Una vacanza nella campagna pugliese? Eccola ...

Un posticino veramente delizioso, nella campagna ostunese

Campagna marika

Oggi vi voglio proporre un posticino veramente delizioso, nella campagna ostunese. Un posto dove potrete trascorrere vacanze più o meno lunghe ( a seconda della disponibilità ) in completo relax. Immerso nel verde della macchia mediterranea, con ulivi secolari e muretti a secco, trovate questo posticino incantevole, dove sarete accolti con affetto e simpatia dai proprietari. Da qui potrete andare in spiaggia a pochi chilometri, oppure in centro ad Ostuni. Nei dintorni potrete trovare le più belle località conosciute della Puglia :Polignano a mare (50 Km circa) Brindisi (85 Km circa) oppure la meravigliosa ed unica Valle d’Itria. Nei dintorni potrete gustare e acquistare i deliziosi prodotti tipici pugliesi

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Credetemi io ci sono stato già diverse volte ed ogni volta è una sorpresa.

Giancarlo

Ecco alcune immagini del posto e dei dintorni compresa Ostuni

 

 

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Ein erholsamer Urlaub in Apulien? In der Landschaft von Ostuni finden Sie, wonach Sie suchen. Für Informationen rufen Sie +39 388 169 8645 an

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Pietro Vassena, un genio italico che realizzò il primo mezzo sottomarino per ricerche scientifiche

Dalla Redazione di Ocean4future un interessante articolo

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Oggi vogliamo ricordare Pietro Luigi Vassena, un inventore italiano che nel secolo scorso ingegnò e sviluppò tantissime invenzioni, stupendo il mondo al punto da ottenere la laurea honoris causa in ingegneria dal Politecnico di Milano. 

pietro vassena

Pietro Luigi Vassena nacque da un famiglia di umili origini e poté studiare solo fino alla terza elementare nel suo paese di origine, Malgrate, nella produttiva area di Lecco. Dovendo lavorare come garzone nell’osteria dei genitori lasciò presto gli studi, restando però sempre affascinato dagli sviluppi della tecnologia e dal funzionamento dei macchinari. Dopo la prima guerra mondiale, dove aveva combattuto come bersagliere, lavorò presso la ditta Faini dove ebbe modo di applicare la sua inventiva ai macchinari industriali, progettando e realizzando una motocicletta da 100cc. 

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Tra le tante invenzioni, nel 1930 sperimentò e brevettò il sistema skivass, una curiosa invenzione tecnologico-sportiva a metà strada tra gli sci e la canoa per poter camminare sull’acqua.

Un passato nella regia marina e la realizzazione del C3

Pietro Vassena aveva in passato studiato il funzionamento dei sommergibili, avendo collaborato con la Regia Marina nelle ricerche per lo sviluppo dei mezzi d’assalto; in particolare, aveva realizzato un prototipo di battello subacqueo (poi costruito nello stabilimento Badoni di Lecco) che aveva lo scopo di lanciare dei siluri. Il mezzo, definito “mezzo d’assalto con siluro“, sarebbe dovuto essere capace di navigare a 45 nodi in superficie e 30 in immersione ma non ebbe seguito. A guerra finita, questa sua partecipazione alla repubblica di Salò gli costò cara; fu arrestato e messo in quello che lui chiamava il “collegio”, le vecchie scuole di via Ghislanzoni, trasformate in prigione nel 1945, immediatamente dopo la Liberazione. 

Dopo la guerra, nel 1946, a Milano continuava ad esistere la Sezione Costruzioni Navali del Ministero dell’Industria. Pietro Vassena, in cerca di aiuti concreti, si presentò in ricerca di finanziamenti per realizzare il suo sogno più grande, realizzare un batiscafo, un battello per potersi immergere a grandi profondità. Fu una visita proficua, perché gli permise di incontrare l’ingegner Guglielmo Premuda, esperto di sommergibili, che rimase incuriosito da quell’uomo così sicuro di sé, sempre ottimista nonostante avesse passato tante traversie, che parlava con competenza tecnica.  Premuda lo seguì nell’officina di via Cavour a Lecco, una piccola bottega artigianale dove Vassena aveva realizzato molte invenzioni  tra i quali un piccolo motore fuoribordo, diventando titolare di svariati brevetti.

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Per dare maggiore importanza al suo progetto, nella sua presentazione all’ingegner Premuda,  si inventò che il “C3”, era la sua terza realizzazione in quel campo. In realtà quella sigla nasceva dal fatto che quando aveva incominciato a studiare come realizzare il batiscafo, era alloggiato nella cella n° 3 del “collegio” in cui era stato recluso, le vecchie scuole di via Ghislanzoni, trasformate in prigione nel 1945, immediatamente dopo la Liberazione. 

In breve, l’inventore mostrò a Premuda un modellino del “C3” posto all’interno di una vasca. Tramite una pompa da bicicletta modificata, poteva farlo immergere o emergere; tecnicamente non era una cosa poi così innovativa ma fu l’entusiasmo di quell’uomo, le sue evidenti capacità intuitive e meccaniche a fare presa sull’ingegner Premuda che, non potendo sostenerlo finanziariamente, mandò a Lecco, suo figlio Tullio.

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Fu così che, in quella atmosfera fervente, nacque il “C3“, subito annunciato sulla stampa locale; in questa avventura lo accompagnerà, nell’autunno del 1947, Nino Turati, un ex sommergibilista di 30 anni, che si era offerto di scendere con lui, condividendo la sua esperienza pregressa.

Dopo mesi di prove di ambientamento, si diceva giocando a carte all’interno del mezzo per abituarsi a stare in uno scafo chiuso, il 19 febbraio 1948 il “C3”, caricato su un rimorchio artigianale (naturalmente costruito da Vassena) uscì dal cortile di via Cavour e venne trasportato al lago trainato da un camion. Al momento del varo, ancora una volta opportunamente pubblicizzato sulla stampa locale, il batiscafo venne messo nelle fredde e grigie acque del lago, sotto gli occhi di tanti curiosi. In quell’occasione, Vassena effettuò quattro immersioni e, domenica 6 marzo, con Turati, il figlio Angioletto, il giornalista Gian Piero Gerosa ed una signorina che aveva impulsivamente dichiarato di non aver paura.

Il “C3” incomincia a scendere ed arriva a 55 metri di profondità senza manifestare alcun problema. Vassena a questo punto è irrefrenabile e, due giorni dopo, si trasferisce con il mezzo ad Argegno, sul ramo comasco del Lario, dove le profondità sono maggiori, e scende senza equipaggio fino a 235 metri.

pietro vassena

Il 10 marzo, il “C3”,  imbragato con cavi agganciati ad una potente gru installata su un “comballo“, il caratteristico barcone del Lario, scende fino a 405 metri; quando risale, Vassena e Turati si precipitano ad aprire il portello, entusiasti.

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E’ perfettamente asciutto  ed ora bisogna scendere con l’equipaggio. Il  12 marzo otterranno il record mondiale di 412 metri raggiunto con un apparecchio semovente (cioè non con una batisfera), ad una profondità quasi quadrupla di quella cui arrivavano i sottomarini dell’epoca

pietro vassena 2

La notizia fa il giro del mondo e tutti i grandi, compreso il celebre fisico ed esploratore svizzero Auguste Piccard si recano al lago per conoscere lui e il suolo batiscafo. Anche la marina militare italiana incomincia ad interessarsi per un futuro uso scientifico. In luglio il C 3 viene trasportato nel Golfo del Tigullio, e poi a Napoli, per cercare nei pressi di Capri fondali più profondi di quelli del lago per continuare le sperimentazioni.

Le immersioni in mare

Le prime immersioni di prova hanno successo. Con lui scende con il batiscafo, anche il noto giornalista Nantas Salvalaggio, inviato del quotidiano Il Tempo. Ma l’entusiasmo e la fretta si fanno sentire.

Alle 8:45 dell’8 ottobre, mentre il batiscafo viene rimorchiato, inspiegabilmente a torretta aperta, il “C3” incomincia ad imbarcare acqua ed affonda; una superficialità che viene risolta, quattro giorni più tardi, grazie all’intervento della Marina militare, che attraverso i suoi reparti subacquei riesce ad imbragare lo scafo del sommergibile e riportarlo in superficie.

vassena

Ma non era finita: nuove leggerezze e forse troppo entusiasmo provocheranno un secondo e definitivo affondamento il 20 novembre. Dopo le opportune riparazioni, il batiscafo viene trasportato al largo dal rimorchiatore Tenace (ex US Army LT 154 – Large Tug 154), per  portarlo sulla verticale del punto scelto per tentare la discesa alla profondità di 978 metri (sempre senza equipaggio); a causa di un errore tecnico e di manovra, avviene l’improvvisa rottura di un cavo surriscaldato con il suo cedimento ed il distacco improvviso dalla gru di sostegno. Il batiscafo, ormai senza freni,  sprofonda così negli abissi su un fondale troppo alto per poter essere individuato e recuperato. 

rimorchiatore Tenace ex LT 154

Il rimorchiatore Tenace – ex LT 154

L’avventura di Pietro Vassena e del suo batiscafo C3 finirà quel giorno; la storia di un autodidatta con la terza elementare ma così creativo che nel 1940 il Politecnico di Milano gli aveva attribuito la laurea honoris causa in Ingegneria, e del C3, definito nel U.S. Navy Register il “primo mezzo sottomarino di pace, per ricerche scientifiche; ormai indebitato Vassena finirà la sua vita di sognatore in un distributore di benzina che, per i suoi meriti, l’Agip gli ha dato in concessione a Malgrate, il paese nel quale era nato il 21 aprile 1897, e dove scomparirà il 21 maggio 1967.

 

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Il faro maledetto di Tévennec

La curiosa storia del Faro di Tévennec a cura di Paola Giannelli

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di Paola Giannelli

Tévennec è una minuscola isola francese, poco più di uno scoglio, che ospita un vecchio faro, uno dei quarantotto che costellano il profilo frastagliato della regione di Finesterre, in Bretagna.
L’isolotto è adagiato su un corridoio di mare in cui i naufragi erano frequenti a causa delle correnti e di imponenti mareggiate. Non meraviglia, quindi, che i racconti tramandati su Tévennec inizino con la vicenda di un naufrago: sopravvissuto al mare, l’uomo raggiunse l’isola, ancora disabitata, per morirvi di stenti. Si può immaginare che il marinaio abbia cercato inutilmente di attirare l’attenzione delle imbarcazioni di passaggio, ma a causa delle insidie di quel tratto di mare, pochi vi si avventuravano.

Nonostante la prudenza dei naviganti, gli incidenti erano frequenti e le autorità francesi decisero di porvi rimedio con la costruzione di un faro che entrò in funzione verso la fine del 1800 quando Tévennec aveva già acquisito la nomea di isola maledetta. Si raccontava che le anime dei defunti vi facessero tappa e che la morte in persona si aggirasse su quel fazzoletto di scogli.
A presidio del faro si avvicendarono una ventina di guardiani che – con un paio di eccezioni – rinunciarono subito alla mansione, morirono in circostanze oscure o persero la ragione.
Un racconto era comune a tutti: durante le tempeste frequenti, l’isola sembrava abitata da fantasmi inquieti, in grado di produrre suoni spaventosi.
Il rumore era reale e la sua ragione è stata spiegata da una recente spedizione di speleologi. L’isolotto è percorso da un tunnel naturale: l’ingresso delle onde durante le tempeste provoca dei suoni inquietanti, simili a forti lamenti.

Nell’impossibilità di reperire personale per far funzionare il faro, nel 1910 il governo francese decise di renderlo automatico: fu il primo in Francia. Acceso giorno e notte veniva alimentato da considerevoli forniture di gas combustibile per ridurre i viaggi verso l’isolotto, a volte difficili per le condizioni del mare.

La storia di Tévennec sembrava destinata a concludersi con un faro solitario, su un’isola disabitata, presto dimenticato. Qualche anno fa, invece, un ente francese che si occupa del recupero e della valorizzazione dei fari di Francia, include Tévennec tra i fari di interesse storico.
Marc Pointud, il suo presidente, pensa di trascorrervi due mesi per riportare l’attenzione (e i possibili finanziamenti per il restauro) sul faro. Si trasferisce con le attrezzature che gli serviranno per rendere abitabile una stanza, vivere e aggiornare un blog. Anche se le comodità sono modeste, ed è quasi impossibile restare all’asciutto durante le tempeste, non demorde, porta a conclusione il suo soggiorno con la sola compagnia di due libri, ignorando l’effetto ipnotico, che si fa quasi tentazione e richiamo, delle acque in tempesta.

Curiosamente, il faro temuto per le urla e i lamenti soprannaturali ha insegnato il silenzio, perché – dopo i primi giorni – quei rumori che hanno fatto perdere il senno ad alcuni guardiani, le onde che si infrangono e i venti  non si sentono più, quasi scompaiono dalla percezione, pur essendo sempre presenti. Resta il colloquio con se stessi, che diventa una particolare forma di silenzio:

“Il silenzio è un abisso personale di redenzione. È l’alfa e l’omega del pensiero”.

 

FONTE:Logo Laveranda

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Breve storia dell’autorespiratore a ossigeno – prima parte

Dal sito Ocean4future una lezione sugli autorespiratori ad ossigeno a cura di Fabio Vitale

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Scritto da Fabio Vitale

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Autorespiratore ad ossigeno (ARO) prodotto dalla Cressi
sub, completo di due bombole e di maschera simile ai
modelli usati durante la guerra dai nostri sommozzatori
… ma quando nacquero i primi autorespiratori ad ossigeno?

La nascita degli autorespiratori ad ossigeno

Questa storia, come tutte le storie che parlano di invenzioni, nasce da lontano ma si materializza verso i primi anni del 1900 quando, frutto dell’evoluzione degli studi sull’ossigeno (scoperto scientificamente nel 1771 per merito del farmacista svedese Karl William Scheele), si vedono sulle pagine dei periodici illustrati, immagini di uomini muniti di strane apparecchiature che, indossate, li rendevano al contempo mostruosi e affascinanti. Siamo negli anni del grande sviluppo industriale dove tutto era frenetico: le scoperte, la produzione industriale, l’estrazione di materie prime e soprattutto la produzione di energia utile a tutti questi processi, energia prodotta per lo più bruciando enormi quantità di carbone.

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Apparato di soccorso a ossigeno a circuito chiuso te­desco
Draeger modello 1916/1917. Il primo modello fu
commercializzato nel 1903 e subì successivamente quattro
modifiche arrivando in ultimo al modello 1916/1917.
Era sicuramente uno dei più affidabili e fu usato largamente
in tutto il mondo. (da Self-contained mine rescue
oxygen breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

La sua estrazione avveniva in miniere che si moltiplicavano a vista d’occhio e con esse cresceva anche il numero degli incidenti e dei minatori coinvolti nelle viscere della terra. Incidenti dovuti alla presenza, naturale in questi giacimenti, del grisou, un gas inodore e incolore contenente prevalentemente metano, molto infiammabile che già a una percentuale intorno al 7/10% costituiva una miscela esplosiva molto potente. L’accumulo di questo gas nelle gallerie provocava spesso delle esplosioni e degli incendi che rendevano la miniera impraticabile per lo sviluppo dei fumi tossici. Proprio per prestare soccorso ai minatori coinvolti in questi incidenti, si sviluppò quindi l’autorespiratore a ricircolo di ossigeno che permetteva di addentrarsi in ambienti invasi da gas tossici senza correre il rischio di rimanerne avvelenati. Erano facili da usare, assolutamente pratici perché autonomi e non necessitavano di manichette di rifornimento da trascinarsi appresso.

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Apparato inglese a ossigeno a circuito chiuso Fleuss-Proto
costruito dalla Siebe & Gorman. Derivava da uno dei primi
autorespiratori a ossigeno a circuito chiuso ideato dal
pioniere inglese Henry Albert Fleuss nel 1878/79. Venne
adottato principalmente dalle forze armate in­glesi e
americane (da Self-contained mine rescue oxygen
breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

L’operatore respirava l’ossigeno fatto affluire all’interno di un “sacco polmone” secondo la tecnica del circuito chiuso. In pratica, si inspirava l’ossigeno posto all’interno di questo sac­co e, sempre nello stesso sacco, veniva espirata l’aria proveniente dai polmoni, ric­ca quindi di anidride carbonica e con il residuo ossigeno non utilizzato. Il gas espirato pri­ma di arrivare nel sacco polmone passava at­traverso un filtro riempito di un composto chimico a base di soda che serviva a trattenere la dannosa CO2.

Al sacco erano collegate una o più bombole di ossigeno che lo facevano affluire nel sacco in quanto necessario a reintegrare quello consumato du­rante la respirazione. In questo modo si pote­va respirare senza contatto con l’atmosfera esterna, dove potevano essere pr­esenti i gas venefici. Sfogliando libri e cataloghi dell’epoca vediamo come la maggior parte di questi autorespiratori venisse prodotta dalle stesse aziende molto attive nel campo subacqueo e cioè nella produzione di apparecchiature da palombaro. E’ evidente che l’esperienza cumulata nella ricerca sulle apparecchiature di immersione favoriva tutto quello che ruotava sui sistemi di respirazione.

 

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Apparato americano a ossigeno a circuito chiuso McCaan.
Raccoglieva le esperienze tedesche e inglesi in un
autorespiratore molto compatto (da Self-con­tained mine
rescue oxygen breathing apparatus, Bureau of Mines, Washington 1929).

 

Dall’uso “terrestre” a quello subacqueo il passo fu breve, anche se la cosa, in fin dei conti, non prese un grande sviluppo. Infatti, l’uso dell’ossigeno puro come gas respiratorio per le apparecchiature subacquee poneva forti limiti per la sua tossicità se respirato sotto pressione. Inoltre non si riusciva a vedere l’utilità operativa di un uomo sott’acqua munito di tale autorespiratore così limitato (non dimentichiamoci che le pinne non erano ancora state sviluppate), per lavorare sott’acqua l’attrezzatura riconosciuta era solo lo scafandro da palombaro e niente avrebbe potuto prenderne il posto. L’unico uso che se ne fece fino alle soglie della seconda Guerra Mondiale fu quello di autorespiratore di emergenza per la fuoriuscita dai sommergibili in avaria. Per vederlo trasformato da brutto anatroccolo in cigno dovremo attendere il genio di due italiani che indirettamente ne decreteranno il successo.

Sono interessanti i disegni del brevetto dell’apparato di respirazione a ossigeno a circuito chiuso depositato da Fleuss nel 1879. Come si può evincere dal disegno, attraver­so l’uso di uno scafandro da palombaro modificato, era stato previsto anche un uso subacqueo per questo di­spositivo. Fleuss non fece altro che migliorare e rende­re fruibile quanto già ideato verso la metà del 1800. In­fatti, a tale periodo si possono ricondurre le prime rea­lizzazioni di un autorespiratore a circuito chiuso costi­tuito da bombole di ossigeno e un contenitore con all’interno i reagenti chimici in grado di fissare la CO2.

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Si trattava dell’apparato del francese Sandala del 1842 e di quello di un altro francese, de Saint-Simon Siccard del 1849. Le prime sperimentazioni subacquee di questi apparati furono spesso rischiose e sarà solo nel 1879, grazie a Paul Bert, che si chiariranno gli aspetti di tossicità legati alla respirazione di ossigeno puro sotto pressione.

Fine prima parte – continua 

Fabio Vitale

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Dell’autore si consiglia la lettura dei seguenti libri:

autore amazon

Fabio Vitale1 


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La Taranto greca ed il mare

Ancora un interessante argomento di storia dal sito Ocean4future, a cura di Fabio Caffio

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Scritto da Fabio Caffio

I coloni spartani, che in un giorno del 706 a.C. presero il mare diretti verso la futura Τάρας conoscevano bene le potenzialità del territorio che andavano a colonizzare. Gli storici greci hanno tramandato varie versioni della decisione che spinse alcuni abitanti di Sparta a fondare la nuova città dopo essere stati messi al bando. Pare che essi fossero implicati in una congiura essendosi ribellati per essere stati privati dei loro diritti quali figli illegittimi nati durante l’assenza dagli Spartani impegnati nelle guerre messeniche, e perciò irrisi come Partheni.

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Strabone nella sua Geografia (VI,3,2) ricorda che i cittadini, scoperta la congiura, ordinarono a Falanto che ne era a capo di recarsi “a Delfi per interrogare il dio su di una colonia e il dio vaticinò: “Io ti ho concesso Satyrio, perché tu possa popolare la pingue regione di Taranto e diventare il flagello degli Japigi”. Il passo di Strabone ci illumina sui metodi seguiti dai Greci nella fondazione di una colonia: l’incarico veniva affidato ad un capo della spedizione, nella specie Falanto, il quale si rivolgeva prima della partenza ad un oracolo. È chiaro che l’oracolo, pur essendo una riconosciuta autorità religiosa, non vaticinava a caso la località da colonizzare, ma si rifaceva a tradizioni di viaggio precedenti aggiornate da notizie recenti.

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Nave mercantile su mosaico romano , II secolo,
140 × 187 cm. Località: Hadrumetum / Sousse (Tunisia).

Le coste del Golfo di Taranto erano frequentate, sin dal XIII secolo a.C., da popolazioni della Grecia arcaica provenienti in particolare da Creta. Sicché non deve meravigliare che l’odierno Capo Saturo situato a poche miglia da Taranto fosse stato indicato con precisione dalla Pizia, sacerdotessa di Apollo delfico. La località, che ancora oggi ha mantenuto le originarie caratteristiche, aveva infatti due insenature divise da un promontorio, abbondanti sorgenti d’acqua, fertili terreni ed una retrostante zona dove fu poi impiantato una piccola acropoli ed santuario dedicato ad Atena. Soprattutto costituiva una tappa intermedia verso Taranto, la vera destinazione finale la cui occupazione presupponeva però adeguati preparativi per debellare gli Iapigi. Questi, denominati anche Messapi, costituivano l’elemento indigeno già insediato attorno al porto di Taranto, che fu sconfitto quando i coloni spartani si allearono con gli Achei (Strabone, VI, 3,3). La partenza di Falanto e dei Partheni avvenne a detta dei più nel706 A.C.. Altri particolari non ne conosciamo. Possiamo supporre che la spedizione ebbe inizio in un giorno di fine estate quando il clima è ancora buono e da sud-est spirano prevalentemente venti moderati di scirocco, quei venti che nel Golfo di Taranto sono do-minanti e che dal Peloponneso sono in grado di sospingere una nave a vela verso le coste del Salento.

Al tempo le navi da trasporto erano dotate di una vela quadra e potevano raggiungere anche dimensioni di una ventina di metri di lunghezza e 5 di larghezza, con un rapporto di 4 ad 1 (la tipica imbarcazione militare era invece la trireme con una chiglia più slanciata). La velocità poteva essere verosimilmente, con condizioni meteomarine favorevoli, di 4-5 miglia all’ora. La navigazione, come si deduce da alcuni passi dell’Odissea, era prevalentemente costiera per la difficoltà di orientarsi di notte con la posizione di alcune stelle (l’Orsa Maggiore e le Plejadi) e di giorno con il corso del sole se oscurato dalle nubi. Rilevanti erano anche le esigenze di riposarsi e di rifornirsi di acqua e cibo, nonché la necessità di ridossarsi in qualche insenatura in caso di improvviso arrivo di una burrasca.

Se pensiamo oggi ai pescherecci di qualche decina di metri che raggiungono le nostre coste dall’Africa con centinaia di migranti possiamo immaginare quel che avvenne alla partenza della spedizione da Sparta. Una colonia poteva difatti essere fondata solo da un cospicuo numero di uomini e donne pronte ad affrontare assieme sacrifici e conflitti con le popolazioni locali. In un giorno, forse di settembre, in cui le condizioni di mare evento apparivano favorevoli, su una decina di navi ormeggiate nel porto di Gýtheion (che ancora oggi è lo sbocco di Sparta al mare nel Golfo Laconico), dopo aver celebrato un rito propiziatorio in onore di Athena, si imbarcarono un migliaio di partheni spartani.

carta di soleto v secolo

La carta di Soleto, coccio scoperto il 21 agosto
del 2003 a Soleto (provincia di Lecce), nel corso
di scavi archeologici condotti per conto del
CERCAM (Università di Paul Valàr), da Thierry Van
Compernolle. Si tratta di un ostrakon, ovvero un
frammento di un vaso attico smaltato di nero, sul
quale è incisa la linea costiera della penisola
salentina e tredici toponimi le cui posizioni sono
indicati da punti. Sulla sinistra si legge chiaramente TARAS

Come bene è stato detto, “una piccola flotta di navi da carico a vela con doppie file di remi dové essere allestita per poter imbarcare i rematori, i marinai esperti della navigazione, gli equipaggi formati da uomini armati, nonché le donne e le masserizie” (Presicci, 34). Le navi, superato il Peloponneso, assunsero la rotta di nord-ovest costeggiando la Messenia, e le Isole di Zante, Cefalonia, Itaca e Corfù, per poi dirigere verso la Japigia (forse nei pressi dell’odierna Tricase). Attraversato il Canale d’Otranto la spedizione passò allargo di Capo Japigio (Santa Maria di Leuca) per poi riprendere la rotta verso nord-ovest.

Oramai le navi erano nel Golfo di Taranto e, dopo essersi fermate in qualche altro approdo costiero come quelli odierni di Ugento e Gallipoli, raggiunsero la meta del Promontorio di Saturo. D’altronde la conformazione della costa salentina era ben conosciuta dalle genti greche anche prima dell’avvio della colonizzazione. Non a caso essa è riportata abbastanza fedelmente nella Mappa di Soleto, frammento di un vaso che si ritiene risalga al VI sec. a.C.. Dopo l’insediamento temporaneo a Saturo i coloni spartani (detti Lacédemoni dal nome del mitico re della Laconia fondatore di Sparta) mossero verso il territorio circostante il Mar Grande ed il Mar Piccolo. Alleandosi con gli Achei, riuscirono ad acquisirne il controllo scacciando gli Japigi.

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La città prese il nome di Τάρας dal nome dell’eroe, figlio di Poseidone, cui il mito attribuiva la nascita del primitivo insediamento urbano. Nessuno storico ci ha tramandato la memoria dei primi anni, dicerto difficili, dei Partheni, finalmente giunti al compimento della loro impresa. Sappiamo che si stabilirono sulla parte alta dell’isola posta tra i due mari che si prestava ad essere fortificata. Non è certo che si siano dedicati subito alla coltivazione delle fertili zone della campagna tarentina in cui per parecchio tempo vi dovettero essere incursioni degli Japigi. È dunque presumibile che i coloni spartani, per sopravvivere, fecero ricorso al mare da cui erano venuti e su cui ora abitavano, mettendo a frutto le loro qualità di marinai e pescatori.

Erano già marinai e pescatori, non foss’altro perché avevano affrontato con successo una lunga navigazione e perché provenivano da zone vicine al Golfo Laconico dove si praticava la raccolta dei murici. In realtà sarebbe stato difficile per chiunque non approfittare della pesca quasi miracolosa che “ i due mari fornivano ad una gran parte della popolazione. Il Mar Piccolo soprattutto, immensa rete dalla stretta apertura, attira e trattiene, dicono, novantatré specie di pesci… I vasi della regione tarentina rappresentano un’abbondante fauna marina, nella quale si distinguono pesci liscati (persico, sarago, triglia, labro, muggine, scorfano, rana), o cartilaginei (torpedine, razza,  … ), molluschi (polpo, seppia, calamaro), crostacei e mitili” (Wuilleumier, 218).

Naturale dunque che Aristotele nella Politica (VI, 5) dica che a Taranto, come a Bisanzio, “vi è assai pescatori”. La città viveva infatti sul mare e tramite il mare teneva rapporti con la madrepatria greca e le vicine colonie di Metaponto, Eraclea e Sibari. Sotto la rocca, dalla parte di Mar Piccolo, vi era una spiaggia con un basso fondale non essendo ancora stata realizzata la colmata fatta dai Bizantini attorno all’anno Mille per allargare l’abitato.

Il luogo era ideale per mettere in secca le barche da pesca. È difficile avere un’idea precisa delle capacità degli antichi marinai tarantini. Un’eco ci giunge tuttavia dalle parole dello storico romano Anneo Floro (Epitome, I, 13) quando dice: “Taranto, fondata dai Lacedemoni, in antico capitale della Calabria, di tutta la Puglia e della Lucania, nobile per grandezza delle mura e del porto e mirabile per la posizione, poiché è posta all’imboccatura del Mar Adriatico veleggia lungo tutto il litorale dell’Istria, dell’Illirico, dell’Epiro, dell’Acaia, dell’Africa, della Sicilia”.

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Coppe laconiche decorate con tonni e delfini, VII sec. a.C.
attribuite al “Pittore dei pesci” esposte al Museo
archeologico di Taranto

(da http://archeotaranto.altervista.org/archeota/taras78/laceramica.htm)

Monete tarantine sono state rinvenute in molti porti mediterranei a riprova della vitalità commerciale della locale marineria. Nella monetazione tarantina è peraltro presente a volte, oltre ai classici tipi del cavaliere e del delfino che reca in dorso Falanto, la rappresentazione di una prora, un timone o un’ancora. Anche Appiano (Samn., VII, 1) ricorda come “l’insigne valore dei Tarantini nelle cose navali si prova egregiamente nelle battaglie sostenute coi Romani”.

Con l’occupazione romana del 209 a.C. lo splendore e l’attivismo marittimo della capitale della Magna Grecia iniziò a declinare non senza averne dato un’ultima prova nella cosiddetta battaglia di Sapriporto, vale a dire Satyriportum, cioè l’odierno porto di Saturo (Willeumier,158) di cui Tito Livio (Ab Urbe Condita, XXVI, 39) ci ha lasciato questa famosa descrizione: “Verso questa flotta [romana costituita da venti navi, al comando di Quinzio] partita da Reggio si diresse, a Sapriporto, alla distanza di quasi 15 miglia da Taranto, Democrito con egual numero di navi Tarentine. Il [comandante] romano navigava a vela non immaginando di dover combattere (….) ad un certo punto, quasi nello stesso momento, mancò del tutto il vento ed il nemico apparve in vista (…) Raramente due squadre navali si affrontarono con tanta veemenza: i Tarantini (…) sperando di poter togliere [ai Romani] con una battaglia il possesso del mare (…) Le prore delle navi erano strettamente vicine le une alle altre (…) i combattenti passavano da nave a nave(…) Nicone con l’asta infilzò da parte a parte Quinzio (…) La nave ammiraglia romana venne catturata…”.

falantos e taras taranto

Didracma di argento con Falanto a cavallo, Taras su delfino,
Image courtesy of Classical Numismatic Group, LLC

La vittoria navale tarantina fu celebrata da un’iscrizione che istituiva una festa annuale celebrativa dedicata agli “dei marini e cavalieri dal Senato e dal popolo di Taranto”; sembra che si fosse anche coniata una moneta di bronzo raffigurante un’ancora racchiusa in una corona d’alloro.

Divenuta colonia romana, Taranto continuò ad essere orientata alle attività marittime grazie alle strutture portuali del Mar Piccolo ed all’abbondanza di pesci e molluschi. Lo sviluppo della vicina Brindisi, divenuta nel frattempo il principale porto romano di collegamento con l’oriente, la confinò tuttavia in un ruolo localistico incentrato sul traffico di cabotaggio

Fabio Caffio

estratto da I Mari di Taranto, Il Golfo, il Mar Grande, il Mar Piccolo, Scorpione Editrice, 2014

Bibliografia
P. WUILLEUMIERTaranto dalle origini alla conquista romana, Mandese Ed. Taranto, 1987
L. PIERRI, Come fu fondata Taranto, Taranto, 2011
PRESICCIFalanto e i Parteni, Manduria, 1990, 34
TITO LIVIOAb Urbe Condita, XXVI, Utet, 1989
ANNEO FLOROEpitome
STRABONEGeografia, Libri V e VI, Milano, 1988
APPIANOStoria di Roma, De Rebus Samn
APPIANO, Historia Romana (Ῥωμαϊκά), VII e VIII
F. CAFFIOGita in Mar Piccolo di citro in citro, Voce del Popolo, 13, 2007
F. CAFFIOTaranto scomparsa: la spiaggia della “Fontanella” all’imboccatura del Mar PiccoloCorriere del Giorno, 6, 2011
F. CAFFIOEcco com’era via Garibaldi con le sue mura, nel 1890, Corriere del Giorno, 7, 2011
F. CAFFIOCorsi e ricorsi della molluschicolturaCorriere del Giorno, 9, 2011
F. CAFFIOLeonida di Taranto, poeta di marinai e pescatoriCorriere del Giorno2, 2012
F. CAFFIO150 anni fa nasceva la nuova Taranto: la forma urbis della città nella cartografia coevaCenacolo, XXII, 2010, 75
F. CAFFIOGeopolitica del Grande Salento: perché Taranto non gli appartiene, Corriere del Giorno, 11, 2012

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