelazione nella turbolenza appositamente creata nell’aria comburente.
Il numero dei polverizzatori in uso era variabile in funzione della potenza richiesta e, nel caso di andature ridotte, venivano accesi a rotazione per mantenere uniformità di temperatura. Si utilizzava nafta densa, che doveva essere preriscaldata con vapore a bassa pressione per renderla sufficientemente fluida, generalmente messa in pressione con pompe a vitoni; la polverizzazione avveniva tramite piastrine rimuovibili, con fori diversi a seconda dell’ attività di combustine richiesta: le piastrine tendevano a sporcarsi ed otturarsi rapidamente per la cristallizzazione della nafta, soprattutto quando di non eccelsa qualità, ed il sistema obbligava a continui interventi manuali complicati e pericolosi, di sostituzione dei polverizzatori, per manutenzione e sostituzione delle piastrine.
Questo tipo di apparato motore, per conformazione e materiali, risultò notevolmente pesante, di notevoli dimensioni, soprattutto in pianta, penalizzando molto le costruzioni prebelliche italiane, in special modo le siluranti dove in molti casi non si potevano istallare caldaie affiancate (sistemazione per madiere) ma solo in successione (sistemazione per chiglia).
Prima di continuare questa breve descrizione delle ultime caldaie MMI, è opportuno ricordare che nel progetto e nella storia di questi apparati per lungo tempo si confrontarono due scuole, quella dei tubi dritti e quella dei tubi curvi, via via sempre più sagomati.
L’adozione di tubi dritti rispondeva alla prioritaria esigenza di sostituire più’ facilmente, anche con mezzi di bordo, tubi scoppiati ed usurati (eliminando perdite di vapore) in un’epoca in cui non erano disponibili materiali di alta qualità, mentre l’adozione di tubi curvi e poi via via sagomati – certamente di difficile sostituzione – che permettono un maggio sfruttamento del calore in caldaia ed un efficace controllo del passaggio dei gas caldi di combustione corrisponde alla progressiva disponibilità di tubi di acciaio speciale e di alta resistenza al calore. La pratica di sostituzione dei tubi con soluzioni di emergenza ed addirittura con mezzi di bordo fu progressivamente abbandonata, sostituita dall’ altrettanto complicata e difficile procedura di otturazione delle due estremità dei tubi usurati (operazione che comportava ovviamente lo spegnimento delle caldaie interessate, il loro raffreddamento e la loro ventilazione per accedere ai collettori). In pratica procedure che necessitavano di vari giorni continuativi, con pesanti ripercussioni sull’ approntamento dell’unità.
Il passaggio al secondo tipo di caldaia, la “matrice statunitense”, post bellico, limitato ai tipi FW, Foster Wheeler, segnò anche una profonda rivoluzione dell’industria italiana, colmando un gap tecnologico ultra ventennale. La FW aprì una filiale in Italia e tutti e tre i principali costruttori di caldaie acquisirono le relative licenze e si adeguarono alle stesse.
Come si può notare dagli schemi successivi siamo di fronte a soluzioni strutturali e forme totalmente diverse da quelle già trattate in precedenza. Si è persa la conformazione a sezione “triangolare”, e siamo di fronte a caldaie più compatte, sviluppate relativamente in verticale, con ridotta superficie in pianta, nelle quali il miglior controllo del passaggio dei gas combusti permetteva di ridurre l’uso dei refrattari e quindi il peso della caldaia, mentre le ridotte dimensioni in pianta ne permettevano la sistemazione affiancate per madiere (in larghezza) anziché per chiglia (lunghezza).
Questo schema viene riportato anche come riferimento ad altri tipi di caldaie adottati dalla US Navy (per esempio nave Aviere e nave Artigliere avevano caldaie Babcock) ma il tipo maggiormente impiegato nella MMI fu il tipo D a focolare singolo, ed a questo si fa riferimento per gli approfondimenti (schema 2-2)
In questo caso i collettori inferiori erano uno a sezione circolare, cui faceva capo il fascio vaporizzatore principale, ed altri due, novità assoluta per l’Italia, erano a sezione quadrata, ai quali erano collegati due fasci, vere proprie pareti di tubi vaporizzatori, esposte al calore di irraggiamento, che servivano anche per raffreddare un fianco ed il dorso della caldaia ed a ridurre l’uso di materiali refrattari. Esistevano poi due altri collettori quadrati, di entrata ed uscita del surriscaldatore, di cui tratteremo in seguito.
La scelta dei collettori quadrati era dovuta alla maggiore facilità di accesso e lavoro per la mandrinatura dei tubi e la tenuta dei numerosi portelli di ispezione. Con queste caldaie, di costruzione nazionale, le cui varianti trovarono largo impiego nella Marina mercantile ed in costruzioni per l’estero, si colmò un gap industriale di miopia e disattenzione delle solite lobbies che dominarono le commesse del ventennio, i cui indirizzi la Regia Marina aveva inutilmente cercato di opporsi: tra il 1937 ed il 1940 si svilupparono una serie di studi del GN sugli apparati motore delle contemporanee costruzioni estere, a cominciare dai transatlantici che in realtà tutti avevano apparati motore di derivazione militare.
La Regia Nave Littorio in navigazione durante le prove in mare nel 1937, in una foto degli archivi federali tedeschi. La propulsione era a vapore con quattro gruppi turboriduttori alimentati dal vapore di otto caldaie tipo Yarrow/Regia Marina alimentate a nafta in cui l’acqua fluiva attraverso tubi riscaldati esternamente dai gas di combustione, sfruttando così il calore sprigionato dai bruciatori, quello dalle pareti della caldaia e quello dei gas di scarico. Questo tipo di caldaia era il modello standard per le caldaie di grosse dimensioni, grazie anche all’impiego di acciai speciali in grado di sopportare temperature elevate e allo sviluppo di moderne tecniche di saldatura. L’apparato motore era protetto da cilindri corazzati singoli per ogni caldaia e per ogni ventilatore, mediante coperture corazzate a distanza sul ponte superiore e da diaframmi corazzati alla base; il sistema di protezione era coordinato alla corazzatura di murata sovrastante e alle strutture sottostanti del triplo fondo. Il motore forniva una potenza massima di 130 000 CV e consentiva la velocità massima di 31 nodi, con un’autonomia a velocità media 20 nodi di 3 920 miglia. da wikipedia
Costruzioni all’altezza dei tempi, caldaie dove temperature e pressioni erano molto elevate e comportarono l’adozione di accorgimenti costruttivi e, soprattutto, acciai speciali resistenti ad alte temperature, finalmente resi disponibili dall’industria nazionale. Una grande novità fu la modalità con cui veniva introdotta in caldaia l’aria comburente che, prelevata dai ventilatori (elettrici e turbo), non veniva immessa in locale ma sospinta in una intercapedine che circondava tutta la caldaia.
In tal modo si ottennero i vantaggi di preriscaldare l’aria comburente, di contribuire al raffreddamento della struttura e quindi ridurre pesi e volumi di refrattari ed isolamenti, evitando la sovrappressione del locale caldaie. Di fatto reso più abitabile per il personale ma anche di maggiore semplicità costruttiva eliminando le garitte di accesso che dovevano compensare la differenza di pressione con gli altri locali navi.
Anche se concepito per altri fini (rendimento termico e riduzione pesi) è evidente il contributo di tale sistemazioni per ridurre (anche se non eliminare) la contaminazione in ambiente dei locali in condizioni di guerra NBC.
In quanto alla sequenza e percorsi dei fluidi, l’acqua di alimento, prima di essere immessa nel collettore superiore, percorreva un fascio di tubi alettati, detto economizzatore, sistemato all’uscita della caldaia, verso il fumaiolo, che recuperava il calore dei gas allo scarico. Un fascio tubiero che era comunque molto sollecitato, dovendo sopportare le pressioni di spinta delle pompe di alimento, che ovviamente dovevano mandare ad una pressione superiore a quella di esercizio della caldaia (pressioni dell’ordine superiore dei 50 kg/cmq).
Come tutte le parti e componenti delle caldaie, occorre tener conto degli spostamenti per dilatazione, più complicati e difficili da affrontare quando siamo in presenza di materiali di diversa natura. Come indicato nell’assonometria precedente nello schema 2-3, uno degli elementi costruttivi tipici di queste caldaie era la complessità del collettore superiore, assolutamente diverso dal caso della “matrice inglese”: era condizione necessaria ed indispensabile che il vapore (saturo) prelevato per il passaggio nel surriscaldatore fosse privo di gocce d’acqua allo stato liquido.
L’eliminazione dell’acqua trascinata dal vapore saturo avveniva obbligando il vapore stesso ad un tortuoso percorso, prima attraverso dei separatori a ciclone (separazione centrifuga) e poi attraverso filtri a lamelle (separazione meccanica). Il surriscaldatore era costituito da due fasci di tubi ad U, sistemati orizzontalmente, intestati su collettori quadrati posizionati parallelamente in verticale.
Questa era una delle grandi differenze rispetto ai surriscaldatori delle caldaie della Regia Marina, che generalmente avevano un unico collettore diviso longitudinalmente in due camere grazie ad un diaframma.
Tale sistemazione permetteva l’adozione di materiali differenziati, più idonei come, nel caso in esame, il collettore di uscita, a più elevata temperatura, era costruito in acciaio al cromo-molibdeno. In questi tipi di caldaie, e direi ad ulteriore complicazione ed affollamento del collettore superiore, era sistemato un desurriscaldatore, costituito da un tubo ad U posizionato nella parte bassa per tutta la lunghezza del collettore, in modo da rimanere sempre immerso nel liquido. Tale apparecchiatura aveva una duplice funzione: la più importante era quella di mantenere costantemente un flusso di vapore attraverso il surriscaldatore, anche nel caso di variazioni di andatura e fermata dei principali utenti, le motrici. Era necessario preservare il surriscaldatore, posizionato nella zona più critica della caldaia: il passaggio del vapore saturo attraverso il surriscaldatore aveva il compito di assorbire calore ed esercitava una funzione refrigerante nei confronti del fascio tubiero, posizionato in un ambiente con temperature oscillanti tra 900 e 1200*C.
La seconda funzione del desurriscaldatore, operativa, era quella di abbassare la temperatura di parte del surriscaldato (da 450°C a circa 300°C) tramite una valvola riduttrice a circa 30 kg/cmq. Tali misure sul ciclo portavano a condizioni ottimali del vapore destinato all’azionamento dei macchinari ausiliari, permettendo che gli stessi fossero di costruzione più leggera senza dover sempre ricorrere ad acciai speciali e strutture rinforzate; questa misura comportava comunque un miglioramento del rendimento del ciclo; il calore in eccesso veniva in tal modo recuperato cedendolo all’ acqua di alimento in cui il desurriscaldatore era immerso.
Lo schema indicato, con il particolare del riscaldatore nafta, si riferisce al periodo sino agli anni ’70, quando il combustibile per le caldaie navali (diverso e più “raffinato” da quello delle unità mercantili, in quanto più fluido) era il Navy Twenty Point (codifica NATO) sostituito poi, in fase finale dell’era del vapore, dal gasolio, non tanto come misura ecologica ma da esigenze di standardizzazione logistiche di “combustibile unico”. Anche se di breve durata, si trattò di un passaggio sostanziale, con importanti modifiche al ciclo ed alla condotta delle caldaie e degli apparati ausiliari.
Considerazioni sui rendimenti e la rischiosità di questi tipi di caldaie
Il passaggio dalle caldaie di “matrice inglese” Tipo RM/MMI alle caldaie di “matrice statunitense” Tipo FW, standardizzato sulle unità MMI della ricostruzione post bellica, fu reso possibile dall’introduzione nell’industria nazionale di nuove tecnologie, nuovi impianti, nuove tecniche di lavorazione e dal costante miglioramento delle caratteristiche meccaniche e metallurgiche dei materiali resi disponibili dalla siderurgia nazionale per la costruzione dei generatori di vapore. Il ricorso a materiali importati fu minimo e ridotto a casi di economia di scala nella richiesta, tale da non giustificare l’avvio di una produzione nazionale anche se ne esisteva la possibilità (ad esempio casi isolati di pannelli di acciaio al cromo per il convogliamento dei gas di scarico). Le nuove caldaie permisero aumenti di rendimenti sino a valori prossimi sino allo 0,9 , grazie ad uno sfruttamento ottimale del calore sviluppato, per l’aumentata pressione del flusso di aria comburente, diminuzione delle sezioni di passaggio dei gas combusti, riduzione del volume delle camere di combustione (o fornaci), aumento nella percentuale di superficie riscaldante irradiata, incremento della velocità dei gas combusti, tutti fattori che comportano l’aumento del coefficiente di trasmissione del calore.
Le caldaie risultarono meno ingombranti anche per l’adozione di bruciatori molto efficienti che permettevano di bruciare efficientemente grandi quantità di combustibile (all’ epoca nafta), molto compatti ed in grado di adeguarsi rapidamente alle richieste per variazione di andatura (di cui le più pericolose erano quelle in riduzione). Le caldaie stesse – per i ridotti volumi di acqua in ciclo – potevano adeguarsi rapidamente alle necessità di produzione di vapore.
In base alla tardiva conoscenza delle esperienze tedesche e sufficiente edotti dei tentativi statunitensi, esistevano conoscenze e condizioni teorico/tecniche per ulteriore miglioramento delle prestazioni dei generatori, sia come processo sia in relazione alla sempre nuova e migliore disponibilità dei materiali impiegabili.
In realtà la MMI puntò sull’affidabilità e durata, visto che tali teorici miglioramenti si sarebbero tradotti oltre che in un incremento dei costi di acquisizione ed installazione ed una complessità dei circuiti e delle installazioni non sempre favorevole in una unità militare e negli spazi disponibili, oltretutto con maggiori difficoltà di condotta.
La classe Impavido derivò dalla precedente classe Impetuoso di cui conservavano le linee generali dello scafo, ma con dislocamento e dimensioni leggermente incrementati, ampiamente automatizzate, sia nei sensori di scoperta, e negli impianti d’arma, che nell’apparato motore, e avevano una notevole stabilità di piattaforma, essendo dotate fra l’altro di ben tre coppie di pinne stabilizzatrici Denny Brown, e duttilità d’impiego, che le rendeva idonee ad operare in missioni di scorta al naviglio mercantile, e particolarmente adatte alla lotta antiaerea e antisommergibili. La propulsione era a vapore con quattro caldaie Foster Wheeler alimentate inizialmente a nafta, e due turbine collegati agli assi delle due eliche mediante due gruppi turboriduttori. L’apparato motore forniva una potenza di 70 000 hp, consentendo una velocità massima di 34 nodi ed un’autonomia di 5 000 miglia a 16 nodi.
Già nelle caldaie Foster Wheeler tipo D, e nel ciclo illustrato, le prestazioni raggiunte rendevano la condotta difficoltosa nelle continue variazioni tipiche di una nave militare, ed imponevano grande specializzazione ed esperienza da parte del personale addetto ed il continuo adeguamento delle apparecchiature di controllo, automazione e sicurezza.
Come semplice riferimento ed esempio di queste difficoltà tipiche dell’impiego navale militare delle caldaie imbarcate sui cacciatorpedinieri, basta ricordare che il collettore superiore, a livello, conteneva circa 1000 Kg di acqua e che un improvviso consumo e la diminuzione di livello corrispondente a soli 400 Kg portava a scoprire i legamenti dei primi fasci vaporizzatori, con gravi problemi di surriscaldamento e pericoli di avarie ed inutilizzazione della caldaia. Il tempo per vaporizzare 500 Kg di acqua era di circa 20”, e tale era quindi il lasso di tempo a disposizione degli operatori non solo per percepire la diminuzione di livello ma anche per attuare i provvedimenti necessari e ripristinare i livelli. Un minimo di ritardo, ed un sempre possibile errore, avrebbe compromesso irrimediabilmente la caldaia.
Non bastava certo dotare la caldaia di automatismi capaci di intervenire in tempi infinitesimi per agire su diversi fattori ed azioni (regolazione dell’alimento, flusso d’aria, combustibile) per ottimizzare ed adeguare la combustione, ma bisognava contare su personale allenato a gestire in qualsiasi modo l’operazione.
Le evoluzioni dell’era del vapore hanno sempre giocato su fattori multipli e valori infinitesimali che portavano al miglioramento del ciclo, a maggiori rendimenti e pertanto ad una apparente diminuzione dei costi operativi (anche se a fronte di una maggiorazione dei costi costruttivi).
Questa fu la strada seguita molto anticipatamente, forse precipitosamente, dalla Reichsmarine e poi – dopo le prime crisi energetiche – dagli armatori privati. Tipico è il caso degli spillamenti progressivi di vapore durante l’espansione che anziché andare a cedere il suo contenuto termico nel condensatore lo riportava direttamente nell’acqua di alimento, ma l’implementazione di tali processi ha portato a tante e tali complicazioni nell’impianto (maggiori tubolature, preriscaldatori, valvole, automatismi, ecc.) tali da non renderli convenienti per impianti navali (militari), primariamente per ragioni di peso ed ingombro, secondariamente per ragioni di manutenzione.
Giancarlo Poddighe