Ingoiata dall'oceano: quella nave "vittima" del Triangolo del Diavolo

Un po di storia e misteri del mare

Poet

Ingoiata dall'oceano: quella nave "vittima" del Triangolo del Diavolo© Fornito da Il Giornale

Storia di Mariangela Garofano

Il 24 ottobre 1980 la nave Ss Poet, che trasporta grano, si imbarca da Philadelphia, negli Stati Uniti, diretta a Port Said, in Egitto. A bordo dell’enorme nave cargo c’è un equipaggio composto da 34 uomini, guidato dal capitano Gary Harper. Come riporta il sito Bermuda Attractions, prima di partire, Harper aveva notato che la prua era più pesante del resto della nave, forse a causa della grande quantità di grano a bordo. Ma la sua osservazione non desta alcuna preoccupazione, visto che la Poet aveva navigato con carichi dei quelle dimensioni svariate volte. Così la nave salpa, ma purtoppo non arriva mai a destinazione. Le sue tracce e quelle dei 34 membri dell’equipaggio si perdono tra le onde dell’Oceano Atlantico poche ore dopo la partenza, per non essere mai più ritrovate. 

La misteriosa scomparsa della Ss Poet e le ricerche del relitto

La Ss Poet viene costruita nel 1944 per trasportare le truppe della marina militare statunitense durante la Seconda guerra mondiale, fino al 1949. Per decenni rimane inattiva e soltanto nel 1979 viene acquistata dalla compagnia Hawaiian Eugene Corp e convertita in una nave mercantile da carico. La mattina del 24 ottobre 1980 la Poet parte dal porto di Philadelphia alla volta dell’Egitto, compiendo una tratta che la nave aveva affrontato più volte per consegnare il grano. L’ultima comunicazione registrata tra la Poet e la terraferma risale alle 8.30 del mattino, quando il capitano Harper annuncia che la nave sta attraversando Cape Henlopen, nella baia del Delaware, per iniziare la traversata oceanica.

Come da prassi, la nave avrebbe dovuto comunicare ogni due giorni la sua posizione e il livello di carburante, ma dopo 9 giorni senza ricevere alcuna comunicazione da parte della Poet, la compagnia navale Hawaiian Eugene Corp dichiara che la nave non è mai arrivata a Port Said. Ma perché comunicare la sparizione della nave dopo ben 9 giorni? Un'ipotesi è che la compagnia non aveva idea di dove si trovasse la nave e non sapendo da dove iniziare le ricerche, abbia aspettato il giorno del presunto arrivo in Egitto per dare la notizia della sua scomparsa. Non avendo ricevuto notizie, la Hawaiian Eugene Corp decise quindi di avviare le ricerche con l'aiuto della Guardia Costiera, in un'area vastissima di circa 750.000 metri quadrati, a partire dall'ultima posizione della Poet, Cape Henlopen

Ma le ricerche non diedero i risultati sperati dalla compagnia navale e dai parenti delle presunte vittime. Come riporta un articolo del Washington Post, scritto all'epoca della sciagura, non venne rinvenuto nemmeno un minuscolo resto del relitto della Poet, come fosse stata inghiottita dall'oceano. Gli inquirenti scoprirono però che il giorno successivo alla partenza della Poet, un ciclone si abbatté sull'Atlantico, con onde alte fino a 9 metri. Nelle settimane successive alla scomparsa, venne riferito agli inquirenti che due giorni dopo la partenza della Poet, la torre di controllo del porto di Baltimora ricevette un segnale di allarme, che si interruppe bruscamente, senza dare il tempo ai controllori di verificarne la provenienza. Se il segnale fosse partito dalla Poet, la posizione dell'allarme rilevata indicava che la nave si trovava nel Mar dei Sargassi, proprio in prossimità di quello che viene definito Triangolo delle Bermuda.

Il mistero del Triangolo delle Bermuda

Il Triangolo delle Bermuda è da secoli teatro di sparizione di navi e aerei, in un'area compresa tra l'arcipelago delle isole Bermuda, la parte orientale di Porto Rico e la punta più a sud della Florida. Le prime sparizioni risalgono al 1800, ma è solo negli anni '50 del Novecento che sono iniziate le prime speculazioni intorno al Triangolo delle Bermuda, divenuto luogo maledetto, e sui misteriosi incidenti.

Sono state fatte le congetture più azzardate su che cosa succeda alle navi e agli aerei che attraversano questo tratto di oceano: dai rapimenti alieni ai fenomeni paranormali, e ad anomalie magnetiche presenti in quell'area. Anche il mondo scientifico è diviso. Secondo alcuni studiosi, quella del Triangolo delle Bermuda è una zona dall'elevato traffico aeronavale, ed essendo molto vasta gli incidenti non sarebbero superiori alle altre zone del mondo ugualmente trafficate. Altri scienziati sostengono invece che la media degli incidenti e delle sparizioni in quell'area siano superiori alla media, a causa delle onde anomale e delle forti correnti presenti.

La conclusione delle indagini

Nonostante gli sforzi per recuperare il relitto e il suo equipaggio, la Ss Poet non fu mai ritrovata. Gli inquirenti poterono solo formulare delle ipotesi su cosa successe durante la traversata in quei giorni di ottobre del 1980. Una delle supposizioni riguarda un boccaporto difettoso, che venne notato prima della partenza, ma anche questa teoria fu scartata in quanto la Poet aveva navigato per anni con il boccaporto guasto, senza alcun problema. La teoria più accreditata resta quella secondo la quale la nave rimase vittima della violenta tempesta che presumibilmente la investì due giorni dopo la partenza e la trascinò sul fondo dell'oceano. La rapidità con cui la nave sarebbe naufragata spiegherebbe la mancata trasmissione di un segnale di soccorso. Dove sia finita la Ss Poet e gli altri mezzi scomparsi nel nulla rimane tutt'oggi un mistero, che alimenta le dicerie sul famigerato Triangolo delle Bermuda, chiamato anche Triangolo del Diavolo.

FONTE:Logo Ilgiornalepuntoit

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Affondando nel blu, i misteri dei canyon sottomarini e dei vortici oceanici profondi

Un altro interessantissimo articolo dal sito Ocean4future

zhemchung

Cosa sappiamo dei fondali abissali?
Per assurdo gli abissi del mare sono ancora un mistero per l’Uomo, sia dal punto di vista biologico che oceanografico. La nostra conoscenza sembra ridursi in funzione della profondità, dove la luce non penetra e tutto scompare. E’ solo grazie alla ricerca oceanografica che molti dei suoi misteri sono stati rivelati. Nelle profondità degli oceani, l’orografia in alcuni casi sembra ricalcare quella di superficie con montagne, altopiani e spaccature di dimensioni equivalenti se non maggiori del Grand canyon statunitense. Profonde fenditure che raggiungono le piane abissali, spesso estendendosi dalla costa fino al profondo bordo del mare della piattaforma.

Genesi dei canyon profondi 
Ci sono molte teorie sulla loro origine che non si escludono l’una dall’altra. Gli scienziati ritengono che i canyon si siano formati in Ere lontane a seguito di violenti fenomeni geologici e atmosferici che formarono queste gigantesche fenditure della Terra, modificando profondamente i contorni dei fondali.

canyon

Queste spaccature, originatesi milioni di anni orsono,
si spingono verso il largo, sprofondando negli abissi,
antiche testimonianze di quando i mari erano molto più bassi

Alcuni si formarono durante le glaciazioni, altri a causa del trasporto dei sedimenti generati da frane sottomarine di enormi masse di roccia. Nella loro genesi concorsero gli effetti dell’idrodinamismo (in particolare a seguito di violente tempeste) ed i movimenti orizzontali e verticali causati da eventi sismici provocati dalla frizione delle falde.  

canyon sottomarini

Profonde ferite della Terra
La ricerca oceanografica moderna ha individuato molti di questi antichi canyon che ancor oggi nascondono molti segreti. Anticamente i livelli dei mari erano più bassi a causa delle glaciazioni che occupavano gran parte del pianeta. Questi canyon erano in superficie ed ospitavano fiumi turbolenti che scavavano le pareti rocciose (come il fiume Colorado nel Grand canyon), trasportando sedimenti e detriti verso i proto mari. Con l’innalzarsi delle temperature, i ghiacci si sciolsero ed il livello dei mari si sollevò, sommergendo queste imponenti strutture geologiche. 

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Il canyon sottomarino più grande e profondo mai scoperto è stato scoperto nel Mare di Bering ed è stato chiamato Zhemchug Canyon. Le sue dimensioni sono straordinarie; per dare un’idea è più profondo del Grand Canyon1 ed ha un rilievo verticale che scende dalla piattaforma poco profonda del Mare di Bering fino alle profondità abissali del Bacino aleutiano fino ad una profondità di 2600 metri, estendendosi su un’area di 11.350 chilometri quadrati. Il canyon di Zhemchug si divide in due rami principali, ciascuno più grande di uno dei canyon marini continentali più famosi, il Monterey Canyon.

In quelle fredde e profonde acque ricche di ossigeno, flussi di correnti trasportano nutrienti planctonici che risalgono dalle profondità del canyon verso la superficie, fornendo sostentamento a numerose forme di vita. 

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Un granchio reale d’oro (Aequispinus lithodes)
su una spugna raccolti durante le ricerche nel
Zhemchug Canyon nel mare di Bering

Oltre agli aspetti geologici, il canyon di Zhemchug è quindi un habitat importante per molte specie della fauna marina oceanica. Ad esempio, mammiferi marini come le foche nordiche, i delfini e molte specie di balene vivono in quelle acque. Sulle pareti rocciose si ritrovano invertebrati, coralli e spugne. Tra di essi anche dei curiosi granchi che sono stati raccolti perla prima volta dai ricercatori della nave oceanografica M/V Esperanza che, da molti anni, studia le caratteristiche geologiche e biologiche del canyon. Nel 2016, l’oceanografa Michelle Ridgeway esplorò il canyon in una spedizione sponsorizzata da Greenpeace, raggiungendo la profondità di 536 metri sotto la superficie, scoprendo un habitat biologico straordinario.

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Un altro interessante canyon marino è il Canyon di Perth, situato al largo della costa dell’Australia occidentale. Secondo gli scienziati dell’Ocean Institute della University of Western Australia, che hanno condotto tra i primi l’esplorazione di questo canyon sottomarino, hanno scoperto che si estende dalla piattaforma continentale per oltre quattro chilometri sul fondo oceanico. Utilizzando sistemi di mappatura all’avanguardia ed il ROV della nave da ricerca Falkor, gli oceanografi lo hanno seguito fino ad una profondità di oltre 2000 metri, mappandone dettagliatamente 154 miglia quadrate.

perth canyon

Batimetria del grande canyon di Perth, Australia

Anche in questo caso, il canyon sommerso si è dimostrato un hot spot straordinario per la vita marina, attirando molti mammiferi marini grazie alla sua ricchezza ittica. Durante l’esplorazione i ricercatori hanno incontrato innumerevoli organismi tra cui anemoni venere ed un meraviglioso corallo dorato.

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La vita sul fondo del canyon Zhemchug 

Inoltre, lungo le sue pareti, sono state catalogate numerose creature abissali tra cui stelle e coralli molli a fungo. L’esplorazione ha impiegato sistemi allo stato dell’arte, che hanno permesso di raccogliere informazioni su queste strutture geologiche ma anche di ritrovare sul fondo un glider (un veicolo autonomo subacqueo impiegato per le ricerche oceanografiche) che era scomparso due anni prima.

Probabilmente, il canyon di Perth si formò più di cento milioni di anni fa, quando un antico fiume lo generò nella regione emersa che separava l’Australia occidentale dall’India. Una zona geologica particolare in cui la crosta terrestre e la litosfera si trovano in condizioni tettoniche distensive. Sotto l’azione delle forze generate dai movimenti convettivi del mantello terrestre sottostante, la crosta e la litosfera vennero separate, creando così questa profonda spaccatura.

Lo studio di queste enormi spaccature oceaniche fornisce la possibilità di conoscere habitat straordinari dal punto di vista geologico e biologico ma anche di comprendere meglio i fenomeni profondi delle masse d’acqua.

Attraverso l’analisi dei dati satellitari sono stati scoperti fenomeni oceanografici di grande importanza in prossimità dei canyon. Ad esempio, nelle vicinanze del canyon di Perth, nel giugno del 2006, è stato osservato dallo spazio un misterioso vortice profondo di 200 chilometri di diametro posto a mille metri di profondità che potrebbe influenzare gli equilibri che regolano il clima del pianeta.

I vortici profondi
Come ricorderete, gli oceani assolvono una funzione fondamentale sul cambiamento climatico perché contribuiscono ad assorbire le emissioni di anidride carbonica in maniera significativa. Un’azione importante per la nostra sopravvivenza che, solo negli oceani meridionali, trattiene il 40% della CO2. Alcuni scienziati ritengono che queste strutture geologiche possano in qualche modo modificare la circolazione dei volumi d’acqua al punto di creare vortici profondi abissali che faciliterebbero il trasferimento dell’anidride carbonica nelle profondità dell’Oceano, influenzando di conseguenza il clima del pianeta. 

ciclo co2 oceani

La natura dei grandi vortici profondi oceanici non è conosciuta ma si ritiene che siano generati dalle interazioni delle correnti e dei venti con le strutture sottostanti. Il primo vortice abissale fu scoperto da un satellite e venne descritto dagli scienziati come una “trappola marina mortale“, in quanto capace di risucchiare molte specie viventi, comprese le larve di pesce pelagiche che sono un importante nutrimento per le forme maggiori di vita marina. Quale sia il suo ruolo negli scambi chimico fisici delle masse d’acqua è però un mistero ancora tutto da scoprire.

Vortici oceanici simili ai buchi neri

Il vortice abissale dallo spazio

In uno studio pubblicato sul Journal of Fluid Mechanics, un team di scienziati ha analizzato i dati rilevati dalle immagini satellitari ed ha presentato un interesse modello matematico che li assimila ai buchi neri nelle profondità dello spazio. Gli scienziati ritengono che i canyon sottomarini potrebbero facilitare la formazione di questi vortici, facendo convergere le forze che li generano. Una tesi interessante che richiederà ulteriori studi nelle profondità degli abissi per capirne i segreti.

1 il Grand canyon ha un’altezza rispetto alla sua base di 1857 metri

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FONTE:logo ocean4future

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La conquista delle profondità – parte IV

Dal sito "Ocean4future" un interessante articolo sulla storia della subacquea suddiviso in 4 parti. Ecco la quarta parte

FGG III

 

Fusco, Bucher e la pesca del corallo
In campo civile, sempre in  Italia, uno dei primi utilizzatori dei rebreather fu Leonardo Fu­sco, entrato nella leggenda dei pescatori di corallo. Quando Leonardo Fusco incontrò per la prima volta nel 1970 un rebreather a miscele aveva già alle spalle una lunga carriera da profondista ad aria, un profondista per mestiere e non per sport, visto che fin dal 1953 aveva deciso di dedicarsi alla raccolta del corallo rosso

bucher corallo1

Bucher e il corallo

In quei primi anni la profondità alla quale si raccoglieva il corallo non superava i quaranta metri, quota determinata dall’uso di attrezzature subacquee rudimentali o comunque ancora poco evolute. Eravamo agli inizi nella costruzione degli autorespiratori ad aria (ARA) e con l’aumentare della profondità questi non riuscivano a garantire un idoneo flusso di aria al subacqueo.

Con l’andare degli anni le profondità per la pesca al corallo via via aumentarono grazie al progredire delle attrezzature subacquee, favorito anche dalle sperimentazioni audaci di questi pionieri delle profondità. Arriviamo alla fine degli anni cinquanta, Leonardo Fusco, all’isola di Montecristo, raccoglieva corallo fino a 85 metri di profondità, una quota impensabile per quegli anni. Poi la caccia all’oro rosso si spostò in Sardegna e qui le profondità rimasero costantemente elevate, tra gli ottanta e i cento metri, sempre con l’uso di aria.

subconARA

L’attrezzatura di da corallaro di Bucher era composta
da due bombole da 14 litri (con erogatore monostadio)
ed una terza da sette litri di riserva con erogatore bistadio.

La grande esperienza di questi profondisti, tra i quali non possiamo non ricordare Raimondo Bucher, riusciva in qualche modo a contenere i rischi di queste immersioni ai limiti del possibile. Ciò nonostante in quegli anni il numero di subacquei che persero la vita inseguendo l’oro rosso fu alto, vittime alcune volte dell’imponderabile e dei risicati margini di sicurezza ed altre volte della poca esperienza nell’immersione profonda. Un’esperienza che i grandi di quel periodo avevano acquisito per gradi in un decennio di attività.

Ho voluto ricordare Bucher per primo e non per caso. Il Comandante Bucher fu un grande profondi­sta, con migliaia di immersioni a caccia di corallo, anche a quote oltre i 100 metri di profondità, e aveva la convinzione che per lui, ex ufficiale pilota dell’Aeronautica Militare, questa attività dovesse essere confinata nei limiti dello sport e quindi con i mezzi “normali” che si avevano a disposizione. In altre parole  con erogatore, bombole e aria compressa, il resto era dato dall’esperienza e allenamento. Leonardo Fusco, invece, aveva un concetto diverso, non da sportivo ma da “lavoratore degli abissi”. Il corallo era per lui la sua impresa commerciale, la cosa che gli permetteva di vivere e di guardare al futuro e in questo senso cercava sempre di sviluppare sistemi e tecnologie che gli permettessero di lavorare in maggiore sicurezza e con più efficienza.

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Leonardo Fusco (con la muta) osserva i preparativi
del suo rebreather FGG III da lui stesso modificato.

Fu uno dei primi a sistemare una camera di decompressione sulla propria barca ed a cercare di sviluppare delle tabelle di decompressione “ad hoc” per i corallari. Fu in questa attività di ricerca e perfezionamento che si imbatté nel 1970 in uno dei primi rebreather che utilizzava delle miscele elio-ossigeno. L’obiettivo era di avvicinarsi in modo più efficiente a profondità dagli 80 ai 120 metri dove i fondali sardi promettevano abbondanti raccolte di corallo rosso. Fusco sperimentò un primo rebreather di costruzione americana in camera iperbarica ma non ne rimase assolutamente convinto e abbandonò questa strada fino al 1972, anno nel quale fu introdotto alla DRAEGER dove si stava perfezionando da alcuni anni un rebreather elio-ossigeno a circuito semichiuso abilitato a quote fino a 200 metri di profondità, il famoso FGG III, nato come apparecchio per uso militare. Evidentemente  la possibilità di una sperimentazione commerciale abbatté le barriere del segreto industriale. Fu così che Leonardo Fusco, dopo alcune sperimentazioni in camera iperbarica ed un corso di abilitazione al suo uso, ne acquistò due modelli per cominciare l’avventura dell’heliox.

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Leonardo Fusco poco prima di immergersi con il FGG III

 

Attento come sempre alla sicurezza e comprendendo che l’uso che ne avrebbe fatto era diverso da quello per cui era stato concepito, Leonardo Fusco, da buon italiano genialoide e “fai da te”, apportò delle modifiche al rebreather. L’FGG III era protetto da una calandra idrodinamica gialla in vetroresina e su questa vennero installate due “rastrelliere” per ospitare due bombole da sette litri ciascuna. Una conteneva una miscela di heliox al 15% di ossigeno e l’altra aria, entrambe caricate a 250 atmosfere. In caso di malfunzionamento del rebreather, Fusco, respirando dalla bombola a heliox, avrebbe avuto il tempo di risalire fino a 40 metri di profondità dove avrebbe potuto poi utilizzare la bombola di aria e giungere così alla quota dove, dalla superficie, gli sarebbe stata fornita la manichetta per la decompressione. L’FGG III gli consentì immersioni a oltre cento metri di profondità con una permanenza sul fondo che poteva arrivare fino a trenta minuti, il tutto in completa padronanza dei sensi. In sintesi,  un bel progresso rispetto alle immersioni a 80-90 metri ad aria che permettevano pochi minuti sul fondo e con uno stato di ebbrezza latente.

C’è una frase di Leonardo Fusco, riferita al periodo dell’heliox, che voglio citare. E’ tratta dal suo bel libro corallo rosso e che ci svela uno dei volti della conquista delle profondità:
… per più di quindici anni mi sono immerso migliaia di volte su scogliere comprese su batimetrie che vanno dagli ottanta ai centocinquanta metri di profondità. per la prima volta avevo la sensazione che il mondo subacqueo sul quale in quel momento stavo vivendo fosse il mio pianeta natale, il mio elemento naturale. e potevo assaporarne, nel pieno delle mie facoltà sia mentali che visive e tattili, tutte le bellezze …”.

Fabio Vitale Fabio Vitale

Storico della subacquea tra i più importanti in Italia. Ha partecipato come esperto a numerose trasmissioni televisive tra cui lo speciale sui palombari di Alberto Angeli. E’ socio della Historical diving society e autore di numerosi libri sulla subacquea e sui suoi protagonisti

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News varie dal mare, La conquista delle profondità – parte IV

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La conquista delle profondità – parte III

Dal sito "Ocean4future" un interessante articolo sulla storia della subacquea suddiviso in 4 parti. Ecco la terza parte

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Immersioni a secco
Nel 1924 cominciò la sperimentazione con immersioni “a secco”, ovvero in camera iperbarica, ad elio-ossigeno, arrivando a profondità intorno ai 50 metri. I primi risultati confermarono che il palombaro poteva raggiungere profondità elevate senza manifestare fenomeni di alterazione psicofisica. Dopo le sperimentazioni delle prime miscele sintetiche, negli anni Trenta, le loro applicazioni avvennero soprattutto in campo militare principalmente negli Stati Uniti, in Gran Bretagna ed in Russia. In campo civile si segnò invece il passo. Furono le necessità dell’industria dell’off-shore, che cercava di portare uomini ad operare a quote sempre maggiori per posizionare le attrezzature necessarie per l’estrazione del petrolio dai giacimenti sottomarini, a costringere i militari a condividere i progressi in questo campo.

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Il 22 dicembre 1938, Edgar End e Max Nohl effettuarono la prima immersione ad aria in saturazione in camera (27 ore) a 101 piedi (30,8 metri) al County Hospital a Milwaukee, Wisconsin. La loro decompressione durò  ben cinque ore lasciando Nohl solo con una lieve patologia da decompressione che fu tra l’altro risolta con una ricompressione successiva. Nel 1939, i subacquei della US Navy utilizzarono apparati con miscele elio ed ossigeno (heliox) per il salvataggio dell’equipaggio del USS Squalus, affondato su un fondale di 74 metri durante una immersione di prova. Il salvataggio del personale dello Squalus coincise con la ricerca  di Albert Behnke e Oscar Yarbrough del Navy Experimental Diving Unit sull’uso dell’heliox in profondità. Una delle loro prime immersioni sperimentali, sempre in camera iperbarica, fu effettuata alla quota di 152 metri.

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Albert Abraham Benkhe

Nel 1942, fu lo stesso Behnke a proporre l’idea di esporre gli esseri umani ad un aumento delle pressioni ambientali abbastanza a lungo per far diventare saturi di gas inerti il sangue ed i tessuti. Benkhe comprese anche la differenza dei sintomi dell’EGA da quelli della malattia da decompressione, suggerendo l’uso di ossigeno nella terapia iperbarica. Nel 1950, George F. Bond della US Navy iniziò i primi esperimenti di  immersioni in saturazione e, nel 1957, iniziò il progetto Genesis al Naval Submarine Medical Research Laboratory con lo scopo di dimostrare che gli esseri umani avrebbero potuto sopportare un’esposizione prolungata a diversi gas di respirazione con un aumento delle pressioni ambientali.

Bond and Tuckfield buoyant ascent

Bond e Tuckfield

Bond intuì che, a saturazione raggiunta, la quantità di tempo necessario per la decompressione dipendeva dalla profondità e dal gas respirato. Questo fu l’inizio delle immersioni in  saturazione e del programma Man in the Sea della US Navy. Nello stesso anno (1950) la FOXBORO negli Stati Uniti e la SOS (Bend-O-Matic), in Italia, incominciarono a  commercializzare i primi strumenti analogici per il calcolo dei tempi di decompressione (decometers). I primi computer digitali, progettati per il Defense and Civil Institute of Environmental Medicine (DCIEM) canadese apparvero a metà degli anni ’50 ed impiegavano un modello matematico di Kidd-Stubbs modificato che utilizzava quattro compartimenti in serie.

I primi habitat subacquei
Negli anni sessanta furono diverse le sperimentazioni in cerca di sviluppare nuove metodologie per l’alta profondità. Tra queste anche quelle che prevedevano la posa in fondo al mare di speciali habitat in cui l’uomo potesse vivere.  I primi esperimenti di “vita subacquea” in habitat posti oltre i 50 metri di profondità  avvennero nel 1961 con il “men in the sea I” alla quota di 61 metri e, nel 1964, “men in the sea II” alla quota di 131 metri.

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Nel 1964, il SEALAB I, un habitat composto da due moduli fu posato sul fondo. A capo della missione fu destinato George F. Bond. I risultati ottenuti furono fondamentali per lo sviluppo delle teorie sulla saturazione. Il SEALAB I, posizionato alla profondità di cinquantotto metri, dimostrò che le immersioni di saturazione in mare aperto erano fattibili per lunghi periodi e fornì numerose informazioni sul posizionamento degli habitat, sull’uso pratico degli ombelicali, sul controllo dell’umidità, e la decodifica delle voci deformate dall’elio per ridurre l’effetto “paperino”.

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Pittorico del SEALAB III

Gli esperimenti continuarono nel 1965 con il SEALAB II alla  quota di –62 m e “precontinente III” di Cousteau alla quota di 100 m di profondità. Quattro anni più tardi il SEALAB III utilizzò un habitat SEALAB II rinnovato, posto a 185 metri di profondità con cinque squadre di nove subacquei che trascorsero ognuno dodici giorni al suo interno, sperimentando nuove tecniche di salvataggio e la conduzione di studi oceanografici profondi.

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I progetti di Cousteau – Precontinente

La sfida di Keller
Arriviamo a Hannes Keller, un matematico e fisico teorico, che cominciò ad interessarsi delle problematiche delle immersioni profondeKeller sviluppò in seguito nuove tabelle di decompressione per le miscele di gas con il supporto di Albert A. Bühlmann che gli suggerì i gas più adatti.

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Tabelle che testò personalmente e con successo sia al Lago di Zurich, dove raggiunse una profondità di 400 piedi (120 metri), sia in Italia, al lago Maggiore, dove scese a 728 piedi (222 metri). A queste sperimentazioni ne seguirono altre che purtroppo richiesero un doloroso pegno in vite umane. Fu il caso della celebre immersione di Hannes Keller e Peter Small al largo di Santa Catalina island, California. Keller, una volta arrivati a 305 metri, uscì dalla campana per primo indossando uno speciale autorespiratore. Al rientro dei due operatori, durante la fase di risalita, avvennero un certo numero di incidenti sia a Keller che Small e, dei due, solo Keller riuscì a sopravvivere all’immersione.

Dagli anni settanta del XX secolo le sperimentazioni delle immersioni commerciali presero il sopravvento rispetto a quelle in ambiente militare. Potremmo dire che le due strade incominciarono a viaggiare parallele e qualche volta la sperimentazione in ambito militare si avvalse delle esperienze maturate nelle immersioni commerciali. Le prime immersioni di saturazione commerciali furono eseguite nel 1965 da Westinghouse per sostituire dei rack difettosi a 200 piedi (61 metri) sulla Mountain Dam Smith. Dagli apparati di immersione che abbiamo preso in esame nelle precedenti parti nacquero una serie di apparecchiature per alti fondali, in concomitanza allo sviluppo delle tecniche “in saturazione”. Potremmo quindi dire che il vecchio scafandro elastico, che utilizzava le miscele di elio e ossigeno (HELIOX) a circuito chiuso, si trasformò in uno scafandro leggero, dotato sia di un apparato di ricircolo sia di rifornimento di miscela dalla superficie attraverso un cavo ombelicale. L’apparato venne poi perfezionato con un solo ombelicale dalla superficie per la respirazione in circuito aperto, sicuramente meno complicata e pericolosa per il palombaro ma anche bisognevole di maggiori quantitativi di gas.

I primi rebreather di Draeger

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Il rebreather della DRAEGER FGG III con le calandre
aperte per mostrare i componenti interni

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DRAEGER
Nel campo dei rebreather voglio solo accennare, da un punto di vista storico, all’evoluzione maturata in casa DRAEGER. La Ditta tedesca, sulla base delle sue esperienze, costruì sin dalla fine degli anni sessanta una serie di apparati rebreather a circuito semichiuso per il reimpiego di miscele elio-ossigeno, destinati inizialmente al settore militare ma poi impiegati anche in campo amatoriale/commerciale. Mi riferisco ai rebreather FGG III (F.G.G. era l’acronimo di fertiggas gemisch gerät cioè “apparato autonomo a miscela di gas”) e al SMS-I (S.M.S. per schlauchabhängige mi­schgas schwimmtauchgerät cioè “apparato per uso subacqueo per miscele fornite da ma­nichetta”). Entrambi erano concepiti per im­mersioni con campana subacquea e, come dice l’estensione dell’acronimo SMS, quest’ul­timo doveva essere collegato con un ombelicale. Per entrambi la profondità massima di impie­go era fissata a 200 metri: una quota, per l’epoca, di tutto riguardo.

La Marina Militare Italiana li adottò tra il 1969 e il 1972 per una fase di sperimentazione sulle immersioni profonde con miscele elio-ossigeno. Posso anche citare l’apparato da immersione profonda della GENERAL AQUADINE GS 2 e l’ADVANCED SERIES 3000 ideato da George Swindell. Entrambi erano progettati per l’impiego di miscele elio-ossigeno con ricircolo dei gas e depurazione della CO2 per mezzo di un filtro di assorbente chimico. Erano collegati a una manichetta che dalla superficie riforniva il sommozzatore di miscela ed erano equipaggiati con bombole di emergenza nel caso si fosse interrotto il flusso dalla superficie.

1

Apparati sviluppati negli anni settanta: sopra l’apparato
da immersione profonda general AQUADINE GS 2 e sotto
l’ADVANCED SERIES 3000 ideato da George Swindell.
Entrambi erano progettati per l’impiego di miscele
elio-ossigeno con ricircolo dei gas e depurazione
della CO2 per mezzo di un filtro di assorbente
chimico (da skin diver magazine)

2

Fine III parte  – continua

Fabio VitaleFabio Vitale

storico della subacquea tra i più importanti in Italia. Ha partecipato come esperto a numerose trasmissioni televisive tra cui lo speciale sui palombari di Alberto Angeli. E’ socio della Historical diving society e autore di numerosi libri sulla subacquea e sui suoi protagonisti

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News varie dal mare, La conquista delle profondità – parte III

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La conquista delle profondità – parte II

Dal sito "Ocean4future" un interessante articolo sulla storia della subacquea suddiviso in 4 parti. Ecco la seconda parte

Two of this team of firefighters of Squad 52 in Cincinnati Ohio wear Vajen Bader smoke protectors circa 1920

Chi avrebbe mai detto che gli elmi dei palombari furono ispirati
a quelli usati nei primi anni del XX secolo dai pompieri. Nella
foto due dei vigili del fuoco della 52 esima squadra di Cincinati
indossano le maschere di protezione dal fumo Vajen-Bader

Continuiamo con la seconda parte del viaggio per la conquista degli abissi. Nel suo brevetto, Charles Cooke spiega dettagliatamente tutte le problematiche inerenti la respirazione di aria compressa e fornisce, come soluzione, alcune miscele alternative dove è sostituito l’azoto con un altro diluente. 

foto 3

Il brevetto depositato da Charles John Cooke nel 1919
sull’uso di miscele sintetiche nella respirazione subacquea.

Le miscele dichiarate da Cooke sono tre: elio-ossigeno, argon-ossigeno e idrogeno-ossigeno. L’elio viene definito “abbastanza inerte” anche se da un punto di vista chimico, come diluente sarebbe preferibile l’idrogeno. Quest’ultimo, però, è pericoloso da gestire perché potenzialmente esplosivo quando miscelato con l’ossigeno. In pratica Cooke, nel 1919, già spiega in modo dettagliato e chiaro quelle che poi saranno le soluzioni adottate in concreto dopo anni di sperimentazioni. Tutto questo fermento sull’uso dell’elio derivava in parte dalla scoperta di grossi giacimenti di questo gas in Texas. L’elio era un gas relativamente giovane, essendo stato scoperto nel 1868 ma estratto solo a partire dal 1895 e inizialmente soltanto negli Stati Uniti. L’elio si poteva estrarre da minerali di uranio e torio attraverso un procedimento di decadimento radioattivo ma, più facilmente e in quantità maggiore, si poteva trovare anche in particolari giacimenti di gas naturali come quelli del Texas.

L’unico problema dell’epoca era che non si trovava ancora un’applicazione pratica per questo gas. Quindi, il monopolio nella estrazione dell’elio e la ricerca di un suo possibile utilizzo furono le principali motivazioni che portarono gli americani a sperimentare per primi le miscele elio-ossigeno fin dal 1921, anno nel quale la Marina degli Stati Uniti, a seguito degli stimoli dello stesso Thompson e di un altro ricercatore, Behnke, si dichiarò interessata a una sperimentazione nel campo delle miscele respiratorie a base di elio.

foto 4

Una fase della sperimentazione in camera iperbarica
sull’uso della miscela elio-ossigeno

Come abbiamo detto nella prima parte, i primi esperimenti furono condotti nella stazione sperimentale del Bureau of Mines di Pittsburgh e iniziarono testando l’effetto della miscela sugli animali per poi continuare gli studi con soggetti umani. Si comprese, dalle prime evidenze, che si era imboccata una strada molto interessante. In campo militare, la sperimentazione di miscele per l’alta profondità fu sospinta inizialmente dalla necessità di intervenire a quote sempre maggiori nell’opera di soccorso ai sommergibili affondati.

Nel 1925 e nel 1927 l’U.S. Navy aveva perso, a causa di collisioni accidentali, due sommergibili, l’S-51 e l’S-4. Gli affondamenti dei battelli si risolvevano di solito con la perdita totale dell’equipaggio e questo destava grande emozione tra l’opinione pubblica, oltre che, ovviamente, grande preoccupazione tra gli equipaggi dei sommergibili. Qualche volta parte dell’equipaggio sopravviveva alle prime fasi dell’affondamento, rifugiandosi nei comparti stagni non invasi dall’acqua ma, di solito, soccombeva nelle ore successive a causa dell’enorme difficoltà delle manovre di salvataggio. I palombari, quando era possibile, lavoravano sul sommergibile, ma spesso, causa la poca lucidità per l’aria respirata ad alta pressione, lo facevano con scarsissimi rendimenti.

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Per cercare una soluzione a questo problema, il Navy’s Bureau of Construction and Repair si mise al lavoro in sinergia con il Bureau of Mines che aveva una notevole esperienza nel campo delle apparecchiature a circuito chiuso ad ossigeno per il soccorso nelle miniere ed era soprattutto proprietario dei maggiori depositi di elio. Nel 1924 si cominciò la sperimentazione con immersioni “a secco” in camera iperbarica, arrivando a profondità intorno ai cinquanta metri. I primi risultati confermarono che il palombaro poteva raggiungere profondità elevate senza manifestare fenomeni di alterazione psicofisica. Si cominciavano a socchiudere delle porte.

fine II parte  – continua

Fabio VitaleFabio Vitale

Storico della subacquea tra i più importanti in Italia. Ha partecipato come esperto a numerose trasmissioni televisive tra cui lo speciale sui palombari di Alberto Angeli. E’ socio della Historical diving society e autore di numerosi libri sulla subacquea e sui suoi protagonisti

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Non arrenderti mai amico mio, impare a cercare sempre il sole, anche quando sembra che venga la  tempesta ... e lotta!

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