La conquista delle profondità – parte III

Dal sito "Ocean4future" un interessante articolo sulla storia della subacquea suddiviso in 4 parti. Ecco la terza parte

US DIVER DEEP DIVER

Immersioni a secco
Nel 1924 cominciò la sperimentazione con immersioni “a secco”, ovvero in camera iperbarica, ad elio-ossigeno, arrivando a profondità intorno ai 50 metri. I primi risultati confermarono che il palombaro poteva raggiungere profondità elevate senza manifestare fenomeni di alterazione psicofisica. Dopo le sperimentazioni delle prime miscele sintetiche, negli anni Trenta, le loro applicazioni avvennero soprattutto in campo militare principalmente negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ed in Russia. In campo civile si segnò invece il passo. Furono le necessità dell’industria dell’off-shore, che cercava di portare uomini ad operare a quote sempre maggiori per posizionare le attrezzature necessarie per l’estrazione del petrolio dai giacimenti sottomarini, a costringere i militari a condividere i progressi in questo campo.

MaxEugeneNohl MechanicalEngineerDiver

Il 22 dicembre 1938, Edgar End e Max Nohl effettuarono la prima immersione ad aria in saturazione in camera (27 ore) a 101 piedi (30,8 metri) al County Hospital a Milwaukee, Wisconsin. La loro decompressione durò  ben cinque ore lasciando Nohl solo con una lieve patologia da decompressione che fu tra l’altro risolta con una ricompressione successiva. Nel 1939, i subacquei della US Navy utilizzarono apparati con miscele elio ed ossigeno (heliox) per il salvataggio dell’equipaggio del USS Squalus, affondato su un fondale di 74 metri durante una immersione di prova. Il salvataggio del personale dello Squalus coincise con la ricerca  di Albert Behnke e Oscar Yarbrough del Navy Experimental Diving Unit sull’uso dell’heliox in profondità. Una delle loro prime immersioni sperimentali, sempre in camera iperbarica, fu effettuata alla quota di 152 metri.

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Albert Abraham Benkhe

Nel 1942, fu lo stesso Behnke a proporre l’idea di esporre gli esseri umani ad un aumento delle pressioni ambientali abbastanza a lungo per far diventare saturi di gas inerti il sangue ed i tessuti. Benkhe comprese anche la differenza dei sintomi dell’EGA da quelli della malattia da decompressione, suggerendo l’uso di ossigeno nella terapia iperbarica. Nel 1950, George F. Bond della US Navy iniziò i primi esperimenti di  immersioni in saturazione e, nel 1957, iniziò il progetto Genesis al Naval Submarine Medical Research Laboratory con lo scopo di dimostrare che gli esseri umani avrebbero potuto sopportare un’esposizione prolungata a diversi gas di respirazione con un aumento delle pressioni ambientali.

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Bond e Tuckfield

Bond intuì che, a saturazione raggiunta, la quantità di tempo necessario per la decompressione dipendeva dalla profondità e dal gas respirato. Questo fu l’inizio delle immersioni in  saturazione e del programma Man in the Sea della US Navy. Nello stesso anno (1950) la FOXBORO negli Stati Uniti e la SOS (Bend-O-Matic), in Italia, incominciarono a  commercializzare i primi strumenti analogici per il calcolo dei tempi di decompressione (decometers). I primi computer digitali, progettati per il Defense and Civil Institute of Environmental Medicine (DCIEM) canadese apparvero a metà degli anni ’50 ed impiegavano un modello matematico di Kidd-Stubbs modificato che utilizzava quattro compartimenti in serie.

I primi habitat subacquei
Negli anni sessanta furono diverse le sperimentazioni in cerca di sviluppare nuove metodologie per l’alta profondità. Tra queste anche quelle che prevedevano la posa in fondo al mare di speciali habitat in cui l’uomo potesse vivere.  I primi esperimenti di “vita subacquea” in habitat posti oltre i 50 metri di profondità  avvennero nel 1961 con il “men in the sea I” alla quota di 61 metri e, nel 1964, “men in the sea II” alla quota di 131 metri.

Museum of Man in the Sea sealab 1

Nel 1964, il SEALAB I, un habitat composto da due moduli fu posato sul fondo. A capo della missione fu destinato George F. Bond. I risultati ottenuti furono fondamentali per lo sviluppo delle teorie sulla saturazione. Il SEALAB I, posizionato alla profondità di cinquantotto metri, dimostrò che le immersioni di saturazione in mare aperto erano fattibili per lunghi periodi e fornì numerose informazioni sul posizionamento degli habitat, sull’uso pratico degli ombelicali, sul controllo dell’umidità, e la decodifica delle voci deformate dall’elio per ridurre l’effetto “paperino”.

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Pittorico del SEALAB III

Gli esperimenti continuarono nel 1965 con il SEALAB II alla  quota di –62 m e “precontinente III” di Cousteau alla quota di 100 m di profondità. Quattro anni più tardi il SEALAB III utilizzò un habitat SEALAB II rinnovato, posto a 185 metri di profondità con cinque squadre di nove subacquei che trascorsero ognuno dodici giorni al suo interno, sperimentando nuove tecniche di salvataggio e la conduzione di studi oceanografici profondi.

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I progetti di Cousteau – Precontinente

La sfida di Keller
Arriviamo a Hannes Keller, un matematico e fisico teorico, che cominciò ad interessarsi delle problematiche delle immersioni profondeKeller sviluppò in seguito nuove tabelle di decompressione per le miscele di gas con il supporto di Albert A. Bühlmann che gli suggerì i gas più adatti.

Keller US NEDU

Tabelle che testò personalmente e con successo sia al Lago di Zurich, dove raggiunse una profondità di 400 piedi (120 metri), sia in Italia, al lago Maggiore, dove scese a 728 piedi (222 metri). A queste sperimentazioni ne seguirono altre che purtroppo richiesero un doloroso pegno in vite umane. Fu il caso della celebre immersione di Hannes Keller e Peter Small al largo di Santa Catalina island, California. Keller, una volta arrivati a 305 metri, uscì dalla campana per primo indossando uno speciale autorespiratore. Al rientro dei due operatori, durante la fase di risalita, avvennero un certo numero di incidenti sia a Keller che Small e, dei due, solo Keller riuscì a sopravvivere all’immersione.

Dagli anni settanta del XX secolo le sperimentazioni delle immersioni commerciali presero il sopravvento rispetto a quelle in ambiente militare. Potremmo dire che le due strade incominciarono a viaggiare parallele e qualche volta la sperimentazione in ambito militare si avvalse delle esperienze maturate nelle immersioni commerciali. Le prime immersioni di saturazione commerciali furono eseguite nel 1965 da Westinghouse per sostituire dei rack difettosi a 200 piedi (61 metri) sulla Mountain Dam Smith. Dagli apparati di immersione che abbiamo preso in esame nelle precedenti parti nacquero una serie di apparecchiature per alti fondali, in concomitanza allo sviluppo delle tecniche “in saturazione”. Potremmo quindi dire che il vecchio scafandro elastico, che utilizzava le miscele di elio e ossigeno (HELIOX) a circuito chiuso, si trasformò in uno scafandro leggero, dotato sia di un apparato di ricircolo sia di rifornimento di miscela dalla superficie attraverso un cavo ombelicale. L’apparato venne poi perfezionato con un solo ombelicale dalla superficie per la respirazione in circuito aperto, sicuramente meno complicata e pericolosa per il palombaro ma anche bisognevole di maggiori quantitativi di gas.

I primi rebreather di Draeger

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Il rebreather della DRAEGER FGG III con le calandre
aperte per mostrare i componenti interni

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DRAEGER
Nel campo dei rebreather voglio solo accennare, da un punto di vista storico, all’evoluzione maturata in casa DRAEGER. La Ditta tedesca, sulla base delle sue esperienze, costruì sin dalla fine degli anni sessanta una serie di apparati rebreather a circuito semichiuso per il reimpiego di miscele elio-ossigeno, destinati inizialmente al settore militare ma poi impiegati anche in campo amatoriale/commerciale. Mi riferisco ai rebreather FGG III (F.G.G. era l’acronimo di fertiggas gemisch gerät cioè “apparato autonomo a miscela di gas”) e al SMS-I (S.M.S. per schlauchabhängige mi­schgas schwimmtauchgerät cioè “apparato per uso subacqueo per miscele fornite da ma­nichetta”). Entrambi erano concepiti per im­mersioni con campana subacquea e, come dice l’estensione dell’acronimo SMS, quest’ul­timo doveva essere collegato con un ombelicale. Per entrambi la profondità massima di impie­go era fissata a 200 metri: una quota, per l’epoca, di tutto riguardo.

La Marina Militare Italiana li adottò tra il 1969 e il 1972 per una fase di sperimentazione sulle immersioni profonde con miscele elio-ossigeno. Posso anche citare l’apparato da immersione profonda della GENERAL AQUADINE GS 2 e l’ADVANCED SERIES 3000 ideato da George Swindell. Entrambi erano progettati per l’impiego di miscele elio-ossigeno con ricircolo dei gas e depurazione della CO2 per mezzo di un filtro di assorbente chimico. Erano collegati a una manichetta che dalla superficie riforniva il sommozzatore di miscela ed erano equipaggiati con bombole di emergenza nel caso si fosse interrotto il flusso dalla superficie.

1

Apparati sviluppati negli anni settanta: sopra l’apparato
da immersione profonda general AQUADINE GS 2 e sotto
l’ADVANCED SERIES 3000 ideato da George Swindell.
Entrambi erano progettati per l’impiego di miscele
elio-ossigeno con ricircolo dei gas e depurazione
della CO2 per mezzo di un filtro di assorbente
chimico (da skin diver magazine)

2

Fine III parte  – continua

Fabio VitaleFabio Vitale

storico della subacquea tra i più importanti in Italia. Ha partecipato come esperto a numerose trasmissioni televisive tra cui lo speciale sui palombari di Alberto Angeli. E’ socio della Historical diving society e autore di numerosi libri sulla subacquea e sui suoi protagonisti

Alcune delle foto presenti in questo blog possono essere state prese dal web, citandone ove possibile gli autori e/o le fonti. Se qualcuno desiderasse specificarne l’autore o rimuoverle, può scrivere a Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. e provvederemo immediatamente alla correzione dell’articolo

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La conquista delle profondità – parte II

Dal sito "Ocean4future" un interessante articolo sulla storia della subacquea suddiviso in 4 parti. Ecco la seconda parte

Two of this team of firefighters of Squad 52 in Cincinnati Ohio wear Vajen Bader smoke protectors circa 1920

Chi avrebbe mai detto che gli elmi dei palombari furono ispirati
a quelli usati nei primi anni del XX secolo dai pompieri. Nella
foto due dei vigili del fuoco della 52 esima squadra di Cincinati
indossano le maschere di protezione dal fumo Vajen-Bader

Continuiamo con la seconda parte del viaggio per la conquista degli abissi. Nel suo brevetto, Charles Cooke spiega dettagliatamente tutte le problematiche inerenti la respirazione di aria compressa e fornisce, come soluzione, alcune miscele alternative dove è sostituito l’azoto con un altro diluente. 

foto 3

Il brevetto depositato da Charles John Cooke nel 1919
sull’uso di miscele sintetiche nella respirazione subacquea.

Le miscele dichiarate da Cooke sono tre: elio-ossigeno, argon-ossigeno e idrogeno-ossigeno. L’elio viene definito “abbastanza inerte” anche se da un punto di vista chimico, come diluente sarebbe preferibile l’idrogeno. Quest’ultimo, però, è pericoloso da gestire perché potenzialmente esplosivo quando miscelato con l’ossigeno. In pratica Cooke, nel 1919, già spiega in modo dettagliato e chiaro quelle che poi saranno le soluzioni adottate in concreto dopo anni di sperimentazioni. Tutto questo fermento sull’uso dell’elio derivava in parte dalla scoperta di grossi giacimenti di questo gas in Texas. L’elio era un gas relativamente giovane, essendo stato scoperto nel 1868 ma estratto solo a partire dal 1895 e inizialmente soltanto negli Stati Uniti. L’elio si poteva estrarre da minerali di uranio e torio attraverso un procedimento di decadimento radioattivo ma, più facilmente e in quantità maggiore, si poteva trovare anche in particolari giacimenti di gas naturali come quelli del Texas.

L’unico problema dell’epoca era che non si trovava ancora un’applicazione pratica per questo gas. Quindi, il monopolio nella estrazione dell’elio e la ricerca di un suo possibile utilizzo furono le principali motivazioni che portarono gli americani a sperimentare per primi le miscele elio-ossigeno fin dal 1921, anno nel quale la Marina degli Stati Uniti, a seguito degli stimoli dello stesso Thompson e di un altro ricercatore, Behnke, si dichiarò interessata a una sperimentazione nel campo delle miscele respiratorie a base di elio.

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Una fase della sperimentazione in camera iperbarica
sull’uso della miscela elio-ossigeno

Come abbiamo detto nella prima parte, i primi esperimenti furono condotti nella stazione sperimentale del Bureau of Mines di Pittsburgh e iniziarono testando l’effetto della miscela sugli animali per poi continuare gli studi con soggetti umani. Si comprese, dalle prime evidenze, che si era imboccata una strada molto interessante. In campo militare, la sperimentazione di miscele per l’alta profondità fu sospinta inizialmente dalla necessità di intervenire a quote sempre maggiori nell’opera di soccorso ai sommergibili affondati.

Nel 1925 e nel 1927 l’U.S. Navy aveva perso, a causa di collisioni accidentali, due sommergibili, l’S-51 e l’S-4. Gli affondamenti dei battelli si risolvevano di solito con la perdita totale dell’equipaggio e questo destava grande emozione tra l’opinione pubblica, oltre che, ovviamente, grande preoccupazione tra gli equipaggi dei sommergibili. Qualche volta parte dell’equipaggio sopravviveva alle prime fasi dell’affondamento, rifugiandosi nei comparti stagni non invasi dall’acqua ma, di solito, soccombeva nelle ore successive a causa dell’enorme difficoltà delle manovre di salvataggio. I palombari, quando era possibile, lavoravano sul sommergibile, ma spesso, causa la poca lucidità per l’aria respirata ad alta pressione, lo facevano con scarsissimi rendimenti.

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Per cercare una soluzione a questo problema, il Navy’s Bureau of Construction and Repair si mise al lavoro in sinergia con il Bureau of Mines che aveva una notevole esperienza nel campo delle apparecchiature a circuito chiuso ad ossigeno per il soccorso nelle miniere ed era soprattutto proprietario dei maggiori depositi di elio. Nel 1924 si cominciò la sperimentazione con immersioni “a secco” in camera iperbarica, arrivando a profondità intorno ai cinquanta metri. I primi risultati confermarono che il palombaro poteva raggiungere profondità elevate senza manifestare fenomeni di alterazione psicofisica. Si cominciavano a socchiudere delle porte.

fine II parte  – continua

Fabio VitaleFabio Vitale

Storico della subacquea tra i più importanti in Italia. Ha partecipato come esperto a numerose trasmissioni televisive tra cui lo speciale sui palombari di Alberto Angeli. E’ socio della Historical diving society e autore di numerosi libri sulla subacquea e sui suoi protagonisti

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La conquista delle profondità – parte I

Dal sito "Ocean4future" un interessante articolo sulla storia della subacquea suddiviso in 4 parti

palombaro

Sebbene lo scafandro da palombaro consentì l’accesso dell’Uomo al mondo sottomarino, le leggi fisiche ne avevano stabilito i limiti.  Usando l’aria per la respirazione, egli non poteva varcare le porte dell’alta profondità, dovendosi fermare tra i quaranta e i cinquanta metri. Una sfida per la conquista della profondità in cui gli esseri umani, per natura incontentabili e curiosi, ricercarono sempre nuove motivazioni per raggiungere gli abissi. In fin dei conti è la storia del progresso umano e  così avvenne anche nel campo dell’esplorazione sottomarina. Nell’arco dei primi settant’anni, si dovette passare attraverso il pagamento di un elevato tributo in vite umane, con tanti palombari caduti preda della malattia dei cassoni” (embolia gassosa) e della narcosi da azoto.

06a6e41cf9d427713318afba49316457In seguito l’Uomo cercò  in tutti i modi di oltrepassare tali ostacoli, venendo prima a capo del problema embolia con le tabelle di Haldane nel 1907. Successivamente si pose il quesito di come superare certe profondità al di là delle quali il palombaro perdeva di lucidità e quindi di capacità operativa. Era come se una certa ebbrezza, dovuta ad un eccesso di bevande alcoliche, lo pervadesse fino a fargli commettere qualche sciocchezza. Erano gli effetti della narcosi da azoto chiamata anche ebbrezza degli alti fondali o effetto Martini.

Nota: La narcosi da azoto si verifica talvolta durante le immersioni subacquee in presenza di pressioni ambientali superiori a circa 4 atmosfere (quindi oltre i  30 metri di profondità). Questo effetto è accentuato dalla velocità di discesa del subacqueo. Sebbene la narcosi d’azoto non sia strettamente legata a questo gas, in quanto coinvolge anche altri gas presenti nella miscela respirata sott’acqua, la quantità percentuale dell’azoto (78%) è predominante. All’aumentare della pressione esterna la pressione parziale dell’azoto disciolto nel sangue si innalza, aumentando la possibilità di legarsi all’ossigeno formando poi dell’ossido di diazoto (N2O). Questo gas è noto sin dall’antichità come analgesico e anestetico (detto anche gas esilarante). Esso provoca la narcosi da azoto, una sindrome da gas inerti anche nota come Ebbrezza da profondità come la etichettò Cousteau.

ebbrezzaConsiderando che il limite di utilizzo per l’aria compressa è stimato intorno ai 70 metri (oltre l’ossigeno contenuto diventa tossico) il limite per la subacquea ricreativa fu portato a 39 metri. Sebbene alcuni subacquei non subiscono la narcosi neppure oltre i 50 metri, ci sono casi riportati di persone affette da questa sindrome a quote molto inferiori. Ma perché effetto Martini? Come abbiamo spesso detto, gli effetti in immersione della narcosi da azoto sono molto simili a quelli provocati dall’uso di alcolici (vedi la vignetta) ed il soggetto subisce inizialmente uno stato di euforia e, qualora non risalga a quote meno profonde, la sua mente viene offuscata completamente. Il rischio di incidente può essere considerato molto elevato a profondità oltre i 40 metri.

foto 1Nel 1919 un incredibile inventore e innovatore, l’ingegner Elihu Thomson, ipotizzò che per prevenire i fenomeni narcotici dell’aria respirata sotto pressione bastasse sostituire l’azoto con un gas più leggero, vale a dire dal peso molecolare inferiore. Non fu l’unico e a testimoniarlo c’è un interessante documento storico, un brevetto depositato il 15 agosto del 1919 da Charles John Cooke, un inglese residente a Washington. Cooke deposita il brevetto di una miscela respiratoria per uso subacqueo. Le sue spiegazioni furono assolutamente sorprendenti e ci dicono che, già in quell’anno, vi era l’assoluta consapevolezza dei problemi legati alla respirazione di aria ad elevate pressioni e l’identificazione precisa nell’azoto quale agente scatenante questi problemi.

 

Foto 1: L’ingegnere Eliuh Thomson 

I primi esperimenti furono condotti nella stazione sperimentale del Bureau of Mines di Pittsburgh, un’agenzia federale del Dipartimento degli Interni degli Stati Uniti d’America fondata il 16 maggio 1910 e che fu soppressa nel settembre 1995. Nel corso del XX secolo fu il principale organismo del governo statunitense impegnato nella divulgazione e ricerca scientifica sull’uso, estrazione, lavorazione e conservazione delle risorse minerarie. Fu in quella agenzia sperimentale che iniziarono i primi esperimenti sull’effetto delle miscele gassose sugli animali che poi continuarono con studi su soggetti umani.

foto 2

Oggi solleverebbero molte critiche, su come vennero effettuati, ma questi studi furono fondamentali per la fisiologia subacquea e lo sviluppo delle miscele. che poi continuarono con studi su soggetti umani. Si comprese, dalle prime evidenze, che si era imboccata una strada molto interessante e fu pubblicato “The use and care of mine rescue breathing apparatus“. Questo studio fece da apripista per le applicazioni nelle immersioni sott’acqua.

fine I parte  – continua

Fabio VitaleFabio Vitale

Storico della subacquea tra i più importanti in Italia. Ha partecipato come esperto a numerose trasmissioni televisive tra cui lo speciale sui palombari di Alberto Angeli. E’ socio della Historical diving society e autore di numerosi libri sulla subacquea e sui suoi protagonisti

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Balene alle Isole Canarie

AVVISTAMENTO DI CETACEI NELL’ARCIPELAGO

Balene canarie cop

La ricchezza dei fondali marini delle Isole Canarie, la trasparenza e le eccellenti temperature delle sue acque, con una media di 19º C in inverno e 25º C in estate, attirano molti animali marini. Il grande vantaggio dell'arcipelago rispetto ad altri luoghi di osservazione è che molti di questi animali vi abitano stabilmente. Si tratta delle cosiddette specie residenti.

Ciò fa sì che alle Isole Canarie si possano trovare quasi 30 specie diverse, tra cui la balenottera azzurra e i delfini. La loro presenza è così comune che le isole sono diventate il luogo più importante d'Europa per osservarli in libertà. Poter godere di questi mammiferi e contemplarli in totale libertà nel loro habitat naturale è un'esperienza davvero indimenticabile per tutta la famiglia.

Delfino

Nelle Isole Canarie è possibile osservare fino a sei diverse specie di questi mammiferi acquatici, considerati tra gli animali più intelligenti del pianeta. Vedere i delfini in mare all'alba, dalle barche o perfino da alcuni punti della costa, è diventato un qualcosa di molto frequente per gli isolani.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Delfín

È molto frequente trovare il tipo di delfino più grande del mondo alle Isole Canarie, perché è dove vive stabilmente. Questo animale estremamente amichevole viaggia sempre in gruppo, interagendo e giocando con gli altri membri del suo branco. Il loro alto livello di socievolezza fa sì che non sia raro vederli avvicinarsi alle barche.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Calderón

Il capodoglio, che può arrivare fino a 20 metri di lunghezza, è uno dei mammiferi più grandi del mondo. Sebbene alle Isole Canarie sia possibile trovarli, il loro avvistamento non è così comune, perché tendono a immergersi frequentemente. Quando sono alla ricerca di cibo, le loro immersioni possono durare 35 minuti e raggiungere i 3 chilometri di profondità.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Cachalote

È la famiglia di cetacei misticeti più diversificata e varia, che comprende la megattera, uno dei residenti abituali delle Isole Canarie, che può arrivare fino a 16 metri di lunghezza. Per la sua forma particolare, è facilmente riconoscibile. Oltre al barbiglio, ha una gobba molto caratteristica che la differenzia dagli altri cetacei.

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Rorcual

 Libertà e protezione garantite

Le imbarcazioni abilitate per l’avvistamento di cetacei con le quali è possibile osservare delfini e balene esibiscono il distintivo Blue Boat, un sigillo che indica che adempiono le leggi e le normative che assicurano il trattamento rispettoso delle riserve marine e garantiscono la protezione degli animali che vivono nelle acque delle Isole Canarie.

 

Imagen artículo Ballenas en las Islas Canarias Barco

Gli appassionati che vogliono vivere l'esperienza di osservare i cetacei nel loro habitat naturale devono seguire in ogni momento le raccomandazioni dei professionisti del settore nelle Isole Canarie, i quali, conoscendo il comportamento di questi animali marini, ti guideranno attraverso le acque cristalline in qualsiasi periodo dell'anno.

 

FONTE:Logo canarie

News varie dal mare, Balene alle Isole Canarie

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Il ritrovamento del H.M.S Erebus e del H.M.S Terror, scomparse tra i ghiacci alla ricerca del passaggio a Nord Ovest

Dal sito Ocean4future un articolo di storia della navigazione probabilmente scordato dai più: il mito del Passaggio a Nord Ovest.

canada arctic ship erebus

Il mito del passaggio a Nord Ovest
La ricerca da parte degli Europei di una via più breve dall’Europa all’Asia, navigando verso occidente, iniziò con i viaggi di Cristoforo Colombo nel 1492 e continuò fino alla metà del XIX secolo con una lunga serie di spedizioni esplorative provenienti principalmente dall’Inghilterra, ovviamente interessata a ridurre le distanze per le sue reti commerciali.

erebus

Questi viaggi portarono nuove conoscenze geografiche sull’emisfero occidentale, in particolare sull’America del Nord verso l’Artico. Vi furono numerosi esploratori che tra il XVI e XVII secolo fecero scoperte geografiche sul Nord America. Molte località portano il nome di quegli audaci: John Davis, Henry Hudson e William Baffin. Nel 1670, l’incorporazione della Hudson’s Bay Company portò a un’ulteriore esplorazione delle coste canadesi e dell’interno dei mari artici. Nel XVIII secolo, tentarono la sorte in quei mari sconosciuti e non privi di pericoli grandi esploratori come James Knight, Christopher Middleton, Samuel Hearne, James Cook, Alexander MacKenzie e George Vancouver. Nei primi del 1800, si comprese che non esisteva nessun passaggio a nord-ovest navigabile. Ma le necessità economiche spinsero la Gran Bretagna ad organizzare una nuova spedizione.

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Franklin’s expedition

La spedizione di Franklin

Nel 1804, Sir John Barrow divenne secondo segretario dell’Ammiragliato e decise di intraprendere una nuova ricerca con la Royal Navy per ricercare il mitico Passaggio a Nord-Ovest a nord del Canada navigando verso il Polo Nord. Nei successivi quattro decenni, molti esploratori intrapresero l’esplorazione dell’Artico canadese. Tra questi c’era John Franklin, secondo in comando di una spedizione verso il Polo Nord sulle navi H.M.S. Dorothea e H.M.S. Trent nel 1818 e capo di due spedizioni via terra e lungo la costa artica del Canada tra il 1819 e 1827. Nel 1845, le scoperte avevano di fatto ridotto le parti rilevanti dell’Artico canadese a un’area di circa 181.300 chilometri quadrati. La spedizione di Franklin  in questa zona avrebbe dovuto navigare, dirigendosi a ovest attraverso Lancaster Sound e poi verso ovest e sud, evitando banchise di ghiaccio, iceberg e stretti pericolosi. La distanza da percorrere era stata calcolata in circa 1040 miglia nautiche.

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Sir John Barrow

Barrow, deciso ad intraprendere questa esplorazione, ricercò invano numerosi candidati come comandanti, scartati per mancanza di esperienza o per loro rifiuto. La sua scelta cadde sul 59 enne Sir John Franklin, un anziano comandante della Royal Navy, che aveva combattuto con  Nelson alla battaglia di Copenaghen. La spedizione doveva essere eseguita  con l’impiego di due navi, H.M.S. Erebus H.M.S. Terror, ognuna delle quali aveva già navigato con l’esploratore James Clark Ross. A Franklin fu dato il comando di H.M.S. Erebus, e Crozier fu nominato comandante del H.M.S Terror. Franklin ricevette il comando della spedizione il 7 febbraio 1845. Le due navi erano state costruite con criteri di robustezza con motori a vapore che servivano un’unica elica che consentiva una velocità di 4 nodi. Tenendo conto che le due navi non superavano le 400 tonnellate ciascuna non era certo molto. Ma tutto va visto a quell’epoca. Gli interni erano stati rinforzati per resistere alle morse dei ghiacci ed un sistema di riscaldamento interno era disponibile per dare conforto agli equipaggi. I timoni e le eliche potevano essere intubate per dare maggiore protezione. Furono frettolosamente imbarcate conserve alimentari per tre anni. Molte di esse erano conservate in scatola e questo fu un errore.  Poco dopo la partenza si scoprì che erano state confezionate in malo modo e molte furono scartate e gettate a mare perché vistosamente deteriorate. La maggior parte dell’equipaggio erano inglesi, molti dei quali provenienti dal North Country, così come un piccolo numero di irlandesi e scozzesi. A parte Franklin, Crozier e il tenente Graham Gore, gli unici altri ufficiali che erano veterani dell’Artico erano un assistente chirurgo e i due icemaster. Questo fu per Franklin il suo quarto ed ultimo viaggio. Dopo alcuni primi incidenti, le due navi furono bloccate dal ghiaccio nello Stretto di Victoria vicino a King William Island nell’Artico canadese. Cosa accadde dopo e’ stato solo ipotizzato sulla base dei resti ritrovati dopo oltre 160 anni. Il 22 aprile 1848, 105 sopravvissuti lasciarono le navi nel tentativo di raggiungere la terra ferma a piedi, ma nessuno sopravvisse. L’intera spedizione, 129 uomini tra cui Franklin, andò perduta.

sir John Franklin

Sir John Franklin

La spedizione di soccorso
Pressato dalla moglie di Franklin, Jane, l’Ammiragliato inglese intraprese nel 1848 una ricerca di soccorso per la spedizione scomparsa. Molte spedizioni successive si unirono alla caccia, raggiungendo nel 1850 undici navi britanniche e due americane. Molte di queste navi iniziarono al ricerca al largo della costa orientale dell’isola di Beechey, dove furono rinvenute le prime tracce  della spedizione, incluse le tombe di tre membri dell’equipaggio. Nel 1854, l’esploratore John Rae, mentre esplorava  la costa artica canadese a sud-est di King William Island, raccolse delle informazioni sul passaggio di Franklin dagli Inuit locali. Una ricerca condotta da Francis  McClintock nel 1859 scoprì una nota lasciata a King William Island con dettagli sul destino della spedizione. Le ricerche continuarono per gran parte del diciannovesimo secolo.

franklin member Terror Erebus

una delle sepolture ritrovate

Nel 1981, un gruppo di scienziati guidati da Owen Beattie, un professore di antropologia all’Università di Alberta, iniziò una serie di studi scientifici sulle tombe, i corpi e altre prove fisiche lasciate dagli uomini di Franklin sull’isola di Beechey e sull’isola di King William. Essi conclusero che gli uomini sepolti sull’isola probabilmente morirono di malattia. Gli stenti, il clima estremo e l’avvelenamento da piombo, ritrovato nei tessuti dei poveri resti, non gli fu favorevole. Forse fu a causa delle lattine male saldate o dei sistemi idrici installati sulle navi che lentamente avvelenarono l’equipaggio. Furono ritrovati tracce di tagli su altre ossa delle sepolture sull’isola di King William significando, forse, che i disperati si abbandonarono al cannibalismo. Le prove combinate di tutti gli studi suggeriscono che gli uomini dell’equipaggio non morirono tutti insieme. Fu una lunga agonia sulle banchise. Fu l’ipotermia, la fame, l’avvelenamento da piombo e le malattie insieme all’esposizione generale ad un ambiente estremo ed ostile senza un abbigliamento e nutrizione adeguati, che uccisero tutti i componenti della spedizione.

La scoperta
Il 1 settembre 2014, una ricerca canadese sotto la bandiera della “Victoria Strait Expedition” trovò due oggetti su Hat Island nel Golfo della Regina Maud, nei pressi  dell’isola di King William di Nunavut.  Il primo era un oggetto di legno, probabilmente appartenente all’occhio di gubia, apertura presente sulla superficie dei masconi delle navi dove trova alloggiamento l’àncora, e parte di una gruetta per il rilascio delle scialuppe con i marchi di due grandi frecce della Royal Navy.

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Immagine sonar scan dell’ H.M.S. Erebus nei pressi
del Queen Maud Gulf in Nunavut.
Parks Canada/The Canadian Press via AP

Il 9 settembre 2014, la spedizione annunciò che aveva finalmente localizzato una delle due navi della spedizione di Franklin. La nave, che dall’analisi dei tracciati sonar risultò essere il H.M.S. Erebus, è ancora in ottime condizioni, preservata dalle fredde acque artiche.

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Grazie alle immagini raccolte con il sonar a scansione laterale fu possibile esaminare nei dettagli persino il fasciame del ponte.

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Il relitto dell’H.M.S. Erebus giace su circa 40 piedi di profondità (circa 13 metri) ma la temperatura dell’acqua di mare richiede  attrezzature subacquee dedicate. Sebbene la posizione del relitto non sia stata rivelata la stampa ha rivelato che si trova nella parte orientale del Golfo della Regina Maud, ad ovest di O’Reilly Island.

Due anni dopo il ritrovamento dell’H.M.S. Erebus, il 12 Settembre 2016 fu annunciato che la Arctic Research Foundation expedition aveva finalmente ritrovato il 3 settembre 2016 il relitto del H.M.S. Terror a sud di King William Island su un fondale di circa 80 piedi (25 metri). I ricercatori a bordo della nave Arctic Research Foundation, la Martin Bergmann, erano entrati nel Terror Bay su suggerimento di un membro dell’equipaggio di etnia Inuit, Sammy Kogvik. Il marinaio si era ricordato di aver visto del legno conservato nel ghiaccio marino alcuni anni prima. Dopo una veloce esplorazione risultata infruttuosa, la nave si stava avvicinando all’uscita dalla baia, quando apparve sull’ecoscandaglio una sagoma interessante. Dopo un’ispezione ravvicinata con un ROV, i ricercatori capirono di aver trovato effettivamente un relitto.

Ma di cosa si trattava?
La nave si trovava a circa 60 miglia (96 km) a sud del luogo in cui i documenti affermavano che l’equipaggio avesse abbandonato la nave intrappolata dai ghiacci. I ricercatori analizzando le immagini raccolte con i piani della nave ebbero finalmente  la conferma del ritrovamento.

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Side scan sonar H.M.S. Terror

Il fatto che il relitto fosse perfettamente intatto ed appoggiato sul fondo del mare suggeri  che la nave non fu frantumata nella morsa dei ghiacci ma affondò in un secondo momento. Probabilmente l’equipaggio si era già avventurato sulla banchisa alla ricerca della terra ferma. Si concluse cosi dopo quasi 170 anni la ricerca della sfortunata spedizione.

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Analisi delle immagini e dei piani dell’Erebus

Gli archeologi continueranno a studiare i resti, miracolosamente conservati nelle fredde acque, per ottenere informazioni preziose sulle navi dell’epoca.

Ed il passaggio a Nord Ovest?
Probabilmente ci penseranno i cambiamenti climatici a renderlo percorribile. Questo sarà fonte di nuovi problemi geopolitici legati allo sfruttamento delle risorse presenti nelle terre e nei mari lasciati liberi dai ghiacci. Contenziosi territoriali sono già iniziati tra la Russia ed il Canada ma … di questo … ne parleremo in un prossimo articolo.

.Andrea Mucedola

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