Ciccio e i pallini neri-Enzo Arena

Una bellissima e commovente storia, scritta dall'amico Enzo Arena, che merita una più vasta diffusione, per il significato che contiene e gli insegnamenti che emana.

DalmataComandante!” Aveva urlato di meraviglia il capo della segreteria. “Cosa sono tutti questi pallini neri?” Aveva aperto inavvertitamente il cassetto della mia scrivania e gli erano capitati tra le mani tanti fogli di carta pieni di pallini neri.
Che dire? Che fare?
Non è facile inventarsi in pochi secondi una risposta. Dovevo prendere tempo.
“Di che pallini sta parlando?” dissi.
“Come di che pallini sto parlando?! Saranno centinaia. Anzi no, forse un migliaio!”
Aveva ragione; erano proprio tanti i pallini neri che avevo fatto. Non potevo continuare a temporeggiare; dovevo inventarmi una risposta plausibile.
“Mi scusi”, gli dissi, “io vengo forse a contare i pallini suoi? A lei cosa importa dei miei pallini e di quanti sono?” Poi, vista la sua faccia sbigottita, avevo aggiunto con un sorriso: ”Sto scherzando, recluta”.
Avevo preso tempo ma ancora dovevo dare una risposta credibile. Non potevo certo dire la verità sul significato di tutti quei pallini neri. Un po’ me ne vergognavo. Alla mia età fare tutti quei pallini neri!
Anzi no! Io non me ne vergognavo e non avevo nulla di cui vergognarmi, ma lui e molti altri non avrebbero capito.
Senta Capo, ogni volta che devo scrivere con la stilografica, la provo. Mi accerto che l’inchiostro sia buono e che la penna scriva bene. Faccio perciò un pallino e poi inizio a scrivere. Certo, lei che utilizza il computer non ha di questi problemi. Mica fa un pallino prima di scrivere con il computer per provare se scrive bene!?”
Quando stavo per aggiungere che anche questa risposta era uno scherzo (perché effettivamente non pensavo di essere convincente ma cercavo solo di guadagnare ancora tempo) il capo esclamò: “Ma c’è anche qualche pallino rosso! Anzi no, aspetta uno…due…tre…quattro. Sono solo quattro rossi. Ma lei, Comandante”, aggiunse con il sorrisetto sfottente sulle labbra, “prova anche la biro rossa prima di scrivere?
“Ripeto”, dissi “Ma io vengo forse a contare i pallini neri e i pallini rossi suoi?”
Ridevo e prendevo tempo ma dovevo ancora inventarmi una giustificazione plausibile se non volevo essere considerato uno strano tipo che senza motivo riempie fogli di pallini e li conserva nel cassetto della scrivania.
Adesso il mio problema era di più difficile soluzione perché alle centinaia di pallini neri si erano aggiunti quei pochi pallini rossi (quattro per l’esattezza) apparsi qua e là.
Dovevo spiegare il perché dei pallini neri, il perché dei rossi ed il perché della grande differenza tra i rossi ed i neri.
Meno male, mi sono ritrovato a pensare, che il Capo non può mettere il naso nella “capanna dello zio Tom”. Meno male perché lì sarebbe travolto dai pallini! Se aprisse il cassetto del comodino! Mamma mia, non ci voglio pensare! La “capanna” è proprio piena, sono sparsi dappertutto i pallini. Sotto il letto, alle pareti, al soffitto…il soffitto! Quello poi…è proprio pieno.
Non so quanto tempo rimasi assorto nel pensiero del mio alloggio a me tanto caro (la cosiddetta ”Capanna dello zio Tom”) e a tutti i pallini di cui l’avevo riempito, ricordo solo che tornando alla realtà vidi il Capo ancora in attesa di una mia risposta e dalla sua faccia capii che aveva aspettato un bel po’.
Gli dissi serio: “A dire il vero, capo, è più di tre anni che faccio pallini neri; ogni giorno che ho trascorso qui è stato un giorno pieno di problemi, di preoccupazioni e di ricerca di una qualche soluzione ad un difficile problema…sono stati tanti i momenti neri e, come vede, ogni volta ho fatto un pallino nero”.
Poteva essere questa una giustificazione credibile ( e in effetti un po’ era vera) tant’è che il Capo, dopo aver riflettuto disse: “Certamente, Comandante, lei qui non conduce una vita serena; si vede proprio e…mi scusi ma…i pallini rossi?”
Ormai avevo trovato la scusa giusta. A questo punto era semplice continuare. “E’ ovvio”, dissi. “Se i pallini neri rappresentano i miei momenti neri quelli rossi…”
Non mi fece finire il discorso. “Quelli rossi”, disse il Capo, “rappresentano i suoi momenti speciali, i giorni in cui lei è stato proprio bene ed ha avuto grosse soddisfazioni. Giusto?”
“Giusto”, risposi io, “è proprio così”.
Che bugiardo che ero stato! Ma non importava; il Capo sembrava convinto ed io tirai un grosso respiro di sollievo. Non potevo certo raccontare il vero motivo dei pallini.
Come ho già detto, nessuno avrebbe capito.
Il povero Ciccio si, che avrebbe capito!
Quanto mi mancava il povero Ciccio!
Ricordo che, arrivato a Sabaudia quattro anni prima, Ciccio era stato il primo ad accogliermi. Ricordo come fosse ieri.
Sdraiato accanto all’ancora all’ingresso della caserma, nel vedermi deve aver pensato: “Questo è uno dei nostri”, mi guardò con dolcezza e scodinzolò. Mi aveva dato il benvenuto.
Aveva lo sguardo sereno e stava lì come fosse a guardia per proteggere tutti quelli che lui pensava gli appartenessero, da qualcosa di indefinibile.
Io era la prima volta che mettevo piede a Sabaudia; avevo l’animo in subbuglio e la mente piena di pensieri. Come sarebbe stata questa nuova avventura? Come avrei trascorso i prossimi tre o quattro anni?
Quant’era bella la caserma da lontano! Quant’era bella Sabaudia! Il mare, il lago, il Circeo sullo sfondo, che meraviglia! Ma io, pensavo, sono qui per lavoro, non per vacanza.
“Buongiorno comandante”, disse il marinaio che mi aveva visto arrivare, poi, accortosi che avevo la mente altrove e guardavo quel cane vecchio e malandato ma dall’aspetto altero e dignitoso: “Lui è Ciccio. Ciccio è il nostro cane e noi tutti siamo i suoi marinai. Ci vuole tanto bene e noi tutti gliene vogliamo tanto. Vedrà che anche lei gli vorrà bene”.
Ciccio, sentendo che parlavamo di lui, capì che quella era una presentazione; si alzò e continuando a scodinzolare mi si avvicinò.
“Molto lieto”, gli dissi, “io sono Enzo” e lo accarezzai. Gli volevo già bene.
In seguito, al giro del Caterattino di corsa con i marinai e con Ciccio che correva con noi per proteggerci dalle macchine che arrivavano in senso opposto, seppi che Ciccio non aveva un’età ben definita. Forse era nato con la caserma della Marina a Sabaudia.
“Comandante”, mi diceva il Capo Gamella, “io ero qui dieci anni fa e Ciccio già c’era. Allora faceva con gli atleti un giro più lungo di quello del Caterattino; doveva vederlo, non si fermava mai. Avrà dodici o tredici anni, fa il giro più corto ma continua a correre”.
Scandiva, Ciccio, gli orari della caserma; alle otto era presente all’assemblea mattinale, a mezzogiorno era il primo a portarsi verso la sala mensa. Si posizionava li davanti senza mai entrare. Aspettava fuori che i marinai gli allungassero il pranzo.
Quant’era educato Ciccio! Ma chi gli aveva insegnato l’educazione!?
Ciccio non entrava mai in mensa, non entrava mai negli uffici, non entrava mai nelle palestre.
Ciccio non entrava mai nei bar o nelle pizzerie o ristoranti di Sabaudia.
Ciccio aspettava sempre fuori. Non c’era bisogno di dirglielo, lui lo sapeva da solo. Aspettava fuori.
La vita di caserma prevedeva anche la franchigia e, dopo l’attività lavorativa e la cena, Ciccio usciva in franchigia con noi marinai. Se fuori dal barbiere, da un bar, da una pizzeria di Sabaudia c’era Ciccio, sicuramente dentro c’era qualcuno di noi.
Ricordo la mia stupida preoccupazione quando, il giorno della Pasqua dell’Atleta, dopo aver riunito in divisa tutto il personale mi avviai a piedi dalla caserma verso la chiesa dove sarebbe stata celebrata la cerimonia. Ciccio, al quale non sfuggiva niente ed era sempre presente soprattutto nelle cerimonie importanti, si era unito a noi.
Mamma mia”, pensavo, “ora come faccio se Ciccio vuole entrare in chiesa? Ci sono il Vescovo, il Sindaco, i Presidenti delle federazioni sportive. Ci sono tutti gli atleti, la chiesa è piena di gente. Si, è vero che tutti lo conoscono ma, come faccio se cerca di entrare?”
Avevano lavorato tanto i marinai per addobbare la chiesa per l’occasione, avevano tra l’altro issato il Gran Pavese e non volevo che tutta l’ammirazione per la Marina potesse essere offuscata da un cane un po’ malconcio dentro la chiesa.
Mentre ci avviavamo a piedi pensavo che avrei dovuto dare ad un marinaio il compito di tenerlo e non farlo entrare. Pensavo all’imbarazzo che avremmo provato tutti noi marinai, quando, giunti sui gradini della chiesa, Ciccio si fermò, ci guardò e si sedette.
Ci aveva detto: “Entrate pure, io vi aspetto qui”
Ma chi glielo aveva insegnato? Ciccio aspettava fuori.
Durò un’ora e mezza la cerimonia. Ci eravamo dimentica di lui ma, all’uscita, Ciccio era lì; si alzò dai gradini, si unì a noi e tutti insieme tornammo in caserma.
Eh si, era proprio impeccabile il povero Ciccio. Il primo a salutarmi al mattino con uno scodinzolio e l’ultimo a salutarmi la sera.
Quando nominammo due commissioni separate per valutare Ciccio per un avanzamento di grado, nessuno riuscì a trovare in lui un solo lato negativo.
Ciccio non era un amico qualsiasi; era l’amico con la “A” maiuscola.
I giudizi espressi dalle due commissioni furono i seguenti:
1° Commissione
Sempre presente in ogni circostanza, Ciccio è di supporto morale a tutto il personale che assiste durante gli allenamenti, durante i momenti di grandi soddisfazioni ma anche e soprattutto durante i momenti duri, portando conforto. Attento alle problematiche dell’Ente, collabora fattivamente col comando riuscendo ad attirare su di sé le simpatie degli ispettori più severi. Sempre al suo posto, riesce a non invadere mai spazi di non competenza, dando l’esempio a tutto il personale. Meritevole della massima stima e considerazione.
2° Commissione
Trattasi di cane di eccellenti qualità che emerge per tratto e capacità relazionali espresse prevalentemente con scodinzolii. Sensibile ai comportamenti del personale, cura in prima persona la correttezza dello stesso durante la franchigia mediante un’attenta e meticolosa sorveglianza.
Per le sue eccellenti qualità Ciccio è ritenuto unanimemente “essere animato di sicuro affidamento la cui mancanza di parola costituisce motivo di saggezza e superiorità”. Ci compiacciamo vivamente e lo riteniamo pianamente degno di un avanzamento di grado.
Quanto mi è stato di compagnia Ciccio!
Nella “capanna dello zio Tom”, di sera, Ciccio mi veniva spesso a trovare. Sentivo bussare alla porta, aprivo e lui mi salutava muovendo la coda. Non entrava, mi osservava da fuori e mi diceva con gli occhi: “Dai, racconta, cosa sono tutti questi pallini neri?”
Altre sere passavo io a trovare lui al Corpo di Guardia, ed al mio “Ciao Ciccio, vuoi venire in franchigia con me?” si alzava e mi seguiva. E io raccontavo.
Facevamo il giro di Sabaudia passeggiando, arrivavamo al bar vicino alla stazione dei pullman, io entravo, lui aspettava fuori. Sapeva che sarei uscito con in mano un gelato che avrei diviso con lui.
Probabilmente dopo essersi chiesto come mai io, pur essendo da solo, prendevo sempre un cono e chiedevo anche un’ostia vuota, un giorno il proprietario del bar si affacciò fuori e vide che stavo dividendo con Ciccio il mio gelato.
“Ora capisco”, mi disse sorridendo, ei io, quasi a giustificarmi: “E’ Ciccio, il nostro cane”. Sorrise ancora ed aggiunse: “Lo conosco da sempre. Ciccio è il cane della Marina ed è anche il cane di Sabaudia”.
Dopo il gelato tornavamo piano piano verso la caserma; se incontravo qualcuno con cui scambiare due chiacchiere lui mi aspettava paziente.
I marinai che escono in franchigia insieme, tornano a bordo insieme, e Ciccio era un ottimo marinaio.
Si faceva sempre più vecchio Ciccio…non ce la faceva più a camminare.
Ciccio si alzava a fatica e tutti noi ci prendevamo cura di lui; gli portavamo il pranzo al Corpo di Guardia, gli facevamo compagnia, stavamo in pena per lui. Anche se non ce la faceva più ad alzarsi aveva sempre per ognuno di noi, un movimento di coda.
Tutti gli andavamo a raccontare qualcosa e lui, con occhi dolci ed espressivi, ci ascoltava.
Io ed altri quattro marinai un giorno lo abbiamo visto chiudere gli occhi per l’ultima volta. Ci siamo guardati e poi siamo andati a piangere ognuno in un posto diverso. Io tornai nel mio ufficio, chiusi la parta e piansi. Sapevo che Ciccio mi sarebbe mancato tantissimo. Sapeva tutto dei miei pallini neri e mi capiva.
Mai nessun altro saprà la vera storia di quei pallini.
Si sparse presto la notizia che Ciccio era morto ed in caserma per un po’ di tempo il clima cambiò; non c’era più Ciccio all’assemblea del mattino, non c’era più Ciccio all’ora di mensa, agli allenamenti, alle cerimonie, in franchigia per le vie di Sabaudia.
Non c’era più il nostro amico Ciccio col suo sguardo pieno di dolcezza e saggezza. Il grande e vecchio Ciccio se n’era andato e ci mancava tanto.
Sono passati i miei quattro anni di Sabaudia, ora sono in un ufficio della capitale ed alle pareti ho appeso un piccolo quadro della meravigliosa spiaggia di Sabaudia con sullo sfondo il Circeo, una foto della “capanna dello zio Tom” ed una foto di Ciccio di guardia davanti alla caserma così come lo trovai il primo giorno in cui arrivai.
Quando guardo questi tre quadretti mi vengono le lacrime agli occhi. Mi ricordano: le persone speciali che ho conosciuto a Sabaudia; la bellezza del mare, delle dune, del lago; mi ricordano la straordinarietà di un cane amico…ed il ricordo dei pallini neri è sempre più sbiadito.
E dei pallini rossi?” Ti sei dimenticato”, direte voi.
No, non mi sono dimenticato, li ho appena menzionati, ed anche di quelli Ciccio sapeva tutto. I pallini rossi non sbiadiranno mai.
Mi ritrovo spesso tra le mani un biglietto con scritto: “Al nostro comandante per ricordargli che l’altra metà del cielo esiste ed anche l’altra parte di Sabaudia.
Ciao Sabaudia, ciao Ciccio.

Enzo Arena1 Enzo Arena

 

 

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