La rompighiaccio italiana Laura Bassi è arrivata in un punto mai raggiunto in Antartide

La nave rompighiaccio italiana Laura Bassi dall’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale ha toccato il punto più a Sud mai raggiunto da una nave, battendo un record mondiale

Rompighiaccio bassi

 

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A cura di Chiara Ammendola

Il punto più a sud del mondo. Lo ha raggiunto la nave italiana Laura Bassi, rompighiaccio impegnata nel corso della campagna oceanografica della 38° Spedizione Italiana del Programma Nazionale di Ricerche in Antartide (PNRA).

Arrivando al punto più meridionale mai raggiunto nel Mare di Ross in Antartide, la nave ha di fatto ha battuto un record del mondo. 78° 44.280’ S, Baia delle Balene, sono le coordinate del punto toccato dalla rompighiaccio che inizierà ora i campionamenti previsti nell’ambito del progetto “BIOCLEVER” coordinato dall’Istituto di scienze polari (Cnr-Isp) del Consiglio nazionale delle ricerche, grazie anche alla collaborazione dell’osservatorio marino MORSea (Università Parthenope).

Iceberg bassi

Il viaggio della nave Laura Bassi è iniziato il 17 novembre scorso quando è partita da Trieste alla volta di Ravenna, da dove ha imbarcato personale e materiali e si è diretta in Nuova Zelanda per un viaggio di 40 giorni. Il 5 gennaio la Laura Bassi ha lasciato il porto di Lyttelton e si è diretta verso il Mare di Ross, e il 4 febbraio la nave farà tappa alla stazione Mario Zucchelli in Antartide.

Sono contento del record, ma triste perché la situazione in Antartide sta cambiando così rapidamente”, il commento del capitano della nave Franko Sedmak. Nella sua lunga esperienza iniziata 40 anni fa, c'è stata nel 2017 una prima tappa in Antartide con la nave Explora, ma a quel tempo la zona dove è arrivato ora sarebbe stata difficile da raggiungere per il tropppo ghiaccio presente. “Personalmente mai avrei pensato di poter a distanza di pochi anni riscontrare un tale scioglimento del ghiaccio da riuscire a scendere tanto a sud quanto – ha continuato – forzando e osando un po', siamo riusciti a fare quest'anno”.

Pesce bassi

I primi risultati dello studio dei parametri fisici dell’acqua marina hanno evidenziato la presenza di acqua particolarmente fredda e si confermano di grande importanza per lo studio della dinamica delle correnti nel Mare di Ross. Inoltre, una prima analisi del materiale prelevato ha evidenziato un’elevata densità di stadi larvali e giovanili di specie ittiche, evidenziando la presenza di alcune varietà raramente osservate nel Mare di Ross e di una grande quantità di alghe unicellulari che denotano un’elevata produzione primaria e incoraggiano ulteriori ricerche.

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FONTE:Logo fanpage

 

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La Taranto greca ed il mare

Ancora un interessante argomento di storia dal sito Ocean4future, a cura di Fabio Caffio

taras moneta magna greca 1024x998

Scritto da Fabio Caffio

I coloni spartani, che in un giorno del 706 a.C. presero il mare diretti verso la futura Τάρας conoscevano bene le potenzialità del territorio che andavano a colonizzare. Gli storici greci hanno tramandato varie versioni della decisione che spinse alcuni abitanti di Sparta a fondare la nuova città dopo essere stati messi al bando. Pare che essi fossero implicati in una congiura essendosi ribellati per essere stati privati dei loro diritti quali figli illegittimi nati durante l’assenza dagli Spartani impegnati nelle guerre messeniche, e perciò irrisi come Partheni.

taras monete

Strabone nella sua Geografia (VI,3,2) ricorda che i cittadini, scoperta la congiura, ordinarono a Falanto che ne era a capo di recarsi “a Delfi per interrogare il dio su di una colonia e il dio vaticinò: “Io ti ho concesso Satyrio, perché tu possa popolare la pingue regione di Taranto e diventare il flagello degli Japigi”. Il passo di Strabone ci illumina sui metodi seguiti dai Greci nella fondazione di una colonia: l’incarico veniva affidato ad un capo della spedizione, nella specie Falanto, il quale si rivolgeva prima della partenza ad un oracolo. È chiaro che l’oracolo, pur essendo una riconosciuta autorità religiosa, non vaticinava a caso la località da colonizzare, ma si rifaceva a tradizioni di viaggio precedenti aggiornate da notizie recenti.

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Nave mercantile su mosaico romano , II secolo,
140 × 187 cm. Località: Hadrumetum / Sousse (Tunisia).

Le coste del Golfo di Taranto erano frequentate, sin dal XIII secolo a.C., da popolazioni della Grecia arcaica provenienti in particolare da Creta. Sicché non deve meravigliare che l’odierno Capo Saturo situato a poche miglia da Taranto fosse stato indicato con precisione dalla Pizia, sacerdotessa di Apollo delfico. La località, che ancora oggi ha mantenuto le originarie caratteristiche, aveva infatti due insenature divise da un promontorio, abbondanti sorgenti d’acqua, fertili terreni ed una retrostante zona dove fu poi impiantato una piccola acropoli ed santuario dedicato ad Atena. Soprattutto costituiva una tappa intermedia verso Taranto, la vera destinazione finale la cui occupazione presupponeva però adeguati preparativi per debellare gli Iapigi. Questi, denominati anche Messapi, costituivano l’elemento indigeno già insediato attorno al porto di Taranto, che fu sconfitto quando i coloni spartani si allearono con gli Achei (Strabone, VI, 3,3). La partenza di Falanto e dei Partheni avvenne a detta dei più nel706 A.C.. Altri particolari non ne conosciamo. Possiamo supporre che la spedizione ebbe inizio in un giorno di fine estate quando il clima è ancora buono e da sud-est spirano prevalentemente venti moderati di scirocco, quei venti che nel Golfo di Taranto sono do-minanti e che dal Peloponneso sono in grado di sospingere una nave a vela verso le coste del Salento.

Al tempo le navi da trasporto erano dotate di una vela quadra e potevano raggiungere anche dimensioni di una ventina di metri di lunghezza e 5 di larghezza, con un rapporto di 4 ad 1 (la tipica imbarcazione militare era invece la trireme con una chiglia più slanciata). La velocità poteva essere verosimilmente, con condizioni meteomarine favorevoli, di 4-5 miglia all’ora. La navigazione, come si deduce da alcuni passi dell’Odissea, era prevalentemente costiera per la difficoltà di orientarsi di notte con la posizione di alcune stelle (l’Orsa Maggiore e le Plejadi) e di giorno con il corso del sole se oscurato dalle nubi. Rilevanti erano anche le esigenze di riposarsi e di rifornirsi di acqua e cibo, nonché la necessità di ridossarsi in qualche insenatura in caso di improvviso arrivo di una burrasca.

Se pensiamo oggi ai pescherecci di qualche decina di metri che raggiungono le nostre coste dall’Africa con centinaia di migranti possiamo immaginare quel che avvenne alla partenza della spedizione da Sparta. Una colonia poteva difatti essere fondata solo da un cospicuo numero di uomini e donne pronte ad affrontare assieme sacrifici e conflitti con le popolazioni locali. In un giorno, forse di settembre, in cui le condizioni di mare evento apparivano favorevoli, su una decina di navi ormeggiate nel porto di Gýtheion (che ancora oggi è lo sbocco di Sparta al mare nel Golfo Laconico), dopo aver celebrato un rito propiziatorio in onore di Athena, si imbarcarono un migliaio di partheni spartani.

carta di soleto v secolo

La carta di Soleto, coccio scoperto il 21 agosto
del 2003 a Soleto (provincia di Lecce), nel corso
di scavi archeologici condotti per conto del
CERCAM (Università di Paul Valàr), da Thierry Van
Compernolle. Si tratta di un ostrakon, ovvero un
frammento di un vaso attico smaltato di nero, sul
quale è incisa la linea costiera della penisola
salentina e tredici toponimi le cui posizioni sono
indicati da punti. Sulla sinistra si legge chiaramente TARAS

Come bene è stato detto, “una piccola flotta di navi da carico a vela con doppie file di remi dové essere allestita per poter imbarcare i rematori, i marinai esperti della navigazione, gli equipaggi formati da uomini armati, nonché le donne e le masserizie” (Presicci, 34). Le navi, superato il Peloponneso, assunsero la rotta di nord-ovest costeggiando la Messenia, e le Isole di Zante, Cefalonia, Itaca e Corfù, per poi dirigere verso la Japigia (forse nei pressi dell’odierna Tricase). Attraversato il Canale d’Otranto la spedizione passò allargo di Capo Japigio (Santa Maria di Leuca) per poi riprendere la rotta verso nord-ovest.

Oramai le navi erano nel Golfo di Taranto e, dopo essersi fermate in qualche altro approdo costiero come quelli odierni di Ugento e Gallipoli, raggiunsero la meta del Promontorio di Saturo. D’altronde la conformazione della costa salentina era ben conosciuta dalle genti greche anche prima dell’avvio della colonizzazione. Non a caso essa è riportata abbastanza fedelmente nella Mappa di Soleto, frammento di un vaso che si ritiene risalga al VI sec. a.C.. Dopo l’insediamento temporaneo a Saturo i coloni spartani (detti Lacédemoni dal nome del mitico re della Laconia fondatore di Sparta) mossero verso il territorio circostante il Mar Grande ed il Mar Piccolo. Alleandosi con gli Achei, riuscirono ad acquisirne il controllo scacciando gli Japigi.

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La città prese il nome di Τάρας dal nome dell’eroe, figlio di Poseidone, cui il mito attribuiva la nascita del primitivo insediamento urbano. Nessuno storico ci ha tramandato la memoria dei primi anni, dicerto difficili, dei Partheni, finalmente giunti al compimento della loro impresa. Sappiamo che si stabilirono sulla parte alta dell’isola posta tra i due mari che si prestava ad essere fortificata. Non è certo che si siano dedicati subito alla coltivazione delle fertili zone della campagna tarentina in cui per parecchio tempo vi dovettero essere incursioni degli Japigi. È dunque presumibile che i coloni spartani, per sopravvivere, fecero ricorso al mare da cui erano venuti e su cui ora abitavano, mettendo a frutto le loro qualità di marinai e pescatori.

Erano già marinai e pescatori, non foss’altro perché avevano affrontato con successo una lunga navigazione e perché provenivano da zone vicine al Golfo Laconico dove si praticava la raccolta dei murici. In realtà sarebbe stato difficile per chiunque non approfittare della pesca quasi miracolosa che “ i due mari fornivano ad una gran parte della popolazione. Il Mar Piccolo soprattutto, immensa rete dalla stretta apertura, attira e trattiene, dicono, novantatré specie di pesci… I vasi della regione tarentina rappresentano un’abbondante fauna marina, nella quale si distinguono pesci liscati (persico, sarago, triglia, labro, muggine, scorfano, rana), o cartilaginei (torpedine, razza,  … ), molluschi (polpo, seppia, calamaro), crostacei e mitili” (Wuilleumier, 218).

Naturale dunque che Aristotele nella Politica (VI, 5) dica che a Taranto, come a Bisanzio, “vi è assai pescatori”. La città viveva infatti sul mare e tramite il mare teneva rapporti con la madrepatria greca e le vicine colonie di Metaponto, Eraclea e Sibari. Sotto la rocca, dalla parte di Mar Piccolo, vi era una spiaggia con un basso fondale non essendo ancora stata realizzata la colmata fatta dai Bizantini attorno all’anno Mille per allargare l’abitato.

Il luogo era ideale per mettere in secca le barche da pesca. È difficile avere un’idea precisa delle capacità degli antichi marinai tarantini. Un’eco ci giunge tuttavia dalle parole dello storico romano Anneo Floro (Epitome, I, 13) quando dice: “Taranto, fondata dai Lacedemoni, in antico capitale della Calabria, di tutta la Puglia e della Lucania, nobile per grandezza delle mura e del porto e mirabile per la posizione, poiché è posta all’imboccatura del Mar Adriatico veleggia lungo tutto il litorale dell’Istria, dell’Illirico, dell’Epiro, dell’Acaia, dell’Africa, della Sicilia”.

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Coppe laconiche decorate con tonni e delfini, VII sec. a.C.
attribuite al “Pittore dei pesci” esposte al Museo
archeologico di Taranto

(da http://archeotaranto.altervista.org/archeota/taras78/laceramica.htm)

Monete tarantine sono state rinvenute in molti porti mediterranei a riprova della vitalità commerciale della locale marineria. Nella monetazione tarantina è peraltro presente a volte, oltre ai classici tipi del cavaliere e del delfino che reca in dorso Falanto, la rappresentazione di una prora, un timone o un’ancora. Anche Appiano (Samn., VII, 1) ricorda come “l’insigne valore dei Tarantini nelle cose navali si prova egregiamente nelle battaglie sostenute coi Romani”.

Con l’occupazione romana del 209 a.C. lo splendore e l’attivismo marittimo della capitale della Magna Grecia iniziò a declinare non senza averne dato un’ultima prova nella cosiddetta battaglia di Sapriporto, vale a dire Satyriportum, cioè l’odierno porto di Saturo (Willeumier,158) di cui Tito Livio (Ab Urbe Condita, XXVI, 39) ci ha lasciato questa famosa descrizione: “Verso questa flotta [romana costituita da venti navi, al comando di Quinzio] partita da Reggio si diresse, a Sapriporto, alla distanza di quasi 15 miglia da Taranto, Democrito con egual numero di navi Tarentine. Il [comandante] romano navigava a vela non immaginando di dover combattere (….) ad un certo punto, quasi nello stesso momento, mancò del tutto il vento ed il nemico apparve in vista (…) Raramente due squadre navali si affrontarono con tanta veemenza: i Tarantini (…) sperando di poter togliere [ai Romani] con una battaglia il possesso del mare (…) Le prore delle navi erano strettamente vicine le une alle altre (…) i combattenti passavano da nave a nave(…) Nicone con l’asta infilzò da parte a parte Quinzio (…) La nave ammiraglia romana venne catturata…”.

falantos e taras taranto

Didracma di argento con Falanto a cavallo, Taras su delfino,
Image courtesy of Classical Numismatic Group, LLC

La vittoria navale tarantina fu celebrata da un’iscrizione che istituiva una festa annuale celebrativa dedicata agli “dei marini e cavalieri dal Senato e dal popolo di Taranto”; sembra che si fosse anche coniata una moneta di bronzo raffigurante un’ancora racchiusa in una corona d’alloro.

Divenuta colonia romana, Taranto continuò ad essere orientata alle attività marittime grazie alle strutture portuali del Mar Piccolo ed all’abbondanza di pesci e molluschi. Lo sviluppo della vicina Brindisi, divenuta nel frattempo il principale porto romano di collegamento con l’oriente, la confinò tuttavia in un ruolo localistico incentrato sul traffico di cabotaggio

Fabio Caffio

estratto da I Mari di Taranto, Il Golfo, il Mar Grande, il Mar Piccolo, Scorpione Editrice, 2014

Bibliografia
P. WUILLEUMIERTaranto dalle origini alla conquista romana, Mandese Ed. Taranto, 1987
L. PIERRI, Come fu fondata Taranto, Taranto, 2011
PRESICCIFalanto e i Parteni, Manduria, 1990, 34
TITO LIVIOAb Urbe Condita, XXVI, Utet, 1989
ANNEO FLOROEpitome
STRABONEGeografia, Libri V e VI, Milano, 1988
APPIANOStoria di Roma, De Rebus Samn
APPIANO, Historia Romana (Ῥωμαϊκά), VII e VIII
F. CAFFIOGita in Mar Piccolo di citro in citro, Voce del Popolo, 13, 2007
F. CAFFIOTaranto scomparsa: la spiaggia della “Fontanella” all’imboccatura del Mar PiccoloCorriere del Giorno, 6, 2011
F. CAFFIOEcco com’era via Garibaldi con le sue mura, nel 1890, Corriere del Giorno, 7, 2011
F. CAFFIOCorsi e ricorsi della molluschicolturaCorriere del Giorno, 9, 2011
F. CAFFIOLeonida di Taranto, poeta di marinai e pescatoriCorriere del Giorno2, 2012
F. CAFFIO150 anni fa nasceva la nuova Taranto: la forma urbis della città nella cartografia coevaCenacolo, XXII, 2010, 75
F. CAFFIOGeopolitica del Grande Salento: perché Taranto non gli appartiene, Corriere del Giorno, 11, 2012

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I colori dell’Alba e del tramonto

Dal sito Ocean4future una spiegazione molto chiara sull'argomento a cura di Paolo Giannetti

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Scritto da Paolo Giannetti

Le luci dell’alba e del tramonto hanno spesso un colore molto diverso tra di loro. Sebbene in fondo si tratti dello stesso fenomeno, perché la luce e i colori non si diffondono nella stessa maniera?

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Innanzitutto cerchiamo di capire cos’è il colore

Tecnicamente il colore è la percezione visiva delle diverse radiazioni elettromagnetiche comprese nel cosiddetto spettro visibile. Considerando che nessuno di noi ha la stessa capacità di percepire tutti i colori nello stesso modo, ci possiamo domandare come una luce, nel suo insieme bianca,  ci viene restituita con diversi colori.

Dal punto di vista fisico la luce visibile appare complessivamente bianca se la si considera la somma di tutte le frequenze dello spettro ottico, ovvero di quella parte dello spettro elettromagnetico che cade tra il rosso ed il violetto includendo tutti i colori percepibili dall’occhio umano.

La lunghezza d’onda λ è legata al rapporto tra υ (velocità di propagazione nel mezzo) e ƒ  la frequenza dell’onda … ovvero dalla relazione:

Formula lambda

Senza andare troppo nel complesso, pensate all’arcobaleno, quel fenomeno ottico atmosferico che ci mostra uno spettro quasi continuo di di diversi colori nel cielo. Questo evento avviene quando la luce del Sole attraversa le gocce d’acqua rimaste in sospensione nell’atmosfera dopo un temporale. In pratica a causa della  dispersione ottica della luce solare che attraversa le gocce di pioggia, la luce viene prima rifratta quando entra nella superficie della goccia, poi riflessa sul retro e ancora rifratta uscendo dalla goccia. La quantità di luce rifratta dipende dalla lunghezza d’onda, e quindi restituisce all’osservatore un colore. A causa di un gioco di rifrazioni la luce rossa appare più alta nel cielo, formando i colori esterni dell’arcobaleno. Newton scoprì che era possibile scomporre i colori della luce usando un prisma.

In pratica, l’angolo di rifrazione (più alto nelle alte frequenze, e più basso nelle basse frequenze), variando a seconda della lunghezza d’onda, ci restituisce gamme di colore diverso.

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Lo spettro dei colori

Il colore dei corpi che percepiamo deriva dal fatto che ogni materiale, pur assorbendo tutte le lunghezze d’onda dello spettro visibile, riflette una o più frequenze che, mescolate tra loro, ci restituiscono il colore percepito dall’occhio umano. Un corpo bianco restituisce tutte le frequenze, uno nero nessuna.

Dopo queste premesse, torniamo alla nostra domanda iniziale. I colori delle albe e dei tramonti sono uguali?

Dato che le leggi fisiche restano invariate in entrambi i casi, a parità di condizioni atmosferiche, dovremmo avere albe identiche ai tramonti, ma in realtà questo accade solamente in particolari situazioni come,  ad esempio, in mare aperto.

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Se invece ci troviamo sulla costa, come appare nelle foto, il colore dell’alba (a sinistra) può essere diverso da quello del tramonto (a destra).

Perchè?

All’alba, il sole attraversa quasi tangenzialmente gli strati dell’atmosfera già sottoposti al raffreddamento notturno, mentre al tramonto gli stessi raggi percorrono la stessa traiettoria nell’atmosfera ma attraverso strati d’aria che sono stati riscaldati durante il giorno. La luce più rossa del tramonto è legata ad una temperatura maggiore dell’aria.

Ma questa non è l’unica causa

Entra in gioco anche la minore o maggiore quantità di polveri in sospensione nell’atmosfera: al mattino queste ultime si possono trovare in parte depositate durante la notte, permettendo alla luce di penetrare meglio nell’atmosfera, mentre alla sera, con le polveri al massimo della sospensione, i raggi solari vengono in parte assorbiti (specialmente nella banda del blu) diffondendo una luce rossastra che diviene poi via via sempre più scura.

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Anche l’umidità dell’aria ha un ruolo fondamentale

Se abbiamo un’aria più secca il colore del cielo sarà più rosso. In presenza di aria più umida il colore sarà invece più pallido (sfumato tra il bianco ed il giallo). Dato che normalmente nel nostro emisfero le perturbazioni (almeno alle nostre latitudini) provengono da Ovest, l’aria secca eventualmente presente in quella direzione (verso ponente ovvero in direzione del tramonto) è presagio di bel tempo per le ore successive e ciò spiega il proverbio: “rosso di sera bel tempo si spera“. La saggezza popolare non sbaglia mai.

In mezzo a tutte queste spiegazioni di leggi fisiche di diffusione e rifrazione, entra in gioco anche il nostro occhio, che si adatta diversamente quando la luminosità ambientale è in aumento o in diminuzione (dopo la notte l’occhio è in grado di cogliere molte più sfumature di colori), e il nostro cervello, che interpreta il tutto in modo indipendente, dà percezioni di colore che spesso sono diverse da persona a persona.

Paolo Giannetti

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In Antartide per studiare e capire tra i ghiacci come cambia e perché il clima terrestre. I progetti della missione italiana

Tre i progetti di ricerca. Il primo per studiare "il processo di formazione delle acque dense che rappresenta uno dei motori della circolazione oceanica globale", il secondo "per analizzare sedimenti del fondale marino per misurare la variazione dell’estensione del ghiaccio marino e la temperatura del mare negli ultimi duemila anni", il terzo consiste nella cartografia del fondale marino per individuare alture e depressioni morfologiche

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Essere a bordo della rompighiaccio Laura Bassi che proprio in questi giorni sta solcando le acque lungo la costa dell’Antartide per scoprire in che modo il mare più a sud del mondo può offrire risposte sul cambiamento del clima terrestre. L’innalzamento delle temperature, anche dovute alle attività umane, ha un impatto sulle dinamiche dei ghiacci antartici che a loro volta rispondono mettendo in modo effetti a catena che potrebbero mutare l’equilibrio climatico a livello globale. Anche quest’anno i ricercatori si sono messi sulla rotta del Polo Sud per studiare i possibili cambiamenti. Si tratta della 38a campagna oceanografica nell’ambito del Programma nazionale di ricerche in Antartide (Pnra), gestito da Enea e Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Dopo una settimana di navigazione dalla Nuova Zelanda, da dove è salpata il 6 gennaio, la nave è entrata nel Mare di Ross che bagna la porzione di continente ghiacciato in cui c’è anche la stazione italiana Mario Zucchelli Station (MZS). Navigando su e giù a largo della base, la nave sta conducendo il team di 34 scienziati e tecnici che si trovano a bordo in diversi tratti lungo costa dove vengono realizzati diversi progetti, finanziati dal ministero della Ricerca, per carpire i segreti che si celano nelle fredde acque dell’Antartide.

“La nave è alla sua quarta missione antartica da quando è stata acquisita dalla comunità scientifica italiana e può navigare attraverso ghiacci fino a un metro di spessore a una velocità di 4-4.5 nodi”, spiega Franco Coren, direttore dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste, titolare formale della nave. Questa è stata usata per 20 anni dal suo precedente proprietario, ossia l’ente polare britannico British Antarctic Survey, per rifornire le proprie basi. “La nave è nata con una finalità prettamente logistica, ma abbiamo già fatto diversi sforzi per implementare la strumentazione scientifica a bordo – commenta Coren – a fine 2023 concluderemo un processo durato tre anni per installare ulteriori attrezzature per migliorare la sua idoneità per le attività di ricerca oceanografica”.

Tra le attività realizzate durante la navigazione in corso, spicca il progetto MORSea, coordinato dall’Università Parthenope di Napoli. “Il progetto, che si ripete ogni anno, mira a studiare il processo di formazione delle acque dense che rappresenta uno dei motori della circolazione oceanica globale – spiega Pasquale Castagno, ricercatore all’Universita di Messina, responsabile del progetto MORSea a bordo e coordinatore scientifico della campagna oceanografica del PNRA, “le masse d’acqua del Mare di Ross, poiche fredde e ricche di sale, sono molto pesanti e quindi sprofondano, spostandosi verso nord, mentre quelle calde dall’Equatore si dirigono verso i poli “. Lo scorrimento in direzioni opposte delle due diverse masse d’acqua con temperature diverse permette di bilanciare la distribuzione di calore sull’intero globo terrestre, mantenendo l’equilibrio climatico necessario al protrarsi delle diverse forme di vita.

In assenza di tale meccanismo, le zone con maggior irradiazione di luce solare, compreso il nostro emisfero e le aree tropicali, sarebbero sempre più calde mentre quelle nelle fasce polari sarebbero sempre più fredde. Questo ciclo si protrae da tempi incommensurabili e per comprendere come la variazione delle temperature potrebbe alterarlo in futuro è importante studiare come funzionava in passato. Per questo, al progetto MORSea si affianca l’altro progetto intitolato Greta. “Ci proponiamo di prelevare e analizzare sedimenti del fondale marino per misurare la variazione dell’estensione del ghiaccio marino e la temperatura del mare negli ultimi duemila anni”, spiega Tommaso Tesi, paleoclimatologo dell’Istituto di Scienze Polari del Cnr. L’ampiezza della copertura di ghiaccio marino, tanto maggiore quanto è più bassa la temperatura, è un aspetto chiave dell’intero processo della circolazione oceanica che mantiene l’equilibrio climatico attuale. Più è esteso il ghiaccio più elevato è il rilascio di sale in mare che accresce appunto la densità salina delle masse d’acqua che diventano così più pesanti e, discendendo in profondità, intercettano le correnti che le trasportano verso nord.

La rompighiaccio italiana Laura Bassi è arrivata in un punto mai raggiunto in Antartide

FONTE:Logo Fattoquotidiano

 

 

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Così le navi e i marinai italiani salvarono migliaia di ebrei all'ombra delle Leggi Razziali

Negli Anni Trenta le navi italiane promossero un'ampia campagna silenziosa di trasporto degli ebrei in fuga dalle persecuzioni verso gli Stati Uniti

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Le navi da trasporto italiane ebbero un ruolo decisivo nell'emigrazione di decine di migliaia di ebrei all'ombra delle leggi razziali tra il 1938 e l'entrata in guerra di Roma, nel 1940. La storia dimenticata a lungo e studiata in queste settimane dalla Fondazione Fincantieri rappresenta una pagina dimenticata della lunga tradizione navale italiana che ha come protagonisti i transatlantici tricolori che negli Anni Trenta rappresentavano eccellenze industriali e tecnologiche del nostro Paese. E rappresentarono un ormeggio sicuro per migliaia di ebrei in fuga tanto dalle leggi razziali italiane che dall'avanzata dei domini della Germania nazista, alleata del regime di Benito Mussolini.

Tra questi il Rex, importante nave che era risultato vincitore della gara per l'attraversamento atlantico del 1933, il cosiddetto Nastro Azzurro, e che trasportò oltre 30mila ebrei, secondo alcune fonti fino a 50mila, negli Stati Uniti. "Capitale" dell'esodo degli ebrei provenienti da tutta Europa era Genovaove giungevano gli ebrei provenienti dall'Austria occupata dalla Germania e dagli altri Paesi su cui era caduta l'ombra del nazismo, che nei mesi tra lo scoppio della Seconda guerra mondiale nel 1939 e l'entrata in guerra dell'Italia nel giugno 1940 passavano da Trieste.

Molti di questi cittadini ebrei erano provenienti dalla stessa Germania. Nei gangli delle leggi razziali poterono muoversi e arrivare a Genova o Trieste, in un contesto che vedeva il Rex, costruito nello stabilimento ligure di Sestri Ponente, adattato a nave da trasporto dotato anche di organi per la cucina adatta ai riti giudaici e alla preparazione di cibo kosher.

Un'altra nave operativa in questa tratta fu il Conte di Savoia, che intensificò le tratte tra il 1939 e il 1940. Costruito a Trieste, beneficiò del lassismo del fascismo nell'applicare strettamente le regole antiebraiche sulle navi transatlantiche che si muovevano da e verso gli Stati Uniti, complice la necessità di non dannegiare economicamente il sistema di trasporto.

Il 18 marzo 1937 il rabbino americano Max Green si imbarcò addirittura come membro dell’equipaggio del Rex, garantendo la continuità dell'assistenza religiosa ai passeggeri ebrei. Francesco Tarabotto, comandante fino al 1937, e Attilio Frugone, al comando della nave fino all'inizio della guerra, garantirono la continuità dell'assistenza in nome della sacralità delle leggi del mare, ai "fuggiaschi per fato", moderni Enea in fuga dalla patria metaforicamente in fiamme e diventata inospitale, all'ombra dell'Europa totalitaria. Alcuni passaggi permisero al Rex e al Conte di Savoia di imbarcare profughi anche Cannes, città della Francia mediterrnea il cui porto era una delle tappe in cui la Società Italia di navigazione faceva sostare le navi transatlantiche.

L'eccellenza industriale nella costruzione di navi è stata ereditata in questi decenni dai Cantieri Riuniti e dalla Società Italia alla moderna Fincantieri; il ricordo storico del ruolo, silenzioso, dei bastimenti italiani nel salvataggio degli ebrei in fuga dalla persecuzione che arrivò a coinvolgere il nostro Paese si è però perso ed è doveroso ricordarlo e valorizzarlo. Una tradizione, quella del salvataggio degli ultimi da parte delle navi italiane, che decenni dopo ebbe una replica con la missione di salvataggio dei boat people vietnamiti nel 1979 ad opera degli incrociatori Vittorio Veneto e Andrea Doria e della nave appoggio Stromboli, che navigando per oltre 3mila chilometri portarono in salvo oltre 900 persone. Un tributo silenzioso al legame di valore e identità tra il nostro Paese e il mare. Forza unificatrice tra i popoli anche nelle fasi più convulse della Storia.

FONTE:Logo ilgiornalepuntoit

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Non arrenderti mai amico mio, impare a cercare sempre il sole, anche quando sembra che venga la  tempesta ... e lotta!

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