Fuoco amico – La storia di Davide Cervia

Francesco Del Grosso, è stata un’odissea!

fuocoamicolastoriadidavidecUn mistero tutto italiano, l’ennesimo muro di gomma. Sono trascorsi esattamente 25 anni – lo scorso 12 settembre – dalla scomparsa di Davide Cervia, esperto di guerra elettronica di cui ancora oggi non si hanno notizie. Dopo le prime barcollanti ipotesi di un allontanamento volontario, la procura concluse che si era trattato di rapimento, rimasto fantomaticamente senza colpevoli. Al centro probabilmente un traffico d’armi internazionale e la sua qualifica di esperto con la sigla ETE/GE che lo annoverava tra i pochi tecnici a saper utilizzare strumentazioni belliche vendute all’epoca sottobanco ai paesi sotto embargo alla vigilia dello scoppio della prima guerra del Golfo. Francesco Del Grosso ci ha fatto un documentario, Fuoco Amico – La storia di Davide Cervia, il primo a ricostruire la storia di Davide. Nonostante gli atti intimidatori e le porte sbattute in faccia dai canali tradizionali, a trentatre anni Del Grosso ce l’ha fatta e da due anni porta in giro la sua creatura, la ricostruzione di questa tragica odissea umana realizzata sfruttando elementi tipici della spy story.
Un film dal percorso festivaliero fortunatissimo partito l’anno scorso con un’anteprima internazionale al Bifest, poi la distribuzione in video on demand sul canale Ownair. Solo quest’anno l’arrivo in sala tramite il circuito Movieday, una piattaforma con un catalogo online dove è l’utente stesso a decidere quando, dove e come organizzare una proiezione all’interno delle sale convenzionate.
Così il 7 luglio Fuoco amico – La storia di Davide Cervia ha avuto la sua prima proiezione in sala al Cinema Beltrade di Milano; un cammino proseguito con le tappe di Genzano (16 novembre) e Velletri (13 dicembre) e che il 21 dicembre conclude l’annata nella capitale, al Cinema dei Piccoli.

Quanti anni sono passati dal tuo primo approccio con la storia di Davide Cervia?
Il primo contatto avvenne all’incirca alla fine del 2012 . Ero stato al Festival di Roma con il film su Agostino Di Bartolomei, “11 metri”, e dopo poco fui chiamato dal giornalista di un’emittente privata per un’intervista; fu lui ad accennarmene per la prima volta proprio in quell’occasione. Non ne avevo mai sentito parlare e come me molte altre persone. Più in là mi sarei reso conto del perché conoscessero questa storia così in pochi. Poi la famiglia di Davide, in particolar modo Erika, la figlia, si mise in contatto con me, quindi iniziai a fare delle ricerche e alla fine andai a casa loro, vicino Velletri, per incontrarli. All’inizio fu abbastanza scioccante: non capivo quanto potessi essere all’altezza, ma nello stesso tempo mi sembrava talmente assurdo che questa storia non fosse stata ancora raccontata da qualcuno. All’epoca – erano passati 23 anni dalla scomparsa di Davide – c’era stato solo qualche servizio giornalistico, negli anni ’90 se ne era occupata soprattutto Donatella Raffai con “Chi l’ha visto”; “Fuoco amico” è il primo documentario dedicato al caso Cervia.

 

E poi?
Passata qualche settimana radunai il gruppo storico con cui lavoro da qualche anno e tutti mi diedero disponibilità. Diversamente non sarebbe stato possibile: ben presto mi resi conto che bussando alle solite porte – in precedenza avevo lavorato con Rai e altri broadcaster – non ci sarebbe stata nessuna possibilità di ottenere fondi, proprio per il tipo di storia che avevo scelto di raccontare.

Ne parlai con Giulia Piccione, che conoscevo dai tempi del Dams: è lei che si è fatta carico delle spese vive per girare il documentario e a quel punto eravamo pronti a partire.

Come siete riusciti a portarlo a termine?

Abbiamo lavorato tutti gratuitamente, riformulando in parte un sistema di produzione, il “the coproducers”, il quale prevede che ognuno acquisisca una quota equivalente al lavoro svolto; noi abbiamo deciso di acquisire una percentuale sugli incassi in quote paritarie, indipendentemente dal lavoro fatto.

Girare non è stato semplice…
Non potevamo dire a nessuno che stavamo girando, avevamo un piano di lavorazione di venti giorni e invece abbiamo dovuto chiudere tutto in poco più di una settimana, senza contare una serie di strani eventi che hanno rischiato di non far partire il film.

A pochi giorni dal primo ciak e a tre dall’inizio del processo civile c’è stata una detonazione proprio nella villa della famiglia di Davide, in giardino, appena fuori dal gabbiotto dove spesso cucinavano; la fecero passare per una fuga di gas, ma non lo era, gli stessi vigili se ne resero conto perché la bombola era integra e l’esplosione era venuta dall’esterno e non dall’interno. Non abbiamo mai capito se si sia trattato di un avvertimento per non far partire il film o per non far iniziare il processo civile. Anche durante le riprese non sono mancati atti di questo genere: qualcuno ha spaccato il portone di casa di uno degli intervistati, abbiamo trovato la macchina aperta in una delle poche volte in cui avevamo deciso di usarla, visto che in genere ci spostavamo sempre in treno per evitare che fossimo riconoscibili attraverso, ad esempio, il numero di targa. Siamo riusciti a superare questo clima di tensione, credo solo per una sorta di incoscienza iniziale.

Dove avete trovato il coraggio di andare avanti?
Venivo da tutt’altro genere di film, biografie più o meno sicure. All’epoca non avevo minimamente idea di cosa stessi andando a raccontare e di chi fosse coinvolto nella vicenda; probabilmente sono stato un po’ ingenuo all’epoca, ma non mi pento di averlo fatto perché se adesso se ne riparla, se siamo riusciti a sventare l’archiviazione del caso, se si è riaccesa una certa attenzione mediatica è anche merito di “Fuoco amico”.

Che tipo di materiali avete usato durante il lavoro di ricerca e ricostruzione dei fatti?
Abbiamo passato al setaccio tutti i dossier a disposizione, tutto quello che non era stato secretato, abbiamo ascoltato registrazioni e intercettazioni, letto tutti i giornali.

Che ruolo ha avuto la famiglia di Davide?
Ci ha aiutato molto. Abbiamo cercato di evitare in ogni modo che dei mitomani potessero approfittarne, come era già successo in passato alimentando false speranze.

Alla fine i discorsi della famiglia sono diventati i nostri, eravamo parte integrante.

La scelta delle persone da intervistare?
Avevamo 60 ore di girato, di cui 40 solo di interviste. Abbiamo selezionato insieme ai familiari tutte quelle persone vicine e lontane che potessero coprire l’aspetto drammaturgico del film, raccontando la parte umana, professionale e quella dell’intrigo internazionale.

Ovviamente mancava il contraddittorio…

Come mai?
È una scelta dettata da un lato dal fatto che nessuno voglia parlare di questa storia, dall’altro dalla struttura stessa del film che racconta un’odissea privata da un punto d vista pubblico, in cui il contraddittorio avrebbe spezzato l’idea principale e l’emotività. Non volevo fare un’inchiesta, ma una sorta di reportage sul campo che ci ha portato a scoprire molte cose proprio nel corso della lavorazione.

Ad esempio?
Nessuno aveva mai messo insieme tutti i pezzi di questa storia, i racconti dei libri o delle inchieste si fermano a un certo punto. Noi siamo andati oltre, scoprendo e facendo scoprire alle persone i legami fra i diversi protagonisti di questa odissea. Abbiamo aiutato a far capire che dietro il sequestro di Davide – non ha senso ormai parlare di scomparsa – c’è una macchinazione e un traffico umano. Tutti sanno che all’epoca si continuavano a vendere armi sottobanco, e per farle funzionare servivano tecnici altamente specializzati, come Davide.

Si parla di traffico d’armi per stessa ammissione del cosiddetto ‘gemello di Davide’, il collega che aveva una qualifica identica.
Anche lui è sfuggito a un sequestro, lo racconta nel film ed è proprio quello che potrebbe essere successo a Davide. Se non abbiamo ancora delle risposte su questa storia è perché evidentemente la verità non deve emergere, le persone coinvolte sono ancora in circolazione: sono stati fatti dei nomi e noi li abbiamo eliminati, ci sono stati tentativi di corruzione nei confronti della famiglia perché tacesse e dimenticasse, conosciamo il nome ma non lo abbiamo mai rivelato. E’ la storia di Davide contro Golia, di una famiglia di un piccolo centro che poi si ritrova in mezzo a traffici e intrighi internazionali, senza nessun tipo di tutela da parte di chi invece avrebbe dovuto garantirla.

La difficoltà più grande?
Ci sono voluti due anni per terminarlo girando e montando nei ritagli di tempo, l’ho definito ‘film matrioska’ perché bastava cambiare la posizione di un tassello o un argomento per non capire il passaggio successivo. La parte più difficile è stata proprio riuscire a costruire una struttura drammaturgica.
Avevo giornali, materiali audio, foto ma non avevo repertorio quindi ho dovuto inventare una serie di immagini che evocassero certe situazioni, tutto girato in semi o falsa soggettiva per restituire allo spettatore la sensazione che questa famiglia fosse braccata e spiata da un nemico senza volto o identità, tentacolare.

FONTE: Logo mondofilm

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News Marina Militare,, Davide Cervia, Fuoco amico, Francesco del Grosso

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