Breve storia dell’autorespiratore a ossigeno – prima parte

Dal sito Ocean4future una lezione sugli autorespiratori ad ossigeno a cura di Fabio Vitale

Fleuss

 

Scritto da Fabio Vitale

REX29 1 Autorespiratore

Autorespiratore ad ossigeno (ARO) prodotto dalla Cressi
sub, completo di due bombole e di maschera simile ai
modelli usati durante la guerra dai nostri sommozzatori
… ma quando nacquero i primi autorespiratori ad ossigeno?

La nascita degli autorespiratori ad ossigeno

Questa storia, come tutte le storie che parlano di invenzioni, nasce da lontano ma si materializza verso i primi anni del 1900 quando, frutto dell’evoluzione degli studi sull’ossigeno (scoperto scientificamente nel 1771 per merito del farmacista svedese Karl William Scheele), si vedono sulle pagine dei periodici illustrati, immagini di uomini muniti di strane apparecchiature che, indossate, li rendevano al contempo mostruosi e affascinanti. Siamo negli anni del grande sviluppo industriale dove tutto era frenetico: le scoperte, la produzione industriale, l’estrazione di materie prime e soprattutto la produzione di energia utile a tutti questi processi, energia prodotta per lo più bruciando enormi quantità di carbone.

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Apparato di soccorso a ossigeno a circuito chiuso te­desco
Draeger modello 1916/1917. Il primo modello fu
commercializzato nel 1903 e subì successivamente quattro
modifiche arrivando in ultimo al modello 1916/1917.
Era sicuramente uno dei più affidabili e fu usato largamente
in tutto il mondo. (da Self-contained mine rescue
oxygen breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

La sua estrazione avveniva in miniere che si moltiplicavano a vista d’occhio e con esse cresceva anche il numero degli incidenti e dei minatori coinvolti nelle viscere della terra. Incidenti dovuti alla presenza, naturale in questi giacimenti, del grisou, un gas inodore e incolore contenente prevalentemente metano, molto infiammabile che già a una percentuale intorno al 7/10% costituiva una miscela esplosiva molto potente. L’accumulo di questo gas nelle gallerie provocava spesso delle esplosioni e degli incendi che rendevano la miniera impraticabile per lo sviluppo dei fumi tossici. Proprio per prestare soccorso ai minatori coinvolti in questi incidenti, si sviluppò quindi l’autorespiratore a ricircolo di ossigeno che permetteva di addentrarsi in ambienti invasi da gas tossici senza correre il rischio di rimanerne avvelenati. Erano facili da usare, assolutamente pratici perché autonomi e non necessitavano di manichette di rifornimento da trascinarsi appresso.

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Apparato inglese a ossigeno a circuito chiuso Fleuss-Proto
costruito dalla Siebe & Gorman. Derivava da uno dei primi
autorespiratori a ossigeno a circuito chiuso ideato dal
pioniere inglese Henry Albert Fleuss nel 1878/79. Venne
adottato principalmente dalle forze armate in­glesi e
americane (da Self-contained mine rescue oxygen
breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

L’operatore respirava l’ossigeno fatto affluire all’interno di un “sacco polmone” secondo la tecnica del circuito chiuso. In pratica, si inspirava l’ossigeno posto all’interno di questo sac­co e, sempre nello stesso sacco, veniva espirata l’aria proveniente dai polmoni, ric­ca quindi di anidride carbonica e con il residuo ossigeno non utilizzato. Il gas espirato pri­ma di arrivare nel sacco polmone passava at­traverso un filtro riempito di un composto chimico a base di soda che serviva a trattenere la dannosa CO2.

Al sacco erano collegate una o più bombole di ossigeno che lo facevano affluire nel sacco in quanto necessario a reintegrare quello consumato du­rante la respirazione. In questo modo si pote­va respirare senza contatto con l’atmosfera esterna, dove potevano essere pr­esenti i gas venefici. Sfogliando libri e cataloghi dell’epoca vediamo come la maggior parte di questi autorespiratori venisse prodotta dalle stesse aziende molto attive nel campo subacqueo e cioè nella produzione di apparecchiature da palombaro. E’ evidente che l’esperienza cumulata nella ricerca sulle apparecchiature di immersione favoriva tutto quello che ruotava sui sistemi di respirazione.

 

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Apparato americano a ossigeno a circuito chiuso McCaan.
Raccoglieva le esperienze tedesche e inglesi in un
autorespiratore molto compatto (da Self-con­tained mine
rescue oxygen breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

 

Dall’uso “terrestre” a quello subacqueo il passo fu breve, anche se la cosa, in fin dei conti, non prese un grande sviluppo. Infatti, l’uso dell’ossigeno puro come gas respiratorio per le apparecchiature subacquee poneva forti limiti per la sua tossicità se respirato sotto pressione. Inoltre non si riusciva a vedere l’utilità operativa di un uomo sott’acqua munito di tale autorespiratore così limitato (non dimentichiamoci che le pinne non erano ancora state sviluppate), per lavorare sott’acqua l’attrezzatura riconosciuta era solo lo scafandro da palombaro e niente avrebbe potuto prenderne il posto. L’unico uso che se ne fece fino alle soglie della seconda Guerra Mondiale fu quello di autorespiratore di emergenza per la fuoriuscita dai sommergibili in avaria. Per vederlo trasformato da brutto anatroccolo in cigno dovremo attendere il genio di due italiani che indirettamente ne decreteranno il successo.

Sono interessanti i disegni del brevetto dell’apparato di respirazione a ossigeno a circuito chiuso depositato da Fleuss nel 1879. Come si può evincere dal disegno, attraver­so l’uso di uno scafandro da palombaro modificato, era stato previsto anche un uso subacqueo per questo di­spositivo. Fleuss non fece altro che migliorare e rende­re fruibile quanto già ideato verso la metà del 1800. In­fatti, a tale periodo si possono ricondurre le prime rea­lizzazioni di un autorespiratore a circuito chiuso costi­tuito da bombole di ossigeno e un contenitore con all’interno i reagenti chimici in grado di fissare la CO2.

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Si trattava dell’apparato del francese Sandala del 1842 e di quello di un altro francese, de Saint-Simon Siccard del 1849. Le prime sperimentazioni subacquee di questi apparati furono spesso rischiose e sarà solo nel 1879, grazie a Paul Bert, che si chiariranno gli aspetti di tossicità legati alla respirazione di ossigeno puro sotto pressione.

Fine prima parte – continua 

Fabio Vitale

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Dell’autore si consiglia la lettura dei seguenti libri:

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Fabio Vitale1 


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La Taranto greca ed il mare

Ancora un interessante argomento di storia dal sito Ocean4future, a cura di Fabio Caffio

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Scritto da Fabio Caffio

I coloni spartani, che in un giorno del 706 a.C. presero il mare diretti verso la futura Τάρας conoscevano bene le potenzialità del territorio che andavano a colonizzare. Gli storici greci hanno tramandato varie versioni della decisione che spinse alcuni abitanti di Sparta a fondare la nuova città dopo essere stati messi al bando. Pare che essi fossero implicati in una congiura essendosi ribellati per essere stati privati dei loro diritti quali figli illegittimi nati durante l’assenza dagli Spartani impegnati nelle guerre messeniche, e perciò irrisi come Partheni.

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Strabone nella sua Geografia (VI,3,2) ricorda che i cittadini, scoperta la congiura, ordinarono a Falanto che ne era a capo di recarsi “a Delfi per interrogare il dio su di una colonia e il dio vaticinò: “Io ti ho concesso Satyrio, perché tu possa popolare la pingue regione di Taranto e diventare il flagello degli Japigi”. Il passo di Strabone ci illumina sui metodi seguiti dai Greci nella fondazione di una colonia: l’incarico veniva affidato ad un capo della spedizione, nella specie Falanto, il quale si rivolgeva prima della partenza ad un oracolo. È chiaro che l’oracolo, pur essendo una riconosciuta autorità religiosa, non vaticinava a caso la località da colonizzare, ma si rifaceva a tradizioni di viaggio precedenti aggiornate da notizie recenti.

mercantile mosaico romano tunisia

Nave mercantile su mosaico romano , II secolo,
140 × 187 cm. Località: Hadrumetum / Sousse (Tunisia).

Le coste del Golfo di Taranto erano frequentate, sin dal XIII secolo a.C., da popolazioni della Grecia arcaica provenienti in particolare da Creta. Sicché non deve meravigliare che l’odierno Capo Saturo situato a poche miglia da Taranto fosse stato indicato con precisione dalla Pizia, sacerdotessa di Apollo delfico. La località, che ancora oggi ha mantenuto le originarie caratteristiche, aveva infatti due insenature divise da un promontorio, abbondanti sorgenti d’acqua, fertili terreni ed una retrostante zona dove fu poi impiantato una piccola acropoli ed santuario dedicato ad Atena. Soprattutto costituiva una tappa intermedia verso Taranto, la vera destinazione finale la cui occupazione presupponeva però adeguati preparativi per debellare gli Iapigi. Questi, denominati anche Messapi, costituivano l’elemento indigeno già insediato attorno al porto di Taranto, che fu sconfitto quando i coloni spartani si allearono con gli Achei (Strabone, VI, 3,3). La partenza di Falanto e dei Partheni avvenne a detta dei più nel706 A.C.. Altri particolari non ne conosciamo. Possiamo supporre che la spedizione ebbe inizio in un giorno di fine estate quando il clima è ancora buono e da sud-est spirano prevalentemente venti moderati di scirocco, quei venti che nel Golfo di Taranto sono do-minanti e che dal Peloponneso sono in grado di sospingere una nave a vela verso le coste del Salento.

Al tempo le navi da trasporto erano dotate di una vela quadra e potevano raggiungere anche dimensioni di una ventina di metri di lunghezza e 5 di larghezza, con un rapporto di 4 ad 1 (la tipica imbarcazione militare era invece la trireme con una chiglia più slanciata). La velocità poteva essere verosimilmente, con condizioni meteomarine favorevoli, di 4-5 miglia all’ora. La navigazione, come si deduce da alcuni passi dell’Odissea, era prevalentemente costiera per la difficoltà di orientarsi di notte con la posizione di alcune stelle (l’Orsa Maggiore e le Plejadi) e di giorno con il corso del sole se oscurato dalle nubi. Rilevanti erano anche le esigenze di riposarsi e di rifornirsi di acqua e cibo, nonché la necessità di ridossarsi in qualche insenatura in caso di improvviso arrivo di una burrasca.

Se pensiamo oggi ai pescherecci di qualche decina di metri che raggiungono le nostre coste dall’Africa con centinaia di migranti possiamo immaginare quel che avvenne alla partenza della spedizione da Sparta. Una colonia poteva difatti essere fondata solo da un cospicuo numero di uomini e donne pronte ad affrontare assieme sacrifici e conflitti con le popolazioni locali. In un giorno, forse di settembre, in cui le condizioni di mare evento apparivano favorevoli, su una decina di navi ormeggiate nel porto di Gýtheion (che ancora oggi è lo sbocco di Sparta al mare nel Golfo Laconico), dopo aver celebrato un rito propiziatorio in onore di Athena, si imbarcarono un migliaio di partheni spartani.

carta di soleto v secolo

La carta di Soleto, coccio scoperto il 21 agosto
del 2003 a Soleto (provincia di Lecce), nel corso
di scavi archeologici condotti per conto del
CERCAM (Università di Paul Valàr), da Thierry Van
Compernolle. Si tratta di un ostrakon, ovvero un
frammento di un vaso attico smaltato di nero, sul
quale è incisa la linea costiera della penisola
salentina e tredici toponimi le cui posizioni sono
indicati da punti. Sulla sinistra si legge chiaramente TARAS

Come bene è stato detto, “una piccola flotta di navi da carico a vela con doppie file di remi dové essere allestita per poter imbarcare i rematori, i marinai esperti della navigazione, gli equipaggi formati da uomini armati, nonché le donne e le masserizie” (Presicci, 34). Le navi, superato il Peloponneso, assunsero la rotta di nord-ovest costeggiando la Messenia, e le Isole di Zante, Cefalonia, Itaca e Corfù, per poi dirigere verso la Japigia (forse nei pressi dell’odierna Tricase). Attraversato il Canale d’Otranto la spedizione passò allargo di Capo Japigio (Santa Maria di Leuca) per poi riprendere la rotta verso nord-ovest.

Oramai le navi erano nel Golfo di Taranto e, dopo essersi fermate in qualche altro approdo costiero come quelli odierni di Ugento e Gallipoli, raggiunsero la meta del Promontorio di Saturo. D’altronde la conformazione della costa salentina era ben conosciuta dalle genti greche anche prima dell’avvio della colonizzazione. Non a caso essa è riportata abbastanza fedelmente nella Mappa di Soleto, frammento di un vaso che si ritiene risalga al VI sec. a.C.. Dopo l’insediamento temporaneo a Saturo i coloni spartani (detti Lacédemoni dal nome del mitico re della Laconia fondatore di Sparta) mossero verso il territorio circostante il Mar Grande ed il Mar Piccolo. Alleandosi con gli Achei, riuscirono ad acquisirne il controllo scacciando gli Japigi.

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La città prese il nome di Τάρας dal nome dell’eroe, figlio di Poseidone, cui il mito attribuiva la nascita del primitivo insediamento urbano. Nessuno storico ci ha tramandato la memoria dei primi anni, dicerto difficili, dei Partheni, finalmente giunti al compimento della loro impresa. Sappiamo che si stabilirono sulla parte alta dell’isola posta tra i due mari che si prestava ad essere fortificata. Non è certo che si siano dedicati subito alla coltivazione delle fertili zone della campagna tarentina in cui per parecchio tempo vi dovettero essere incursioni degli Japigi. È dunque presumibile che i coloni spartani, per sopravvivere, fecero ricorso al mare da cui erano venuti e su cui ora abitavano, mettendo a frutto le loro qualità di marinai e pescatori.

Erano già marinai e pescatori, non foss’altro perché avevano affrontato con successo una lunga navigazione e perché provenivano da zone vicine al Golfo Laconico dove si praticava la raccolta dei murici. In realtà sarebbe stato difficile per chiunque non approfittare della pesca quasi miracolosa che “ i due mari fornivano ad una gran parte della popolazione. Il Mar Piccolo soprattutto, immensa rete dalla stretta apertura, attira e trattiene, dicono, novantatré specie di pesci… I vasi della regione tarentina rappresentano un’abbondante fauna marina, nella quale si distinguono pesci liscati (persico, sarago, triglia, labro, muggine, scorfano, rana), o cartilaginei (torpedine, razza,  … ), molluschi (polpo, seppia, calamaro), crostacei e mitili” (Wuilleumier, 218).

Naturale dunque che Aristotele nella Politica (VI, 5) dica che a Taranto, come a Bisanzio, “vi è assai pescatori”. La città viveva infatti sul mare e tramite il mare teneva rapporti con la madrepatria greca e le vicine colonie di Metaponto, Eraclea e Sibari. Sotto la rocca, dalla parte di Mar Piccolo, vi era una spiaggia con un basso fondale non essendo ancora stata realizzata la colmata fatta dai Bizantini attorno all’anno Mille per allargare l’abitato.

Il luogo era ideale per mettere in secca le barche da pesca. È difficile avere un’idea precisa delle capacità degli antichi marinai tarantini. Un’eco ci giunge tuttavia dalle parole dello storico romano Anneo Floro (Epitome, I, 13) quando dice: “Taranto, fondata dai Lacedemoni, in antico capitale della Calabria, di tutta la Puglia e della Lucania, nobile per grandezza delle mura e del porto e mirabile per la posizione, poiché è posta all’imboccatura del Mar Adriatico veleggia lungo tutto il litorale dell’Istria, dell’Illirico, dell’Epiro, dell’Acaia, dell’Africa, della Sicilia”.

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Coppe laconiche decorate con tonni e delfini, VII sec. a.C.
attribuite al “Pittore dei pesci” esposte al Museo
archeologico di Taranto

(da http://archeotaranto.altervista.org/archeota/taras78/laceramica.htm)

Monete tarantine sono state rinvenute in molti porti mediterranei a riprova della vitalità commerciale della locale marineria. Nella monetazione tarantina è peraltro presente a volte, oltre ai classici tipi del cavaliere e del delfino che reca in dorso Falanto, la rappresentazione di una prora, un timone o un’ancora. Anche Appiano (Samn., VII, 1) ricorda come “l’insigne valore dei Tarantini nelle cose navali si prova egregiamente nelle battaglie sostenute coi Romani”.

Con l’occupazione romana del 209 a.C. lo splendore e l’attivismo marittimo della capitale della Magna Grecia iniziò a declinare non senza averne dato un’ultima prova nella cosiddetta battaglia di Sapriporto, vale a dire Satyriportum, cioè l’odierno porto di Saturo (Willeumier,158) di cui Tito Livio (Ab Urbe Condita, XXVI, 39) ci ha lasciato questa famosa descrizione: “Verso questa flotta [romana costituita da venti navi, al comando di Quinzio] partita da Reggio si diresse, a Sapriporto, alla distanza di quasi 15 miglia da Taranto, Democrito con egual numero di navi Tarentine. Il [comandante] romano navigava a vela non immaginando di dover combattere (….) ad un certo punto, quasi nello stesso momento, mancò del tutto il vento ed il nemico apparve in vista (…) Raramente due squadre navali si affrontarono con tanta veemenza: i Tarantini (…) sperando di poter togliere [ai Romani] con una battaglia il possesso del mare (…) Le prore delle navi erano strettamente vicine le une alle altre (…) i combattenti passavano da nave a nave(…) Nicone con l’asta infilzò da parte a parte Quinzio (…) La nave ammiraglia romana venne catturata…”.

falantos e taras taranto

Didracma di argento con Falanto a cavallo, Taras su delfino,
Image courtesy of Classical Numismatic Group, LLC

La vittoria navale tarantina fu celebrata da un’iscrizione che istituiva una festa annuale celebrativa dedicata agli “dei marini e cavalieri dal Senato e dal popolo di Taranto”; sembra che si fosse anche coniata una moneta di bronzo raffigurante un’ancora racchiusa in una corona d’alloro.

Divenuta colonia romana, Taranto continuò ad essere orientata alle attività marittime grazie alle strutture portuali del Mar Piccolo ed all’abbondanza di pesci e molluschi. Lo sviluppo della vicina Brindisi, divenuta nel frattempo il principale porto romano di collegamento con l’oriente, la confinò tuttavia in un ruolo localistico incentrato sul traffico di cabotaggio

Fabio Caffio

estratto da I Mari di Taranto, Il Golfo, il Mar Grande, il Mar Piccolo, Scorpione Editrice, 2014

Bibliografia
P. WUILLEUMIERTaranto dalle origini alla conquista romana, Mandese Ed. Taranto, 1987
L. PIERRI, Come fu fondata Taranto, Taranto, 2011
PRESICCIFalanto e i Parteni, Manduria, 1990, 34
TITO LIVIOAb Urbe Condita, XXVI, Utet, 1989
ANNEO FLOROEpitome
STRABONEGeografia, Libri V e VI, Milano, 1988
APPIANOStoria di Roma, De Rebus Samn
APPIANO, Historia Romana (Ῥωμαϊκά), VII e VIII
F. CAFFIOGita in Mar Piccolo di citro in citro, Voce del Popolo, 13, 2007
F. CAFFIOTaranto scomparsa: la spiaggia della “Fontanella” all’imboccatura del Mar PiccoloCorriere del Giorno, 6, 2011
F. CAFFIOEcco com’era via Garibaldi con le sue mura, nel 1890, Corriere del Giorno, 7, 2011
F. CAFFIOCorsi e ricorsi della molluschicolturaCorriere del Giorno, 9, 2011
F. CAFFIOLeonida di Taranto, poeta di marinai e pescatoriCorriere del Giorno2, 2012
F. CAFFIO150 anni fa nasceva la nuova Taranto: la forma urbis della città nella cartografia coevaCenacolo, XXII, 2010, 75
F. CAFFIOGeopolitica del Grande Salento: perché Taranto non gli appartiene, Corriere del Giorno, 11, 2012

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I colori dell’Alba e del tramonto

Dal sito Ocean4future una spiegazione molto chiara sull'argomento a cura di Paolo Giannetti

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Scritto da Paolo Giannetti

Le luci dell’alba e del tramonto hanno spesso un colore molto diverso tra di loro. Sebbene in fondo si tratti dello stesso fenomeno, perché la luce e i colori non si diffondono nella stessa maniera?

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Innanzitutto cerchiamo di capire cos’è il colore

Tecnicamente il colore è la percezione visiva delle diverse radiazioni elettromagnetiche comprese nel cosiddetto spettro visibile. Considerando che nessuno di noi ha la stessa capacità di percepire tutti i colori nello stesso modo, ci possiamo domandare come una luce, nel suo insieme bianca,  ci viene restituita con diversi colori.

Dal punto di vista fisico la luce visibile appare complessivamente bianca se la si considera la somma di tutte le frequenze dello spettro ottico, ovvero di quella parte dello spettro elettromagnetico che cade tra il rosso ed il violetto includendo tutti i colori percepibili dall’occhio umano.

La lunghezza d’onda λ è legata al rapporto tra υ (velocità di propagazione nel mezzo) e ƒ  la frequenza dell’onda … ovvero dalla relazione:

Formula lambda

Senza andare troppo nel complesso, pensate all’arcobaleno, quel fenomeno ottico atmosferico che ci mostra uno spettro quasi continuo di di diversi colori nel cielo. Questo evento avviene quando la luce del Sole attraversa le gocce d’acqua rimaste in sospensione nell’atmosfera dopo un temporale. In pratica a causa della  dispersione ottica della luce solare che attraversa le gocce di pioggia, la luce viene prima rifratta quando entra nella superficie della goccia, poi riflessa sul retro e ancora rifratta uscendo dalla goccia. La quantità di luce rifratta dipende dalla lunghezza d’onda, e quindi restituisce all’osservatore un colore. A causa di un gioco di rifrazioni la luce rossa appare più alta nel cielo, formando i colori esterni dell’arcobaleno. Newton scoprì che era possibile scomporre i colori della luce usando un prisma.

In pratica, l’angolo di rifrazione (più alto nelle alte frequenze, e più basso nelle basse frequenze), variando a seconda della lunghezza d’onda, ci restituisce gamme di colore diverso.

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Lo spettro dei colori

Il colore dei corpi che percepiamo deriva dal fatto che ogni materiale, pur assorbendo tutte le lunghezze d’onda dello spettro visibile, riflette una o più frequenze che, mescolate tra loro, ci restituiscono il colore percepito dall’occhio umano. Un corpo bianco restituisce tutte le frequenze, uno nero nessuna.

Dopo queste premesse, torniamo alla nostra domanda iniziale. I colori delle albe e dei tramonti sono uguali?

Dato che le leggi fisiche restano invariate in entrambi i casi, a parità di condizioni atmosferiche, dovremmo avere albe identiche ai tramonti, ma in realtà questo accade solamente in particolari situazioni come,  ad esempio, in mare aperto.

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Se invece ci troviamo sulla costa, come appare nelle foto, il colore dell’alba (a sinistra) può essere diverso da quello del tramonto (a destra).

Perchè?

All’alba, il sole attraversa quasi tangenzialmente gli strati dell’atmosfera già sottoposti al raffreddamento notturno, mentre al tramonto gli stessi raggi percorrono la stessa traiettoria nell’atmosfera ma attraverso strati d’aria che sono stati riscaldati durante il giorno. La luce più rossa del tramonto è legata ad una temperatura maggiore dell’aria.

Ma questa non è l’unica causa

Entra in gioco anche la minore o maggiore quantità di polveri in sospensione nell’atmosfera: al mattino queste ultime si possono trovare in parte depositate durante la notte, permettendo alla luce di penetrare meglio nell’atmosfera, mentre alla sera, con le polveri al massimo della sospensione, i raggi solari vengono in parte assorbiti (specialmente nella banda del blu) diffondendo una luce rossastra che diviene poi via via sempre più scura.

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Anche l’umidità dell’aria ha un ruolo fondamentale

Se abbiamo un’aria più secca il colore del cielo sarà più rosso. In presenza di aria più umida il colore sarà invece più pallido (sfumato tra il bianco ed il giallo). Dato che normalmente nel nostro emisfero le perturbazioni (almeno alle nostre latitudini) provengono da Ovest, l’aria secca eventualmente presente in quella direzione (verso ponente ovvero in direzione del tramonto) è presagio di bel tempo per le ore successive e ciò spiega il proverbio: “rosso di sera bel tempo si spera“. La saggezza popolare non sbaglia mai.

In mezzo a tutte queste spiegazioni di leggi fisiche di diffusione e rifrazione, entra in gioco anche il nostro occhio, che si adatta diversamente quando la luminosità ambientale è in aumento o in diminuzione (dopo la notte l’occhio è in grado di cogliere molte più sfumature di colori), e il nostro cervello, che interpreta il tutto in modo indipendente, dà percezioni di colore che spesso sono diverse da persona a persona.

Paolo Giannetti

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Così le navi e i marinai italiani salvarono migliaia di ebrei all'ombra delle Leggi Razziali

Negli Anni Trenta le navi italiane promossero un'ampia campagna silenziosa di trasporto degli ebrei in fuga dalle persecuzioni verso gli Stati Uniti

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Le navi da trasporto italiane ebbero un ruolo decisivo nell'emigrazione di decine di migliaia di ebrei all'ombra delle leggi razziali tra il 1938 e l'entrata in guerra di Roma, nel 1940. La storia dimenticata a lungo e studiata in queste settimane dalla Fondazione Fincantieri rappresenta una pagina dimenticata della lunga tradizione navale italiana che ha come protagonisti i transatlantici tricolori che negli Anni Trenta rappresentavano eccellenze industriali e tecnologiche del nostro Paese. E rappresentarono un ormeggio sicuro per migliaia di ebrei in fuga tanto dalle leggi razziali italiane che dall'avanzata dei domini della Germania nazista, alleata del regime di Benito Mussolini.

Tra questi il Rex, importante nave che era risultato vincitore della gara per l'attraversamento atlantico del 1933, il cosiddetto Nastro Azzurro, e che trasportò oltre 30mila ebrei, secondo alcune fonti fino a 50mila, negli Stati Uniti. "Capitale" dell'esodo degli ebrei provenienti da tutta Europa era Genovaove giungevano gli ebrei provenienti dall'Austria occupata dalla Germania e dagli altri Paesi su cui era caduta l'ombra del nazismo, che nei mesi tra lo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939 e l'entrata in guerra dell'Italia nel giugno 1940 passavano da Trieste.

Molti di questi cittadini ebrei erano provenienti dalla stessa Germania. Nei gangli delle leggi razziali poterono muoversi e arrivare a Genova o Trieste, in un contesto che vedeva il Rex, costruito nello stabilimento ligure di Sestri Ponente, adattato a nave da trasporto dotato anche di organi per la cucina adatta ai riti giudaici e alla preparazione di cibo kosher.

Un'altra nave operativa in questa tratta fu il Conte di Savoia, che intensificò le tratte tra il 1939 e il 1940. Costruito a Trieste, beneficiò del lassismo del fascismo nell'applicare strettamente le regole antiebraiche sulle navi transatlantiche che si muovevano da e verso gli Stati Uniti, complice la necessità di non dannegiare economicamente il sistema di trasporto.

Il 18 marzo 1937 il rabbino americano Max Green si imbarcò addirittura come membro dell’equipaggio del Rex, garantendo la continuità dell'assistenza religiosa ai passeggeri ebrei. Francesco Tarabotto, comandante fino al 1937, e Attilio Frugone, al comando della nave fino all'inizio della guerra, garantirono la continuità dell'assistenza in nome della sacralità delle leggi del mare, ai "fuggiaschi per fato", moderni Enea in fuga dalla patria metaforicamente in fiamme e diventata inospitale, all'ombra dell'Europa totalitaria. Alcuni passaggi permisero al Rex e al Conte di Savoia di imbarcare profughi anche Cannes, città della Francia mediterrnea il cui porto era una delle tappe in cui la Società Italia di navigazione faceva sostare le navi transatlantiche.

L'eccellenza industriale nella costruzione di navi è stata ereditata in questi decenni dai Cantieri Riuniti e dalla Società Italia alla moderna Fincantieri; il ricordo storico del ruolo, silenzioso, dei bastimenti italiani nel salvataggio degli ebrei in fuga dalla persecuzione che arrivò a coinvolgere il nostro Paese si è però perso ed è doveroso ricordarlo e valorizzarlo. Una tradizione, quella del salvataggio degli ultimi da parte delle navi italiane, che decenni dopo ebbe una replica con la missione di salvataggio dei boat people vietnamiti nel 1979 ad opera degli incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria e della nave appoggio Stromboli, che navigando per oltre 3mila chilometri portarono in salvo oltre 900 persone. Un tributo silenzioso al legame di valore e identità tra il nostro Paese e il mare. Forza unificatrice tra i popoli anche nelle fasi più convulse della Storia.

FONTE:Logo ilgiornalepuntoit

News Marina Militare,, Così le navi e i marinai italiani salvarono migliaia di ebrei all'ombra delle Leggi Razziali

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Affondando nel blu, i misteri dei canyon sottomarini e dei vortici oceanici profondi

Un altro interessantissimo articolo dal sito Ocean4future

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Cosa sappiamo dei fondali abissali?
Per assurdo gli abissi del mare sono ancora un mistero per l’Uomo, sia dal punto di vista biologico che oceanografico. La nostra conoscenza sembra ridursi in funzione della profondità, dove la luce non penetra e tutto scompare. E’ solo grazie alla ricerca oceanografica che molti dei suoi misteri sono stati rivelati. Nelle profondità degli oceani, l’orografia in alcuni casi sembra ricalcare quella di superficie con montagne, altopiani e spaccature di dimensioni equivalenti se non maggiori del Grand canyon statunitense. Profonde fenditure che raggiungono le piane abissali, spesso estendendosi dalla costa fino al profondo bordo del mare della piattaforma.

Genesi dei canyon profondi 
Ci sono molte teorie sulla loro origine che non si escludono l’una dall’altra. Gli scienziati ritengono che i canyon si siano formati in Ere lontane a seguito di violenti fenomeni geologici e atmosferici che formarono queste gigantesche fenditure della Terra, modificando profondamente i contorni dei fondali.

canyon

Queste spaccature, originatesi milioni di anni orsono,
si spingono verso il largo, sprofondando negli abissi,
antiche testimonianze di quando i mari erano molto più bassi

Alcuni si formarono durante le glaciazioni, altri a causa del trasporto dei sedimenti generati da frane sottomarine di enormi masse di roccia. Nella loro genesi concorsero gli effetti dell’idrodinamismo (in particolare a seguito di violente tempeste) ed i movimenti orizzontali e verticali causati da eventi sismici provocati dalla frizione delle falde.  

canyon sottomarini

Profonde ferite della Terra
La ricerca oceanografica moderna ha individuato molti di questi antichi canyon che ancor oggi nascondono molti segreti. Anticamente i livelli dei mari erano più bassi a causa delle glaciazioni che occupavano gran parte del pianeta. Questi canyon erano in superficie ed ospitavano fiumi turbolenti che scavavano le pareti rocciose (come il fiume Colorado nel Grand canyon), trasportando sedimenti e detriti verso i proto mari. Con l’innalzarsi delle temperature, i ghiacci si sciolsero ed il livello dei mari si sollevò, sommergendo queste imponenti strutture geologiche. 

zhemchugcanyon

Il canyon sottomarino più grande e profondo mai scoperto è stato scoperto nel Mare di Bering ed è stato chiamato Zhemchug Canyon. Le sue dimensioni sono straordinarie; per dare un’idea è più profondo del Grand Canyon1 ed ha un rilievo verticale che scende dalla piattaforma poco profonda del Mare di Bering fino alle profondità abissali del Bacino aleutiano fino ad una profondità di 2600 metri, estendendosi su un’area di 11.350 chilometri quadrati. Il canyon di Zhemchug si divide in due rami principali, ciascuno più grande di uno dei canyon marini continentali più famosi, il Monterey Canyon.

In quelle fredde e profonde acque ricche di ossigeno, flussi di correnti trasportano nutrienti planctonici che risalgono dalle profondità del canyon verso la superficie, fornendo sostentamento a numerose forme di vita. 

zhemchug crab

Un granchio reale d’oro (Aequispinus lithodes)
su una spugna raccolti durante le ricerche nel
Zhemchug Canyon nel mare di Bering

Oltre agli aspetti geologici, il canyon di Zhemchug è quindi un habitat importante per molte specie della fauna marina oceanica. Ad esempio, mammiferi marini come le foche nordiche, i delfini e molte specie di balene vivono in quelle acque. Sulle pareti rocciose si ritrovano invertebrati, coralli e spugne. Tra di essi anche dei curiosi granchi che sono stati raccolti perla prima volta dai ricercatori della nave oceanografica M/V Esperanza che, da molti anni, studia le caratteristiche geologiche e biologiche del canyon. Nel 2016, l’oceanografa Michelle Ridgeway esplorò il canyon in una spedizione sponsorizzata da Greenpeace, raggiungendo la profondità di 536 metri sotto la superficie, scoprendo un habitat biologico straordinario.

perth bathymetry

Un altro interessante canyon marino è il Canyon di Perth, situato al largo della costa dell’Australia occidentale. Secondo gli scienziati dell’Ocean Institute della University of Western Australia, che hanno condotto tra i primi l’esplorazione di questo canyon sottomarino, hanno scoperto che si estende dalla piattaforma continentale per oltre quattro chilometri sul fondo oceanico. Utilizzando sistemi di mappatura all’avanguardia ed il ROV della nave da ricerca Falkor, gli oceanografi lo hanno seguito fino ad una profondità di oltre 2000 metri, mappandone dettagliatamente 154 miglia quadrate.

perth canyon

Batimetria del grande canyon di Perth, Australia

Anche in questo caso, il canyon sommerso si è dimostrato un hot spot straordinario per la vita marina, attirando molti mammiferi marini grazie alla sua ricchezza ittica. Durante l’esplorazione i ricercatori hanno incontrato innumerevoli organismi tra cui anemoni venere ed un meraviglioso corallo dorato.

zhemchug bottom sealife

La vita sul fondo del canyon Zhemchug 

Inoltre, lungo le sue pareti, sono state catalogate numerose creature abissali tra cui stelle e coralli molli a fungo. L’esplorazione ha impiegato sistemi allo stato dell’arte, che hanno permesso di raccogliere informazioni su queste strutture geologiche ma anche di ritrovare sul fondo un glider (un veicolo autonomo subacqueo impiegato per le ricerche oceanografiche) che era scomparso due anni prima.

Probabilmente, il canyon di Perth si formò più di cento milioni di anni fa, quando un antico fiume lo generò nella regione emersa che separava l’Australia occidentale dall’India. Una zona geologica particolare in cui la crosta terrestre e la litosfera si trovano in condizioni tettoniche distensive. Sotto l’azione delle forze generate dai movimenti convettivi del mantello terrestre sottostante, la crosta e la litosfera vennero separate, creando così questa profonda spaccatura.

Lo studio di queste enormi spaccature oceaniche fornisce la possibilità di conoscere habitat straordinari dal punto di vista geologico e biologico ma anche di comprendere meglio i fenomeni profondi delle masse d’acqua.

Attraverso l’analisi dei dati satellitari sono stati scoperti fenomeni oceanografici di grande importanza in prossimità dei canyon. Ad esempio, nelle vicinanze del canyon di Perth, nel giugno del 2006, è stato osservato dallo spazio un misterioso vortice profondo di 200 chilometri di diametro posto a mille metri di profondità che potrebbe influenzare gli equilibri che regolano il clima del pianeta.

I vortici profondi
Come ricorderete, gli oceani assolvono una funzione fondamentale sul cambiamento climatico perché contribuiscono ad assorbire le emissioni di anidride carbonica in maniera significativa. Un’azione importante per la nostra sopravvivenza che, solo negli oceani meridionali, trattiene il 40% della CO2. Alcuni scienziati ritengono che queste strutture geologiche possano in qualche modo modificare la circolazione dei volumi d’acqua al punto di creare vortici profondi abissali che faciliterebbero il trasferimento dell’anidride carbonica nelle profondità dell’Oceano, influenzando di conseguenza il clima del pianeta. 

ciclo co2 oceani

La natura dei grandi vortici profondi oceanici non è conosciuta ma si ritiene che siano generati dalle interazioni delle correnti e dei venti con le strutture sottostanti. Il primo vortice abissale fu scoperto da un satellite e venne descritto dagli scienziati come una “trappola marina mortale“, in quanto capace di risucchiare molte specie viventi, comprese le larve di pesce pelagiche che sono un importante nutrimento per le forme maggiori di vita marina. Quale sia il suo ruolo negli scambi chimico fisici delle masse d’acqua è però un mistero ancora tutto da scoprire.

Vortici oceanici simili ai buchi neri

Il vortice abissale dallo spazio

In uno studio pubblicato sul Journal of Fluid Mechanics, un team di scienziati ha analizzato i dati rilevati dalle immagini satellitari ed ha presentato un interesse modello matematico che li assimila ai buchi neri nelle profondità dello spazio. Gli scienziati ritengono che i canyon sottomarini potrebbero facilitare la formazione di questi vortici, facendo convergere le forze che li generano. Una tesi interessante che richiederà ulteriori studi nelle profondità degli abissi per capirne i segreti.

1 il Grand canyon ha un’altezza rispetto alla sua base di 1857 metri

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